Una settimana di ordinaria follia!

di Redazione The Freak

Una settimana di ordinaria follia!

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Una settimana di ordinaria follia!

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I prodromi di un 2020 incandescente in Medioriente c’erano tutti: l’escalation di provocazioni tra la Repubblica Islamica dell’Iran e gli Stati Uniti d’America avevano portato all’omicidio di un contractor americano dopo un raid missilistico contro una base militare irachena a Kirkuk, nel nord del Paese (27 Dicembre), ad un bombardamento americano in Iraq e Siria che aveva causato la morte di 25 combattenti e il ferimento di quasi 60 uomini (29 Dicembre) e soprattutto all’insurrezione di gruppi sciiti filo-iraniani, che avevano assaltato l’Ambasciata statunitense a Baghdad(31 Dicembre).

I rapporti tra gli Stati Uniti ed il Paese persiano sono tesi da decenni: Gennaio 1979, lo Scià Reza Pahlavi, garanzia di presenza occidentale americana in Iran, viene cacciato ed allo stesso tempo è richiamato in patria il “Grande Ayatollah Khomeini, che definisce gli Stati Uniti come il “Grande Satana” (espressione peraltro ripresa pochi giorni fa dall’Ayatollah Khamenei) e che comincia l’attuazione di un regime teocratico in Iran.

Neanche il più pessimista degli analisti o dei politologi contemporanei avrebbe però potuto immaginare cosa sarebbe accaduto la sera del 3 Gennaio all’aeroporto internazionale di Baghdad: un drone americano, coperto da elicotteri Apache,colpisce un convoglio e uccide alcuni uomini tra cui Qassem Soleimani e Abu Mahdi al Muhandis.

E’ un attacco mirato e apparentemente di piccole dimensioni, ma simbolicamente di enorme portata: vengono uccisi in pochi secondi il Generale delle Forze Quds (gruppo elitario dei pasdaran iraniani) ed il numero due delle forze sciite irachene, note come Forze di mobilitazione popolare.

Si è da subito espanso a macchia d’olio il terrore di un terzo conflitto mondiale (testimoniato da centinaia di migliaia di ricerche fatte da giovani americani sulle norme che riguardano il reclutamento), senza considerare alcuni fattori essenziali: gli Stati Uniti non esporrebbero mai le loro città ad un bombardamento di armi nucleari; la Russia è ancora indietro con i test missilistici e la posizione della Cina è contraria ad ogni forma di interventismo armato in ambito mediorientale; la Turchia dovrebbe, in quanto secondo contingente NATO, recitare un ruolo di primo piano che il Primo Ministro Erdogan ora non vuole certo darle; molti degli Stati coinvolti nel secondo conflitto mondiale – come Germania, Giappone ed Italia – non entrerebbero mai in guerra; l’Iran (e questo è forse l’elemento principale della questione) non ha le risorse economiche per sostenere una guerra a lungo termine, visto e considerato che le sanzioni imposte dagli Stati Uniti nel 2015 con il consenso del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno condotto ad un crollo del PIL di quasi 10 punti percentuali in quattro anni e mezzo, come riporta Il Sole 24 Ore.

Vengono però colti di sorpresa tutti i principali attori dello scenario mediorientale e, allo stesso tempo, tutto il mondo occidentale.

Le reazioni sono molteplici: l’universo sciita è in subbuglio (l’Ayatollah Khamenei minaccia una dura vendetta; il Presidente iraniano Hassan Rouhani,che solitamente utilizza toni pacati, minaccia gli Stati Uniti di “…ritorsioni che dureranno anni…”; il Ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif si rivolge alle Nazioni Unite, parlando di diritto all’autodifesa contro l’azione degli americani, definita “terroristica”, viene trasmesso un video nel quale, piangendo, il leader del leader del “Partito di Dio” libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, afferma che la resistenza e la vendetta per quanto accaduto sarebbero state responsabilità di tutti i combattenti nel mondo; il Primo Ministro dell’Iraq Abdul-Mahdi accusa il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump di aver ordito un piano per renderlo complice del raid); i tradizionali alleati degli Stati Uniti nella Regione (Arabia Saudita ed Israele) sostengono le azioni degli americani, rivendicando il loro diritto alla difesa dei propri interessi in Medioriente (dichiarazioni del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu); l’Europa è nuovamente incapace di parlare ad una voce e di prendere una posizione univoca, dividendosi tra i sostenitori dell’azione statunitense (in particolar modo il leader della Lega Matteo Salvini ed il Primo Ministro britannico Boris Johnson che afferma “…non piango di certo per la morte di Soleimani…”) e chi invece la critica (Alessandro Di Battista,ex parlamentare del Movimento 5 Stelle, Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, che si dice preoccupato delle possibili conseguenze del gesto ed il Primo Ministro francese Emmanuel Macron, il quale prima afferma come il mondo sia oggi meno sicuro e poi, come l’Alto Rappresentante UE Josep Borrell, si dice preoccupato di un possibile aggravarsi dei già fragili rapporti internazionali in Medioriente).

Ben diverse, in termini grammaticali e di significato, sono le dichiarazioni giunte da Mosca e da Pechino: la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese, i principali alleati dell’Iran, condannano come molto rischiosa la condotta avventuristica americana in Iraq e, mentre la Russia giudica pericolose le azioni volte a danneggiare Stati terzi, la Cina richiama i valori della diplomazia e delle relazioni internazionali per dirimere qualsivoglia controversia tra due o più Paesi.

Dalla Russia, così come dalla Turchia (Stato a maggioranza sunnita), vengono inviati due telegrammi di cordoglio per la perdita di Qassem Soleimani ad ulteriore conferma di come sia solido l’asse “a protezione” iraniana, che vede coinvolte la Cina, la Turchia e la Russia. A dimostrazione di questo, è confermata la notizia secondo la quale erano settimane che si tenevano esercitazioni militari tra Iran, Russia e Cina a nord dell’Oceano Indiano e nel Golfo dell’Oman.

Questa serie di reazioni ha ulteriormente contribuito a complicare la situazione mediorientale e a riaccendere i mai sopiti contrasti tra il mondo islamico sciita e quello sunnita. E’ quindi opportuno fare, a beneficio dei lettori, chiarezza sulle differenze sostanziali tra queste due arterie della religione musulmana.

Nel 632 d.C muore il Profeta Maometto e cominciano i dissapori sulla sua eredità: c’è chi pensa che essa debba essere raccolta dai suoi consanguinei (in particolar modo da Alì, cugino di Maometto) e chi pensa che spetti al padre della moglie Aisha, Abu Bakr, uno dei discepoli prediletti del Profeta. I primi prenderanno il nome di “Sciiti” (“fazione di Alì”), mentre i secondi prenderanno il nome di “Sunniti”(“Popolo della Sunna”).

Il punto di non ritorno è rappresentato dall’assassinio dell’Imam Hussein da parte di un Califfo sunnita, nipote di Maometto.

Oggi i Sunniti rappresentano circa il 75% del mondo musulmano, mentre il 20% si considera sciita (il restante 5% è considerato wahabita, un’estensione in senso conservatrice dell’Islam sunnita). I principali Paesi a maggioranza sunnita sono quelli del Golfo (Arabia Saudita in particolare), la Turchia e l’Egitto; i Paesi a maggioranza sciita sono l’Iran, il Libano, lo Yemen ed i territori rivendicati dai Palestinesi.

Sebbene entrambe le correnti siano concordi nel seguire i 5 precetti del Corano, i Sunniti considerano la “Sunna” il loro codice di comportamento, mentre gli sciiti seguono pedissequamente le parole dell’Ayatollah, considerato un riflesso divino sul suolo terrestre.

Tale excursus storico si rivela necessario per comprendere le dinamiche interne alla Regione mediorientale e soprattutto ciò che il Generale Qassem Soleimani rappresentava per l’universo sciita: secondo per carisma e per devozione solamente all’Ayatollah Khamenei. Questo secondo gli Sciiti.

Soleimani era visto come il “soldato del popolo”, “uno dei pochi Generali non corrotti”. A capo dei Pasdaran aveva condotto operazioni clandestine in tutto il Medioriente, intrattenendo rapporti di grande amicizia sia con Hamas lungo la Striscia di Gaza, che con Hezbollah in Libano. Soleimani rappresentava quindi un nemico “de facto” per gli Stati Uniti, ma soprattutto un pericolo per Arabia Saudita ed Israele. Quest’ultimo temeva infatti possibili raid missilistici nel nord del Paese, sfruttando i suoi legami con Hezbollah.

Gli Stati Uniti hanno subito rivendicato il raid del 3 Gennaio e le parole al vetriolo del Presidente Donald Trump “…Soleimani andava fatto fuori tempo fa…” hanno gettato sul fuoco ulteriore benzina.

Il Segretario di Stato Mike Pompeo ha pubblicato sul suo profilo di Twitter un video in cui gli iracheni festeggiavano la morte del Generale e questo, così come le proteste degli ultimi giorni a Teheran, dimostrano come vi sia una parte, per ora minoritaria, alla quale l’azione americana non è dispiaciuta affatto e che, contemporaneamente, contesta le interferenze iraniane in Iraq.

Il 5 Gennaio il Parlamento iracheno vota per l’immediato abbandono delle forze statunitensi dell’Iraq. Durante lo stesso giorno l’Iran afferma di non voler più rispettare gli accordi stipulati sulla non proliferazione dell’arma nucleare, ricominciando di fatto ad arricchire l’uranio.

La salma di Soleimani viene riportata in Iran e durante i tre giorni di lutto indetti dal Governo iraniano muoiono nella calca che seguiva il feretro del Generale quasi 60 persone e più di 200 restano ferite.

Si attende una risposta iraniana al raid del 3 Gennaio. Arriva l’8 Gennaio. Missili lanciati da basi militari iraniane colpiscono le due basi militari di Al-Asad (la più grande base militare americana in Iraq) e di Erbil (dove si trova parte del contingente italiano, il secondo più numeroso tra le forze occidentali in Iraq dopo quello americano). Non vi sono vittime tra i soldati e le basi rimangono quasi del tutto intatte, nonostante fonti iraniane parlino di più di 80 vittime e di basi militari completamente distrutte.

E’ il raid iraniano, considerato simbolico, a spingere il giorno seguente il Presidente Trump a chiedere di stemperare gli animi. Il Tycoon rivendica l’omicidio di Qassem Soleimani, considerato un efferato assassino e a capo delle proteste violente contro l’Ambasciata americana di Baghdad. Più di un’apertura viene fatta all’Iran, al quale Trump afferma che non verrà mai concesso di avere l’arma nucleare sotto la sua presidenza (l’arricchimento di uranio dovrebbe arrivare al 90%).

Sembra essersi chiusa una settimana decisamente fuori dall’ordinario ed invece la mattina del 9 Gennaio un Boeing 737-800 in partenza da Teheran con destinazione Kiev cade al suolo, uccidendo 176 persone, tra cui canadesi, iraniani, svedesi, tedeschi e britannici. Dopo due giorni di dichiarazioni contrastanti l’Iran ammette di aver erroneamente abbattuto il velivolo considerato all’apparenza “nemico”.

Questo evento ha rischiato di fare precipitare nuovamente la situazione, ma fortunatamente sia le parole di Donald Trump, che quelle del Presidente della Commissione Affari Esteri russa Konstantin Kosachev, hanno contribuito a placare gli animi, ma non il dolore di 176 famiglie distrutte…

di Pietro Alleva, all rights reserved

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