UN MIGRANTE TRA MIGRANTI – SARATHY KORWAR AL MONK

di Leonardo Gallato

UN MIGRANTE TRA MIGRANTI – SARATHY KORWAR AL MONK

di Leonardo Gallato

UN MIGRANTE TRA MIGRANTI – SARATHY KORWAR AL MONK

di Leonardo Gallato

Recensione del concerto di Sarathy Korwar al Monk, Roma 16/02/2017

Sarathy Korwar, nato negli States, cresciuto in India e residente a Londra. Una vita da migrante. Ho spulciato per bene il suo album di debutto, Day to Day, prima di questo concerto. Le mie aspettative sono davvero alte. So che non avrei dovuto farmi influenzare così tanto, ma al primo ascolto le sonorità etno-jazz del disco hanno avuto il sopravvento e non ho potuto fare a meno di divorarlo.

Ad ogni modo, arrivo al concerto in anticipo, come sempre. Non l’avessi mai fatto. Nella sala del concerto trovo allestito un maxi schermo per guardare la partita dâ Maggica (Magicissima, per carità, alla fine ha stravinto) e il concerto inizia con un’ora di ritardo per aspettare la fine del match (che solo due persone stanno guardando). Ora, detto tra noi, il calcio non mi fa impazzire, ma del resto non ci trovo niente di male nell’aggregarsi in un locale, birretta in mano, per godere di una partita tutti insieme. Quello che però non riesco proprio a capire è la necessità di costringere chi è venuto per un concerto a guardare una partita (per di più in una sala dalle temperature inspiegabilmente artiche). Rischio di addormentarmi e di morire di noia (o di freddo, fate voi) prima dell’esibizone, che inizia con un’ora di ritardo. Per un artista internazionale come Sarathy Korwar deve essere stato divertente e pittoresco vedere come in Italia una partita su un maxi-schermo possa ritardare un concerto dal vivo. Lunga vita ai cliché!

Alla fine della partita entrano in camp… cioè, volevo dire, sul palco.. entrano sul palco i musicisti. La formazione lascia trapelare che il sound del concerto sarà un grande sound: Sarathy Korwar alla batteria e ai samples, Tamar Collocutor ai fiati (sax baritono e flauto traverso) e Al MacSween ai synth. sarathy-korwar

Il primo brano è una lunga introduzione ai brani che verranno, quasi tutti estratti dall’album, fatta eccezione per un paio di cover. Ineccepibile l’attacco del trio: musicalità piena, naturale, mai sforzata e ben regolamentata. Il sound è ben studiato, ineccepibile l’esecuzione. Niente è lasciato al caso, nemmeno durante l’improvvisazione. Si comincia allora con i brani tratti dall’album e Sarathy ci spiega la loro genesi. L’album è il risultato finale di un lavoro durato un paio di anni a stretto contatto con una popolazione del sud dell’India, i siddi. Ma ascoltando Day to Day, non si ha affatto l’impressione di ascoltare musica indiana, fatta eccezione per un paio di brani in cui fanno la loro comparsa le tabla, strumento sovrano della musica classica indiana insieme al sitar. Sarathy ci spiega allora l’arcano: i siddi, per la maggior parte musulmani sufisti, discendono dai popoli Bantu dell’Africa orientale, stanziatisi in India fin dall’VIII sec. d. C., alcuni per ragioni commerciali, altri portati lì come schiavi, secoli dopo, dai portoghesi. È per questo motivo che nel disco di Sarathy troviamo poliritmie tipicamente africane. Ancora, la lingua di questi canti siddi in molti casi è swahili, ma la maggior parte dei siddi non è più in grado di capirla. Avendo appreso i canti solo per via orale e non usando più la lingua swahili come mezzo di comunicazione in una comunità linguistica che via via s’è adattata ad un ambiente diverso da quello di origine, i cantori siddi hanno perso il contatto con il significato delle parole, rendendo il significante un mero mezzo di espressione spirituale. Sta qui l’attrazione fatale di Sarathy per essi: per i siddi è la perfomance la parte fondamentale di un’esecuzione, e non quello che viene eseguito. E la performance deve essere vera, deve consumare l’anima del cantore. Sarathy, affascinato da tutte queste caratteristiche, ha cercato dunque di stabilire un contatto tra la musica siddi, già di per sé ibridata dalle discendenze africane, dalle influenze indiane e dal misticismo sufi, e il jazz contemporaneo. Sarathy Korwar al Monk

La fusione è ben riuscita: l’oriente non rischia mai di essere sopraffatto dall’occidente. Occidente che nel live è  innanzitutto espresso dagli strumenti e dalle sonorità tipicamente nostrane e moderne (sax baritono, batteria e synth), e che è riuscito a fondere i ritmi e le sonorità orientali attraverso un altro espediente che i due mondi hanno in comune: l’improvvisazione. Facendo leva su questa caratteristica comune del jazz e della musica siddi (ma anche della musica indiana in generale), regolamentata da alcuni cicli armonici, anch’essi comuni ad entrambe le tradizioni, la fusione dei due mondi è stata perfetta. Attraverso poi alcuni samples usati da Sarathy, la voce campionata dei cantori siddi rivive tra l’accozzaglia di note del baritono e dei pad, e nella poliritmia africana della batteria.

Il risultato è proprio quello che i cantori siddi, se in un mondo parallelo fossero emigrati nuovamente (questa volta verso gli States o il Nord Europa), avrebbero realizzato ibridando la loro musica con quella della comunità di accoglienza. Nuovo cantore siddi, Korwar riesce nel suo intento di seguire il solco di una tradizione fatta di musica meticcia, contaminandola nel rispetto della sacralità e della musicalità dei canti di origine. Migrante tra i migranti, l’artista ci spiega che l’album Day to Day, in tempi in cui il migrante è un’emergenza globale, vuole essere un inno alla speranza, o quanto meno all’open-mindedness. Speriamo possa essere così. Di certo è un inno alla Musica, alla musica senza confini né categorie classificatorie, che da un canale s’incanala nell’altro. Ed è proprio la sua musica a ricordarci che i confini, nell’arte come nella realtà geopolitica del nostro mondo, non sono altro che restrizioni mentali.

di Leonardo Gallato, all rights reserved

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati