VITE AL BIVIO TRA INFERNO E SALVEZZA: MARIKA MURRI PORTA IN SCENA LA CACCIA ALLE STREGHE DI MILLER

di Lilith

VITE AL BIVIO TRA INFERNO E SALVEZZA: MARIKA MURRI PORTA IN SCENA LA CACCIA ALLE STREGHE DI MILLER

di Lilith

VITE AL BIVIO TRA INFERNO E SALVEZZA: MARIKA MURRI PORTA IN SCENA LA CACCIA ALLE STREGHE DI MILLER

di Lilith

Da stasera, venerdì 1° Marzo e fino a domenica, sarà in scena al Teatro Azione, “Il Crogiuolo” il dramma in quattro atti di Arthur Miller.

A riadattare un testo di circa sessant’anni fa, con toni contemporanei e ad alto impatto emotivo,  provvede Marika Murri, regista,  affermata docente nella scuola del suddetto teatro, nonché collaboratrice assidua del D.a.m.s. di Roma Tre.

Nel 1953, il celebre drammaturgo statunitense scrisse un’opera ispirata a un evento storicamente accaduto come pretesto per creare un parallelismo col Maccartismo, che andava diffondendosi all’epoca.

Quando, alla fine del Seicento, due giovani fanciulle di Salem iniziarono a dare segni di squilibrio mentale, i referenti della comunità, piuttosto che approfondire la questione con degli accertamenti medici, attribuirono gli inusuali comportamenti delle  ragazze  al maligno.

Progressivamente si diffuse la voce di una presunta maledizione contro di loro, lanciata da qualche strega: divenne così necessario determinare i responsabili del malocchio e punirli secondo legge. Sulla base delle testimonianze, a cui si aggiunsero in seguito quelle di altre “possedute”, vennero processate circa centocinquanta persone.

Murri ci estranea dell’attuale, conducendoci in un Massachusetts cupo e carico di presagi angosciosi.

L’ingrediente più ricco e amaro è il conflitto. Una battaglia che ogni personaggio combatte con se stesso e col suo prossimo. Tra misura e trasgressione, menzogna a fin di salvezza e verità senza scampo, tra rettitudine e umano istinto.

Al di là dei ruoli, la giovane regista sperimenta l’affrancamento dei personaggi dai ceppi della traccia milleriana, rendendoli conformi al lato più concreto e rintracciabile nella realtà dell’esperienza.

Il personaggio cardine di John Proctor è reso bifronte, raccontato “a quattro voci”.

Si gioca tutto sull’alternanza tra il profilo più civico e retto dell’essere umano e quello più spontaneo, passionale, debole.

Questa dinamica si esprime a pieno nel confronto speculare tra le due coppie protagoniste. Da un lato, serena concordia e solidità, dall’altro tradimento, rancore. Infine perdono e struggimento. L’esito nefasto porterà i destini ad incrociarsi in un luogo di desolazione: un carcere. E infine un tribunale, per il giudizio finale.

Il clima è severo, ricco di tensione, sudore, gesti  e sguardi da nascondere, pulsioni da frenare.

La femminilità è preponderante e strisciante. Si insinua coi suoi tratti più inquetanti negli schemi degli uomini, che predicano, amministrano, tradiscono, puniscono, picchiano.

La cronologia è scorrevole ed ogni atto, grazie alla scelta stilistica di “immagini di raccordo”, si scioglie come un colore a tempera in quello seguente. Gli episodi dipingono, senza bisogno di prosa, il racconto di eventi che nell’originale sono appena accennati.

La tentazione catalizza la parte negativa e fragile dei personaggi più istintivi, più infidi, pronti a manipolare e sanzionare.

Ma non manca altresì l’equilibrio e la fortezza dell’amore più pulito, leale e scevro da ogni  egoismo.

Un dramma, solo apparentemente anacronistico, riporta sul banco degli imputati della coscienza collettiva problemi etici più che mai attuali. Primo tra tutti quello della frattura tra privato e pubblico, un’afflizione che, con varie declinazioni, prima o poi tocca tutti, in modo trasversale.

A cura di Lilith Fiorillo

 

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