Una notte a caso – Racconto

di Redazione The Freak

Una notte a caso – Racconto

di Redazione The Freak

Una notte a caso – Racconto

di Redazione The Freak

Ansimava dolcemente nel mio orecchio con gli occhi chiusi nel cuscino, ascoltavo il suo respiro raccontarmi la pace e lasciavo che il profumo dei suoi capelli mi riportasse all’età dell’oro della mia adolescenza, in cui potevo ogni cosa, quando ero ogni cosa. D’un tratto, con voce bassa ma ferma mi disse – Sei un deficiente.

E’ incredibile, è irrazionale come le donne abbiano per natura una dotazione infinitamente maggiore di senno rispetto agli uomini. E’ altrettanto stupefacente come ognuna, non importa la nazionalità, il colore degli occhi, dei capelli, della pelle, è indifferente la cultura o l’educazione, delle volte persino la razza animale, ogni essere di genere femminile di questo pianeta possiede l’innata capacità di far sentire il proprio compagno l’ultimo degli stronzi. In due parole o con una particolare espressione del viso, con onde psichiche a chilometri di distanza, con un tocco della mano, un cenno del capo o due righe, il carattere saliente è l’istantaneità dell’effetto: non più di un secondo.

Avevo appena saltato il salto della quaglia. Su noi uomini, invece, girano un sacco di leggende metropolitane. In una situazione simile, ad esempio, il sentimento popolare ci vorrebbe spensierati ed incoscienti, nel post coito, intendo.

Insomma, dovremmo voltare le spalle dicendo “che sarà mai?”, montare sul puledro rigorosamente nero parcheggiato fuori casa e scomparire lungo l’orizzonte, lasciando la gravida sulla soglia, in balìa di vuote promesse, stringersi nel cappotto ad una folata di vento della sera, gli occhi pieni di amore e l’inverno alle porte.

La realtà è diversa, anche se esistono tipi del genere che ancora non hanno avuto notizia dell’esistenza di contraccettivi postumi. Gli uomini si disperano, sbattono la testa contro il muro, si fanno venire manie suicide finché la loro bella non racconta loro delle infinite possibilità offerte dalla medicina moderna e, anche allora, non sciolgono il nodo alla corda. Altri hanno crisi mistiche e pregano, lanciandosi in promesse che vanno ben al di là delle loro possibilità, divenendo così facile preda delle mire femminili che, subito, sanno come approfittare della situazione: quanti mariti avrebbero preferito avere una corda a portata di mano al momento giusto! Altri ancora si fanno prendere da uno strano fluido di iperattività in virtù del fatto che bisogna fare le cose (ma bene non sanno cosa) il prima possibile, e allora è un periodo molto produttivo. Conosco gente che in due mesi, un po’ per tenersi occupati mentre una decisione veniva presa (o così gli si faceva credere), un po’ per quella frenesia di cui parlo, è riuscita a conseguire una seconda laurea, prendendo anche la prima, se già non l’aveva. Per non parlare del consumo di alcolici! Sono quasi convinto dell’esistenza di una segretissima associazione internazionale tra produttori di tabacco e di whisky, con tanto di telefono rosso tra L’Avana e Edimburgo, che si serve di nani nanja incaricati di intrufolarsi in fabbriche, farmacie, supermercati, distributori automatici, ovunque si trovino dei preservativi, insomma, al fine di operarvi dei microscopici forellini con la cura di agopuntori cinesi.

Fortuna che gli stormi di barbagianni addestrati dalla Condom, peraltro ghiottissimi degli esseruncoli infami, vigilano attenti sull’integrità dei profilattici. In ogni caso, in situazioni del genere chi non è fumatore lo diventa e gli astemi assaltano i minibar dei motel nei quali prendono stanze, la notte, essendo tutti i bar ormai chiusi. Un amico era arrivato al punto da prepararsi ogni mattina un frullato con i mozziconi delle sigarette fumate mentre non riusciva a dormire e il dopobarba (che non gli serviva, non rasandosi ormai da diverso tempo).

Era un ragazzo molto povero, ma sono sicuro che la benedizione di un parto trigemellare gli avrà riempito il cuore di gioia e di speranza. Delle volte, alcuni, presi dalla frenesia cercano di interrompere immediatamente la supposta gravidanza, a volte con successo, ma guadagnano anche un minimo di nove mesi in un luogo in cui si impara come non avere gravidanze indesiderate a costo di un rapporto che potrebbe risultare doloroso. Poi c’è chi piange, chi si rannicchia in un angolo raccontandosi sempre le stesse cose, chi si rigira nel letto come se avesse mangiato un’aragosta viva, chi si mette a guidare e non riesce più a scendere dall’auto, chi scrive cartoline, chi corre, chi cerca di farsi piacere gli uomini, chi legge interminabili giornali… è un momento in cui nessuno cerca un lavoro, sarebbe di cattivo auspicio. Qualcuno pensa alla vita monastica e non sarebbe una cattiva idea. Tutto ciò mentre le donne risolvono il problema da sole, in un modo o nell’altro. E’ vero, ci sono anche quelli che voltano le spalle e scompaiono, ma sono una minoranza, che io sappia. Per quanto mi riguarda, a me è sempre piaciuto scostarmi dalla consuetudine, perciò le sussurrai tra i capelli – che sarà mai?

Era arrabbiata, non agitata, più che altro infastidita dal fatto di doversi vestire ed uscire alla ricerca della farmacia di turno. Le avevo detto che era sufficiente che andassi io, la sua presenza non era necessaria, non era richiesta nessuna visita né il farmacista avrebbe potuto fare altro che venderci una pillola. Niente da fare, volle venire a tutti i costi, forse per ammorbarmi ancora con le sue lagne, con i “te l’avevo detto” oppure i “a cosa pensi” e tutte quelle locuzioni che ti lavorano ai fianchi peggio di un pugile bielorusso. Mentre scendevamo i piani con l’ascensore (sempre di compagnia quando c’è da far le scale) mi balenò in mente l’ipotesi che avesse paura di non rivedermi più o che scomparissi in qualche luogo sepolto a sbronzarmi fino al mattino seguente. Ma, in fondo, eravamo a casa mia e non vedevo ragioni per cui non mi sarei potuto sbronzare fino al mattino se lo avessi voluto! Pregando di trovare al più presto un’insegna verde mi preparai al peggio. Cercai di disattivare le orecchie come quando ricarichi il credito del cellulare o tua madre ti parla al telefono, senza dare adito ad alcuna discussione. Sulla difensiva, attendevo la mia sorte, peraltro senza ragione: non ero obbligato ad essere mortificato né a farmi rovesciare addosso crisi isteriche.

Eppure rimasi in silenzio, in attesa. Ogni tanto le sbirciavo il viso, era carina, non sembrava arrabbiata e nemmeno spaventata, pareva quasi… senza argomenti, come fosse al primo giorno di scuola. Camminava piano, leggera. Ci frequentavamo da alcune settimane, era una compagnia piacevole e ci conoscevamo abbastanza perché i nostri spazzolini si dessero del tu, ma in quel momento mi sembrò di incontrarla allora per la prima volta. Ad un tratto avrei voluto baciarla.

Andavamo fianco a fianco nella notte come due studenti vampiri cui era stato affidato un progetto da fare assieme. Non diceva una parola. Perché non parlava? Non pareva incazzata, l’avresti detta “riflessiva”. Noi uomini si ha sempre eccessiva paura delle donne che pensano troppo, sembrano tramare qualcosa, da loro ci si aspetta un colpo basso, una pugnalata alla schiena, una qualche trappola magari. Eppure non è così, è il contrario, semmai. La donna perfida è simulatrice, è pressochè impossibile accorgersi di quanto sta tramando finchè il suo piano non sia riuscito e tu non ci sia cascato con anche le ciabatte! Pensai che non mi poteva conoscere così bene da sapere quanto mi piace quell’espressione che assumono certe ragazze mentre pensano al loro futuro e che mi rimanda ad un’altra dimensione, in un altro tempo. Una ad una le mie difese cadevano, scardinate dal profumo dei suoi capelli scombinati sopra il suo silenzio. A cosa stava pensando? Mi dimenticai la strada che stavamo percorrendo, ma decisi di prendermi il rischio di far saltare una diga di parole inutili.

– Un euro per i tuoi pensieri! – arrischiai.

– Non basta – rispose secca. Guardai lontano, alla ricerca di una via d’uscita, ma lei continuò – e tu? perché sei silenzioso? cinquanta centesimi per i tuoi pensieri!

Mi guardò di sottecchi sorridendo lieve, sembravamo al primo appuntamento.

– Cinquanta centesimi sono troppi per avere delle ipotesi sul nuovo allenatore dell’Inter, ma…

dammeli comunque! – scherzai.

Rise piano davanti a sé, poi mi concesse ancora uno sguardo fuggitivo.

– Hai mai sognato di diventare un calciatore, da piccolo?

Beh, questa domanda mi prese un po’ in contropiede, ma le detti corda: mi piaceva. E lei, cosa avrebbe voluto essere da grande?

– Volevo diventare veterinaria, per prendermi cura degli animaletti deboli – strana conversazione da fare per una strada deserta all’una di notte – … e poi la maestra.

La maestra nel senso “mi piacciono i bambini!?”, la conversazione cominciava a sembrarmi pericolosa.

– Tu non hai mai sognato di fare il medico o qualcosa del genere?

– No! No, no… l’astronauta, il soldato, il panettiere, l’esploratore… l’attore di film porno, ma il  medico mai. A parte quando mi improvvisavo dottore, ma quello era un gioco, diciamo.

– E anche da quello non hai imparato niente – replicò.

Dove voleva arrivare con questi discorsi così strani implicanti professioni umanitarie esercitate da figure talmente d’autorità da sembrare… paterne!? Mi stava esaminando. Vagliava la possibilità che potessi essere un buon padre… bè, un padre, perlomeno.

Dopo la sua ultima battuta, tagliente, ci fu un attimo di silenzio. Perché potessi riflettere sui miei peccati evidentemente. Non ci sarebbero dovuti essere momenti di riflessione, non per me, almeno.

Ormai avevo scoperto il suo gioco, non era diversa dalle altre, non era perfida. Sarei rimasto all’erta, sulla difensiva, e l’avrei condotta alla farmacia per la via più veloce.

– Bè, e giocavi molto al dottore da piccolo? – riprese la maliziosa.

– Più o meno… diciamo che dipendeva dalle occasioni – risposi evasino, in cerca di specchi da scalare. Cosa voleva sapere adesso? Se fossi un tipo fedele, forse?

– Mah… si, in effetti di occasioni ve ne erano molte – aggiunsi con una punta d’orgoglio.

– Allora è vero che i bambini non imparano mai un cazzo!

– Questo non è vero! Pare che sia proprio durante l’infanzia che…

– Dai, scherzavo! Lo so che i bambini sono intelligenti, in genere… – mi sbirciò con simpatia. Era innamorata.

– Ah! Oseresti dire che non ero un bambino intelligente?!

Silenzio.

Cos’era, un test sui geni?

– Si, ho pisciato a letto fino a dieci anni e non ho parlato fino ai dodici… a scrivere ho ancora seri problemi – cercai di essere serio, ma la sua risata mi informò che ne era uscita una serietà divertente.

– Allora non eri credibile come dottore… hai comprato la laurea!

– Si, lo ammetto… ho messo via un po’ di soldi rubando autoradio fino ai tredici, poi ho imparato a guidare e rubavo direttamente le macchine… poi smontavo le autoradio in tranquillità e abbandonavo le auto.

Questa faceva ridere anche me.

– E la mia famiglia: poverissima! Ci spostavamo spesso perché ci buttavano sempre fuori di casa, una volta ci aggregammo ad una carovana di zingari, ma ci cacciarono anche da quella quando sorpresero la nonna mentre smontava le ruote di una roulotte!

Grasse risate, denti bianchi, bellissimi.

– Per non parlare di mio zio che aveva addestrato la sua scimmietta a rapinare la gente che ritirava i soldi dai bancomat. Mio padre, che era ancor più povero e non poteva comprare una bestiola simile, cercò di confezionarmi un costume da bertuccia con un coprivolante peloso (anche quello rubato agli zingari), ma il trucco non funzionò granché e quella fu la mia prima esperienza in galera. Ero piccolo, avevo solo quindici anni, mi beccarono subito, pare che le bertucce non arrivino al metro d’altezza. E poi il costume mi andava stretto…

Giù a ridere, più stretta attorno al mio braccio.

Maledetto spirito istrionico che emerge quando non deve! Ma fare il simpatico è un meccanismo perverso, un po’ come scrivere. Quando si forza la prestazione, in genere, non si ottiene niente di troppo brillante e si tende ad anticipare il sipario. Al contrario, nei momenti in cui un po’ di cupezza non guasterebbe ecco saltar fuori la battuta che, compiacendosi di sé medesima si porta dietro subito una collega e così via, per una serata allegra e un futuro fatto di rimproveri autoinferti.

Ebbene, eccoci davanti alla saracinesca, sotto una croce verde ad intermittenza. Cerco una risposta ai suoi occhi speranzosi che mi osservano con ammirazione. Le sposto una ciocca di capelli dalla fronte e le sussurro che andrà tutto bene. L’istrione è ancora di turno, confrontandosi col dramma sentimentale.

Guardandola di sbieco, con gli occhi di James Dean, appoggio una spalla di John Wayne alla saracinesca e busso allo spioncino con le nocche di Clint Eastwood, pronto a soffiarci dentro una qualche battuta di Robert.

Niente.

Batto più forte, la farmacia è di turno, deve aprire.

Nessuna risposta, ma sento del movimento.

Busso ancora, stavolta tiro fuori dal cassetto delle grandi occasioni la rabbia di Chuck Norris.

Finalmente lo spioncino si apre. Con un mezzo sorriso ironico butto dentro lo sguardo, ma gli occhi infuocati di un assasssino delle carceri venezuelano mi fanno balzare all’indietro come quando sbatto la testa sulla cappa di vetro della cucina di casa. Quei due occhi criminali mi osservano in orizzontale e in verticale, cosa resa più agevole dalla presenza di un macabro squarcio che attraversa il volto dalla tempia al mento, passando per l’occhio sinistro. Chiusa la ferita alla meno peggio con ago e filo, i punti sullo zigomo dimostravano tutta l’inesperienza del sarto essendo saltati sotto la pressione dell’evidente incazzatura cronica dell’essere che mi stava di fronte, dall’altra parte della lamiera, per fortuna.

Arrivato di corsa, Woody Allen mi concede la sua espressione più celebre per la serata.

– Allora? – mi sibila, violento, il brutto ceffo.

– Eh… cercavo il farmacista – faccio io un po’ perplesso.

– Sono io – ribatte senza pensarci un attimo.

– Ah! Eh-eh… bè, ma forse è impegnato, non vorrei disturbare.

– L’hai già fatto – sentenzia in un grugno – cosa vuoi?

Mi schiarii un po’ la voce, come si conviene in certi casi, e attaccai.

– Vede, ero con la mia ragazza e…

– C’è qui una ragazza?! – chiese subito, buttando gli occhi fuori dallo spioncino – portala dentro che

la visito subito!

– No, no! E’ rimasta a casa … aveva freddo.

Fortunatamente la mia compagna di giochi, avendo intuito l’andazzo si era appiattita al muro, in modo da essere completamente fuori dal campo visivo del taglia-gole con laurea breve in farmacia.

– Freddo, a luglio?

– Eh, infatti, per quello avevo bisogno delle aspirine! – fantasticai.

Mi fissò per un attimo intenso con occhi pieni di odio, poi emise un verso animale e chiuse lo spioncino in uno scatto secco.

Voltai la testa e incrociai l’allegra figura della mia ragazza che si stagliava sull’intonaco triste, trattenendo a stento gli occhi in una risata chiusa nella destra.

– Cazzo ridi?! – le chiesi con la mano a punto interrogativo.

Di colpo un botto.

– Come?! – indagò lo sgherro dalla fessura – toh l’aspirina! – disse Escobar dopo un attimo di silenzio, gettando una scatola ai miei piedi.

– E mò non rompere più i coglioni.

Bam! Come in uno sparo, la farmacia chiuse e anche l’insegna si spense. Raccolsi la scatola e ce ne andammo in fretta.

Dovetti trascinarla per la mano, da quanto stava ridendo non riusciva quasi a camminare.

– Perché non torniamo indietro? Gli chiedo qualcosa io, stavolta!

– Cos’hai da ridere? E’ già buona che non mi abbia aperto la pancia con un coltello da macellaio!

– A proposito – disse cercando di tornar seria – forse dovremmo fare qualcosa… che ne so, dirlo ai carabinieri – azzardò.

– Mah… magari era sul serio il farmacista, sono tipi strani, io ne conosco uno che…

– Dai, non scherzare! – sorrise.

– Non scherzo! Comunque non c’è in giro nessuno per strada, come facciamo?

– Non hai il telefonino, no?

– L’ho lasciato a casa.

– Figurarsi – disse – guardando avanti con un’espressione fatta di palpebre leggere.

– Cosa vorresti dire?! Cazzo e tu? Perché non l’hai preso tu, il telefonino?!

– Ma come? Io ero in stato confusionale, sotto choc, dopo quello che tu hai fatto! Come avrei potuto ricordarmi anche il telefono? – scherzò.

– Bè, sei sempre in stato confusionale, se è per questo… e comunque, questo genere di cose si fa in due – sparai io semiserio.

Lei accennò ad una reazione da arrabbiata-ma-non-troppo, quella che le donne hanno quando vogliono fartela pagare per qualcosa, ma in quel mentre gli piaci troppo per essere veramente punito. La fermai subito così com’era, corrucciata con le guance tirate in avanti, prima che mi passasse la voglia di giocare.

– Guarda, c’è un cinese. Magari hanno un telefono e un involtino primavera, per renderti meno malmostosa.

– Adesso sono incazzata – disse incrociando le braccia in un ostentato silenzio. Come le bambine, ma senza parlare per più tempo, fortunatamente.

Il gestore che quella notte aveva deciso di tenere aperto un cinese senza clienti si chiamava Tschao ed era cinese, ovvio. Lì per lì, la lunga barba bianca che accarezzava di continuo mi parve essere l’unica preoccupazione che lo accompagnava lungo la china che conduce all’oblio, ma presto scoprì che così non era. Lo sciagurato, infatti, aveva anche una moglie, Miao, una cicciona dagli occhi a mandorla che competeva col consorte nella gara al baffo più lucido. Ebbi il piacere di apprendere questa e altre informazioni intime della coppia in una lunga quanto surreale conversazione che ebbi con il buon Tschao quando, non appena fummo dentro, la mia saltellante mi abbandonò per cercare un bagno.

– Scusi, il bagno? – chiese frettolosa.

– Di là – rispose con un sorriso il vecchio, senza indicare da nessuna parte.

Con l’entusiasmo un po’ smorzato, la sciocca decise di prendere a sinistra e scomparve.

– Per due? – attaccò papà Tschao.

– No, veramente noi…

– Di qua prego.

– No, non siamo qui per mangiare.

– No mangiare? – chiese in un perfetto italiano mandarino.

– Cosa può fare Tschao per voi se non comanda cibo cinese da cucina italiana?

– Veramente avremmo bisogno di un telefono.

– No telefono, Miao, mia gentile moglie, non vuole.

– Eh?! – rimasi a punto interrogativo.

– Tu portato qualcosa per Tschao? – disse prendendomi di mano le aspirine che ancora non avevo degnato di uno sguardo.

– Eh… si, si, sono per lei – dissi io, un po’ indignato dalla ficcanasaggine del pechinese dalla zampa lesta.

– Ahhh… Ohhh… – attaccò a fare versi del genere osservando la scatola, finendo per incuriosirmi.

Cosa c’era di tanto interessante in una scatola di aspirine?

– Oooooooohhhh… Aaaaaahhhnche noi avere questo in Cina! – disse demandorlizzando gli occhi, nel tentativo di convincermi di qualcosa che ben non capivo – io capito adesso, cosa tu vuole!

Tschao aiuta, Tschao aiuta!

– Miaoooooo!!!! Miaoooooo!!!! – si mise a urlare nel perfetto stile di un vecchio cinese che urla forsennato, ma con dignità, ululante, ma secco.

Curioso dell’improvvisa disponibilità del piccolo Mao e ipnotizzato dagli urlacci da pennuto tropicale in cui si stava esibendo per chiamare a sé la compagna, feci un balzo quando qualcosa di ghiacciato mi afferrò il braccio! Era la mia freddolosa che tornava dal cesso.

– Cazzo! Ma come fai ad avere le mani così fredde in luglio?!

– Nervosetto?

Feci per replicare, ma le parole che avevo in gola corsero giù per i polmoni portandosi dietro anche le corde vocali all’apparire della sorridente Miao. A vederla così, verrebbero dei dubbi a proposito della cinesità dell’altra, grossa, metà di Tschao. Non per via dei baffetti o del monociglio, entrambi nero corvino, che accessoriavano l’ampio viso butterato, nemmeno per gli occhi, molto più grandi di quelli che ti aspetteresti di trovare a Shanghai, con le pupille rosse e il contorno bianchissimo.

Forse, il sorriso candido, da pubblicità americana potrebbe far pensare a parenti californiani, ma due cose principalmente mi convinsero di un qualche bijoux nipponico nel corredo genetico della Miao: la stazza da lottatore di Sumo sovrappeso e la gentilezza. Di più la gentilezza. La pacatezza amorevole della gheisha che, col sorriso sulle labbra, ti spinge dietro una tenda, nella porta nascosta che sta sulla destra e poi giù per le scale. Ovviamente le domande di rito non ammettono risposta.

– Hai preso un tavolo? – domanda candidamente la mia ingenua, mentre Miao ci accompagna a forza nello scantinato.

Ci ritrovammo tra fusti di birra cinese e cassapanche colme di puzza di fritto sottovuoto, incredulo, mi avvicinai per osservarle. Che schifo! Quell’aria fritta era scaduta da almeno un mese!

Intanto, con la grazia di un plantigrado dai gravi problemi mentali, la dolce Miao si infilava in un buco oscuro, messo là a mò di porta. Vedendomi piuttosto spaesato Tschao mi si avvicinò.

– Tu no paura, noi ora risolve tuo problema, tranquillo.

– Ma, non capisco. Quale problema?

Con lo sguardo complice del nonno che indica al nipote il nascondiglio dei biscotti, papà Tschao additò la bella che avevo trascinato fin là sotto.

Tranquillizzato e rilassato per un attimo dalla familiarità del gesto, guardai il nonno con un sorriso di gratitudine, ignorando, invero, gli occhi più che perplessi di colei che cominciava a sentirsi un po’ vittima dell’ennesimo ristorante cinese scadente.

– Tu dato me scatola e io capito subito – attaccò il bisnonno di Yao Ming col tono delle confidenze.

Al che, mi venne il capriccio di interrogare il figlio del popolo (ormai avo) sul contenuto della magic box che stava risolvendo i miei problemi.

– Ma come, non sai? Come chiamare in Italia, pillola…

– Aspirina – faccio io, convinto.

– No, pillola di…

– Pillola per il mal di testa?

– No, non scherza! Pillola di giorno…

– Pillola dei giorni di malattia? – suggerii, sempre meno convinto.

– Ma no! Ah! Pillola di giorno dopo! Ecco, come chiama! Ma no preoccupa, ora noi risolve tuo problema. Già si vede pancia, eh?

Quest’ultima sentenza, accompagnata da un chiaro dito indice, fece esplodere tutto il senso della realtà che la mia coraggiosa aveva accuratamente messo via in venti e più anni di carriera bipede. E rabbia, tanta rabbia. Evidentemente la millenaria saggezza orientale del buon Tschao non aveva mai preso in considerazione l’universo femminile. D’altra parte, che non fosse un’acquila lo avevo già dedotto dall’ infelice matrimonio in cui si era cacciato fin da giovanissimo (questo me lo aveva detto mentre urlava a Miao di venire, che c’era bisogno di lei e di smettere di guardare C’è posta per te che tanto è tutto finto e la De Filippi non può che avere una cattiva influenza sul loro rapporto di coppia, l’avevano detto in Sex Therapy). Ebbene, le donne sono suscettibili, si sa, ma ci sono alcuni tasti in particolare su cui non si deve mai battere se si è in loro compagnia in posti come l’ascensore o in auto. Il rischio che si corre è di mettere in grave pericolo la propria sicurezza fisica e mentale, a meno di non essere cintura nera di equilibrismo verbale. Uno di questi argomenti delicati è proprio la loro forma fisica. Vero che in Cina i valori potrebbero essere rovesciati e che Tschao in particolare potrebbe nutrire un perverso gusto per le signore extralarge, tuttavia l’esperienza insegna che ogni essere femminile di questo pianeta presenta alcuni caratteri elementari, sempre i medesimi. La considero una prova dell’inesistenza del divenire.

Dunque, la mia suscettibile (che non è così superba da voler costituire un’eccezione) s’infuriò istantaneamente di fronte all’insinuazione di papà Tschao che non si deve permettere, un vecchio bavoso, che ha visto come la guarda, che vive in un posto puzzolente e di pensare alla sua orchessa che è lardosa da far schifo e rovina la buona reputazione di tutta la stirpe di Gengis Khan, che di solito i cinesi sono rispettosi, brava gente che lavora, ma lui no di certo e che non rimarrà un attimo di più in questo posto pulcioso. Detto ciò tutto in un fiato imboccò le scale al contrario.

Io e Tschao rimanemmo inebetiti. Non sapevo se scusarmi col vecchio imprudente per gli insulti della mia ragazza o se fargli la morale per il passo falso che aveva appena commesso, nemmeno fosse un novellino, eh! Mentre decidevo se fare la parte del nipote o del nonno, dalla cima dei gradini ecco ricomparire il bel visino dell’infuriata, sotto i baffi un po’ più simpatico di prima.- E sono sicura che il cibo fa schifo! – la dose doppia di enfasi con cui caricò la effe di “schifo” sentenziò definitivamente la fine della sua amicizia col buon Tschao. Lo lasciai con gli occhi piantati nella terra davanti all’ultimo gradino, a meditare, consapevole di averla fatta grossa.

Tornato alla fresca aria di quella notte calda trovai la sbadata con lo sguardo perso a metà tra l’orizzonte e l’asfalto, più tendente al grigio però. Il respiro era regolare, ma l’espressione non del tutto calma. Era seria nei suoi pensieri. Sfidando la sorte mi azzardai a farle un appunto – Gengis Khan era mongolo – le dissi piano mentre cominciavamo a camminare.

– Mi volevano fare a pezzetti laggiù, vero?

– Forse un pochino – risposi evasivo.

– Mi avresti difeso?

– Sei matta!? E gettare al vento l’unica reale chance di risolvere i miei problemi entro l’alba?!

Girò di scatto la testa piantandomi in faccia i suoi bellissimi fanali, piuttosto lucidi.

– Bé, un po’ per uno, no? A me è toccato Escobar, tu ti becchi Miao – Miao!

Cercai di alleggerire la situazione, ma proprio quando la mia sortita stava per avere effetto, sul nascere di un sorriso raro, ecco il tuono che annuncia la tempesta.

Che dico tuono, terremoto, cataclisma, tsunami! Come se un meteorite appena arrivato in città si volesse fare un riso alla cantonese ecco che, alle nostre spalle, l’ingresso di Tschao esplose.

L’insegna in mandarino lampeggiante si schiantò in mille neon esibendosi in scintille e bagliori degni dell’anno del dragone! Tra i botti di quel piccolo capodanno notai del movimento in mezzo alle biciclette parcheggiate là davanti. Ad un’osservazione più attenta scoprii che a lamentarsi da quel roveto metallico fatto di raggi, manubri e pedali era nientemeno che il barbapapà di Pechino!

La barba bianca arrotolata in una ruota e il cavo di un freno intorno al collo, Tschao balbettava nel vuoto cose che persino in cinese mi parvero poco sensate. Stavamo valutando se il Geremia dellaì Muraglia meritasse il nostro aiuto quando un urlo disumano ci atterrì. La luce del ristorante si oscurò di colpo ed ecco comparire, tra i vetri rotti della vetrata, l’ombra imponente di Miao che ancora teneva in un pugno la punta estrema della barba del più misero dei pronipoti di Confucio. Mi chiesi velocemente se la più grassa lanciatrice di vecchi cinese si chiamasse Myahooooo, prima di essere rapito nuovamente da riflessioni di tipo genealogico. Infatti, notai solo allora i canini affilati che la signora celava nella sua scatola dei chewingum e quelli, più della tremenda smorfia che le ricopriva il muso con centinaia di rughe, mi fecero propendere per un’altra ipotesi d’inquinamento

genetico, con una famiglia di orsi azzannatori degli Urali.

– Tu detto io glassa?! – biascicò la tremenda contro la mia indifesa che nel frattempo era talmente intenta a sgranare stupefatta da non proferire parola. Decisi che era il caso di prendere l’iniziativa per mano e, iniziando a correre, afferrai la mia stupita per un braccio, nella speranza che volesse collaborare. Fortunatamente convenimmo sul da farsi e schizzammo per la via. Dietro, un baccano assordante fatto di sudore e lamiere che si accartocciavano ci inseguiva. Corremmo al massimo delle nostre possibilità per cinque minuti almeno, finché il chiasso si fece meno intenso, fin quasi silenzio. Non avevo ancora osato guardarmi alle spalle, ma pensando di essere al sicuro, girai la testa. Vidi la gigantesca sposa di Tschao a circa venti metri da noi con le mani sulle ginocchia e in debito d’ossigeno, cercava di evitare una crisi respiratoria. Fu allora che, forviato dalla debolezza del nemico, caddi nel più elementare degli errori di tattica. Decisi di fermarmi e recuperare il fiato necessario a sbeffeggiare la molossa.

– Hey, pollo flitto! – urlai – mangiato troppi bambini a colazione?

– Che fai? – mi toccò dentro la mia prudente.

– Culo pesante, eh? Non fai più la bulla adesso! Torna da mamma orso, và!

– E cucini anche di merda! – aggiunse a sorpresa la mia cattivona.

Madama Tschao, piantata sulle zampe che proprio non ne volevano sapere, montava di rabbia e cercava di allungarsi, si protendeva verso di noi con le grinfie sperando di arrivare a prenderci. Quando mi parve di scorgere persino del fumo che usciva dai suoi delicati orifizi, pensai che fosse il caso di allontanarci, temendo un’esplosione lardosa. Presi la mia smilza per le dita e, con fare superbo, girammo i tacchi. Pochi metri dopo esserci lasciati alle spalle l’orchessa uno screanzato in motorino ci superò ad altissima velocità, sfiorandoci troppo da vicino. Non feci in tempo ad alzare il braccio per insultarlo che qualcos’altro ci sorpassò lasciando una lunga scia scintillante tipo cometa.

– Era una moto anche quella? – chiese la mia sbigottita.

– Sembrava più… un’ape – risposi terrorizzato. Più veloce del sospetto mi voltai trovandone la conferma. Dietro di noi si stagliava la terribile figura di Miao che, con un ghigno che lo sforzo rendeva ancora più malvagio, reggeva sopra la testa, a due mani, una Smart rossa (la patriottica!). Il favoloso quanto improvviso lancio della vettura dette il via ad una nuova cento metri di coppia. Ma, siccome eravamo già piuttosto stanchi, dovemmo cedere il podio. Ci sorpassarono, nell’ordine, lo spinterogeno, il radiatore, una spazzola tergicristallo (l’altra colse l’occasione per farsi un nuova vita come gruccia in un negozio di vestiti), i due fanali davanti, un cerchione (che andò a schiantarsi nella vetrina di un barbiere in un tripudio di schiuma da barba e lamette), un poggiatesta che arrivò secondo e trovò successivamente asilo nella sala d’aspetto delle Poste. Vinse l’oro lo specchietto retrovisore destro che, schieratosi incorruttibilmente con la Miao, mi colpì sulla spalla sinistra.

Indignato dal suo atteggiamento decisi di cambiare direzione senza mettere la freccia ed ecco finalmente una figura amica, una Stilo targata CC. Mano nella mano non facemmo in tempo ad arrivare, boccheggianti, alla quattroruote che subito ci si parò incontro un appuntato con la tipica espressione da “voi qui non potete stare c’è appena stata una rapina in farmacia”.

– Ma io ho male! – piagnucolai pensando con la spalla.

Mi squadrò per un attimo e poi decise in una smorfia che “vi porto dal farmacista, và”.

Solo allora mi accorsi che ci stavamo dirigendo verso il buggigattolo di Escobar.

La mia incosciente mi toccò la spalla dolorante facendomi sobbalzare.

– Visto che l’hanno preso? Per fortuna!

– Tutto è bene ciò che finisce bene – mormorai con amore alla mia preziosa scapola.

Arrivammo mentre la vittima del furto stava rilasciando la sua versione dei fatti ad un altro dipendente della Benemerita. Tesi l’orecchio per carpire qualche cosa di quella conversazione segreta, ma la radio del nostro appuntato gracchiò d’improvviso qualcosa di urgente.

– Anto’! Abbiamo un due rosso! – gridò il militare correndo alla macchina. Lasciato il verbale nelle mani del dispensatore di aspirine, anche l’altro saltò sulla pantera e via che, con una sgommata molto scenografica, presero il largo verso il loro due. Rosso. Rimanemmo in tre sotto la luce verde intermittente riaccesa per l’occasione ad osservare lo sgommante braccio della legge che volava ad acchiappare Escobar, pensai io.

Finito lo spettacolo mi decisi a parlare della mia spalla al camiciato che se ne stava tranquillo con le mani in tasca di fianco a noi. In realtà fu lui ad attaccare discorso per primo.

– Aveva freddo, eh?

Al nostro fianco, dalla sua bella ferita aperta, ci osservava con aria truce il buon Escobar!

– Porca troia! – esclamai. E poi aggiunsi tutto d’un fiato, a nastro – ma anche tu non mi hai dato le aspirine, testa di cazzo!

In un millisecondo avevo già per le mani quelle della mia compagna d’avventure che, me lo sentii, stava per dire qualcosa del tipo “magari è il vero farmacista” e, nell’ennesima corsa frenetica di quella notte olimpica, la salvai da quella scempiaggine. Non mi fermai finchè non arrivammo sotto casa e lì, dopo avere preso abbastanza fiato, mi disse:

– Ma perché? A sto punto, penso fosse lui il vero farmacista.

La guardai amorevolmente.

– Sai una cosa? Mi sa che comincerò a fumare.

Le feci cenno con la testa di seguirmi e m’infilai nel portone di casa.

di Andrea Filippini All rights reserved

Nota biografica

Nato a Varese, passa l’infanzia in piccolo comune della provincia. Si trasferisce ad Atene, dove vivrà per quattro anni e avrà l’opportunità di frequentare un ambiente altamente stimolante. Da sempre affascinato dalle capacità magiche della lettura, è in questo periodo che si cimenta nei primi scritti. Rientrato in Italia,completa la scuola dell’obbligo scegliendo lo studio dei classici, cosa che consentirà un’evoluzione fondamentale soprattutto nella scelta dei contenuti che i suoi scritti pretendono di trasmettere. Gli studi universitari a Pavia, prima, a Forlì e Grenoble, poi, offrono molteplici spunti per un’evoluzione soprattutto stilistica, alla ricerca di un registro più immediato ed originale che permetta un contatto diretto tra l’emozione che vuole essere espressa e la sensibilità del lettore. E’ laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche.

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