True Detective è tornato

di Matteo Tarascio Breveglieri

True Detective è tornato

di Matteo Tarascio Breveglieri

True Detective è tornato

di Matteo Tarascio Breveglieri

True Detective è tornato. Ma aspettate prima di chiudere l’articolo! Siamo tutti d’accordo, la seconda stagione è stata a dir poco pietosa, ma c’è speranza per il futuro: ho visto i primi quattro episodi della terza stagione e sembra essere ottima – forse addirittura ai livelli della prima (!!)

In occasione di questa possibile rinascita della serie HBO, vorrei fare una breve retrospettiva sulle prime due stagioni, sulle loro differenze e sul perché la seconda fallisca così miseramente pur avendo una base apparentemente solida.

Le mancanze della seconda stagione possono essere attribuite principalmente a tre motivi: la regia, gli attori, e la sceneggiatura. “Mica poco!”, direte voi; è facile giudicare a posteriori, ma la gente era sicura che questi elementi fossero talmente solidi nella prima stagione che le piccole modifiche introdotte con la seconda non avrebbero creato troppi problemi.

 

 

Partiamo dalla regia. La prima stagione presenta una particolarità per una serie televisiva: è infatti interamente diretta da Cary Joji Fukunaga, che così facendo ha potuto dare la sua impronta registica all’intera stagione e – vedremo in seguito perché questo sia importante – alla narrazione. Fukunaga è un giovane regista che potreste conoscere per film come Beasts of No Nation – fenomenale pellicola con Idris Elba che racconta la storia di un bambino-soldato dove Fukunaga è regista, sceneggiatore, co-producer e addirittura direttore della fotografia – o il prossimo James Bond, oltre che per la stravagante miniserie di Netflix Maniac.
Il giovane regista è stato direttore della fotografia di varie pellicole prima di filmare True Detective, e si vede: le paludi della Louisiana, devastata dopo l’uragano Katrina, sono un personaggio tanto quanto Rust e Marty, grazie alla capacità di Fukunaga di renderle così vivide ed opprimenti. Il contrasto con la cittadina immaginaria di Vinci, ambientazione della seconda stagione, non potrebbe essere più evidente: al posto degli angoscianti bayou abbiamo un setting visto e rivisto delle zone limitrofe a Los Angeles, a mio parere meno interessante e con pochi elementi che lo distinguano dalle varie altre interpretazioni dell’ambiente urbano sud-californiano.
L’esempio forse più emblematico della maestria di Fukunaga dietro la macchina da presa si ha nell’episodio Cani sciolti (Who Goes There, per chi ha visto la serie in inglese). Chiunque abbia visto la prima stagione sa perfettamente a cosa mi riferisco: un piano sequenza di 6 minuti, senza tagli o interruzioni, durante una scena d’azione che potrebbe essere uscita da un film di Alfonso Cuarón. Nella seconda stagione c’è stato un tentativo di replicare il successo della scena d’azione mozzafiato – sempre, guarda caso, nella quarta puntata della stagione – ma la sparatoria che ne vien fuori è a dir poco confusionaria e lascia a desiderare come montaggio, stunt e coreografia.

 

 

Passiamo ai diversi detective delle due stagioni. Bisogna tenere a mente che la prima stagione contribuì alla cosiddetta McConaissance: il passaggio di Matthew McConaughey da attore di commedie romantiche come Come farsi lasciare in 10 giorni, La rivolta delle ex e varie altre, a ruoli drammatici come The Lincoln Lawyer, Dallas Buyers Club e, appunto, True Detective. E non dimentichiamo che il Rust Cohle di McConaughey è perfettamente completato da Marty Hart di Woody Harrelson: se il primo è un personaggio meditabondo e malinconico, che disprezza la maggior parte della gente e pensa solo al lavoro, Marty cerca di fare il padre di famiglia e serve a tenere Rust con i piedi per terra durante i suoi vaneggiamenti pseudo-filosofici. Due attori all’epoca sottovalutati che creano personaggi complessi e realistici. Questo senza parlare del resto del cast, prima fra tutte la fantastica Michelle Monaghan.
Guardiamo invece la seconda stagione. Lasciando perdere Taylor Kitsch –  perché insomma, neanche una sceneggiatura degna di questo nome avrebbe potuto salvare un attore con il carisma di un tavolo – il resto del cast era promettente: Colin Farrell è bravo in In Bruges, Rachel McAdams aveva appena fatto Il caso Spotlight, e si sperava che Vince Vaughn potesse fare lo stesso salto di qualità che McConaughey aveva fatto con la prima stagione.
Il problema che c’è con questa visione leggermente revisionista della McConaissance è che Matthew ha sempre avuto del potenziale: la sua interpretazione in Il momento di uccidere, per esempio, lasciava presagire un futuro da attore “serio”. Il motivo della McConaissance è che a lui nei primi anni 2000 non interessava fare film acclamati, ma farsi un pacco di soldi in commedie romantiche. Era quindi solo una questione di priorità, non di talento. Diversa è la situazione per Vince Vaughn: posto che con la sceneggiatura della seconda stagione nessuno sarebbe riuscito a fare granchè, Vaughn non aveva mai dimostrato chissà quale range, considerando che la sua interpretazione più degna di nota era in Due single a nozze.
Diverso, a mio parere, è il problema con Colin Farrell: quando Colin deve recitare con l’accento americano, si impegna troppo con l’accento e si dimentica di recitare. Infatti la sua interpretazione migliore è in In Bruges, dove gli è stato permesso di mantenere il suo originale accento irlandese, e riesce ad essere divertente e commovente al tempo stesso.
Infine, la McAdams non è un problema di per sé. Con il materiale che le è dato fa quel che può. Il suo personaggio – come tutti gli altri nella seconda stagione, d’altronde – non fa altro che parlare per monologhi e rimuginare sulla corruzione di Vinci.

La cosa, alla lunga, stanca.

 

 

E questo ci porta al problema più importante della seconda stagione, la sceneggiatura. Infatti, la differenza maggiore tra le due stagioni, non è tanto la regia – comunque competente nella seconda stagione – o gli attori – che in altri film hanno dimostrato di avere talento – ma la sceneggiatura, che rende i personaggi completamente ridicoli. Entrambe le stagioni sono scritte da Nic Pizzolatto, ma evidentemente qualcosa è cambiato: se nella prima stagione la presenza di Cary Fukunaga – che ricordo essere anche sceneggiatore di alcuni film, tra cui il recente remake di It – serviva ad attenuare le tendenze, per così dire, più particolari di Pizzolatto, nella seconda lo sceneggiatore ha molta più libertà creativa per decidere i dialoghi, forte del successo della prima stagione. Mentre nella prima stagione quando un personaggio – Rust – si perde in disquisizioni nietzschiane sulla futilità dell’esistenza, gli altri personaggi – principalmente Marty – gli fanno notare che sembra completamente folle, nella seconda stagione nessuno parla come una persona normale. Manca completamente quel minimo di realismo che faceva sì che la prima stagione si mantenesse sul filo del rasoio per evitare la parodia. E infatti Pizzolatto ci regala perle come: “Never do anything out of hunger. Not even eating“, “Everything is fucking“, “It’s like blue balls, in your heart”, e via dicendo (dubito che la traduzione italiana le abbia rese più gradevoli). È impossibile guardare la seconda stagione senza scoppiare a ridere almeno una volta per l’idiozia delle frasi dette con convinzione dai “personaggi” che la popolano, ed è ancora più triste comparandola all’acume della prima.

 

WAYNE looks minuscule against the Cliffs. (Warrick Page/HBO)

 

Alla luce di queste considerazioni, è normale essere scettici nei confronti della terza stagione, in onda ogni lunedì su SKY. D’altronde, la serie è ancora scritta da Pizzolatto e questi è addirittura regista di due episodi. Però, sembra che abbia imparato la lezione: forse per l’aiuto nella scrittura di David Milch (Deadwood), o per due registi talentuosi per la maggior parte della stagione (Jeremy Saulnier di Green Room per i primi due episodi, Daniel Sackheim di The Americans e Game of Thrones per altri quattro), ma la serie sembra essere ritornata a livelli quantomeno rispettabili. Al posto di McConaughey e Harrelson ci sono il fantastico Mahershala Ali (Moonlight, Green Book) e Stephen Dorff (Blade, Somewhere), alle prese con un caso che si estende per oltre 25 anni, rivisto dagli occhi di un detective (Ali) che sta soccombendo all’Alzheimer. L’unica critica veramente sentita della terza stagione è, per ora, che sembra essere forse troppo simile alla prima.

Ma la domanda sorge spontanea: se l’alternativa è la seconda stagione, siamo sicuri che sia poi così male?

 

di Matteo Tarascio Breveglieri, all rights reserved

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