Wagner ti mette le ali

di Valerio Tripoli

Wagner ti mette le ali

di Valerio Tripoli

Wagner ti mette le ali

di Valerio Tripoli

Der fliegende Holländer dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia

 

Lo diciamo senza mezze misure: Der fliegende Holländer, L’olandese volante, di Richard Wagner, in esecuzione in forma di concerto all’Auditorium Parco della Musica di Roma fino a domani, venerdì 30 Marzo, è cosa eccezionale, che va ascoltata e che ci si deve regalare. Come direbbe una cara amica, questo Der fliegende Holländer dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia è una cosa ‘pazzesca’.

Principiamo così spavaldamente perché, passata la nottata, abbiamo potuto riflettere più serenamente su un ascolto che, appena terminato, ha fatto letteralmente volare noi pure, tornando a casa, e lì, nella sala di Santa Cecilia, imitare le curve del vicino stadio Olimpico, quando al Finale ultimo dire che c’è stato un boato è dir poco.

Siamo brevi: su ogni opera di Wagner le parole definitive sembrano esser state scritte ad ogni torno di dieci o quindici anni: per adesso abbiamo, tra tutti, Quirino Principe, che ci delizia con la collana La spada della dualità edita dalla Jaca musica, sicché dire noi pure non ci sembra il caso, e per brevità rimandiamo alla lampante introduzione che dell’opera scrisse a inizio del Novecento Guido Manacorda. È opera giovanile, densa di furori diremmo quasi schilleriani, con un libretto spesso ingenuo e con un primo abbozzo dei leitmotive molto spicciolo (si sentono tutti nella Ouverture), una trama musicale che a tratti sembra quella di un Verdi nei primi anni (vedi i Cori). Opera giovanile, che vista con gli occhi del Wagner della Tetralogia, per non parlare di quello del Tristan, fa quasi sorridere; ma che eccelle in bellezza, cantabilità, passione e freschezza.

La vicenda si svolge in Norvegia, ove tra scogli frastagliati trovano riparo il marinaio Daland col suo timoniere, accanto al Vascello che si scopre essere quello dell’Olandese volante, antico navarca che, nel tentativo di varcare il Capo di Buona Speranza sfidò Dio, che lo condannò a non poter morire fin quando non avesse trovato una fanciulla disposta a morire per amore per lui. Essa è la figlia di Daland, Senta, già promessa a un cacciatore del luogo, Erik. Senta dichiara fedeltà eterna all’Olandese, ma Erik le dice che aveva già a lui giurato eterna fede, sì che l’Olandese fugge disperato nella dannazione eterna, Senta si getta in mare nel tentativo di raggiungerlo, muore e ascende, insieme coll’Olandese finalmente redento, in paradiso.

Amber Wagner, Senta, soprano, è un prodigio vocale di rara bellezza; d’altronde, un nome (un cognome), una garanzia. È un’emozione ascoltare una parte per soprano così ben eseguita in anni in cui Wagner è funestato dalla miseria ordinaria delle voci che affrontano questo repertorio. Ogni suo acuto è una lama, un tuono impressionante, tanto che nessuno del pubblico tossisce (il che, a Santa Cecilia, ha dell’incredibile), quasi intimorito. Non c’è nulla di non ben eseguito: financo gli acuti più acuti, presi benissimo, sono magistralmente interrotti qualche secondo prima che possano tramutarsi in qualcosa di diverso dall’ineccepibile: un dominio assoluto per una primadonna assoluta. A un di presso viene, a parer nostro, il timoniere di Daland, il tenore Tuomas Katajala, che nella piccola parte affatto facile riesce magistralmente a superare orchestra, e coro, e a piazzare ogni nota nel punto giusto al momento giusto. Accanto a loro, nella eccellenza della serata, sta il Coro, diritto da Ciro Visco, protagonista assoluto in ogni parte e, specie, a inizio del terzo atto, quando l’opera sembra tramutata in oratorio, tanto la sua potenza è invasiva, come in un cupo Credo bruckneriano. Lode alle parti maschili, mai esecuzione corale di quest’opera fu meglio realizzata. E, sempre in questo smisurato podio sta Matti Salminem, il basso Daland, dalla carriera ultra-cinquantennale e con un controllo della parte da autentico maestro.

Scendendo dal podio, nel quale aleggiava lo stato di grazia, si trova l’Olandese, il baritono Iain Paterson, ottima vocalità e presenza scenica, ma spesso incalzato dai volumi dell’orchestra, che non riusciva a superare: scontava, poi, il trovarsi tra colleghi di prima classe, cosa che ha trasformato la sua bravura in ordinaria professionalità. Con lui sta Mikko Franck, il bravo direttore ospite principale dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, alla guida di un’orchestra sicura e garantita che, però, stavolta, ha arrancato (specie nelle parti iniziali, come in attesa di scaldarsi), e che ha però dato il meglio, di certo, nelle parti di esagitato furore, meno in quelle più intimistiche, dove mancava quel grado di intensità che Wagner sa ben raggiungere. I tempi corretti, quelli di Franck, sebbene a tratti un po’ affrettati, qualificano la sua simpatica direzione – lui si coglieva spesso a girovagare tra le prime parti di viole e violoncelli, e spesso ‘annacava’ braccio e bacchetta guardando verso il pubblico, come a farsi vedere da non sappiamo chi – come scrupolosa e attenta, sebbene non smagliante o geniale.

È un regalo, questo, che occorre farsi: andare ad ascoltare un inaspettato Wagner. Andare ad ascoltare delle vocalità impressionanti. Andare, come noi, a risollevarci. E, cosa non da poco, riuscirci pure.

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