Tor Bella Monaca calling

di Cara Futura Rigby

Tor Bella Monaca calling

di Cara Futura Rigby

Tor Bella Monaca calling

di Cara Futura Rigby
Quando ero piccola e andavo alle elementari, il mio compagno di banco faceva con me un gioco tanto stupido quanto tenero quanto significativo. Le cose del mondo, tutte, hanno sempre un significato, che ci piaccia o meno. E spesso non ci piace.
Quando ero piccola e andavo alle elementari, il mio compagno di banco prendeva la sua gonna da cancellare, quella che era arancione da un lato e blu dall’altro. Tutti sapevamo che la parte blu era quella più potente, in grado di cancellare addirittura una penna: una scartavetrata sonora e il segno del tuo passaggio sul foglio, che avresti ritenuto solido e indelebile, puf, sarebbe scomparso.
Il mio compagno di banco prendeva la gomma dal lato blu, si voltava verso di me e mi diceva “Ora ti cancello dalla faccia della terra!”. Io di tutta risposta, in pieno stile di stabilità identitaria che da lì in poi avrebbe iniziato a caratterizzarmi, mi mettevo a piangere a fontanella, a dirotto, aprivo tutti i rubinetti di Villa D’Este e via verso la disperazione. Povero Dario, non sapeva che di lì a 20 anni sarebbe arrivata la mia analista a condividere con me certe ipotesi su quei metri cubi di lacrime. Perché quella frase sorbiva in me quell’effetto? Ancora non ne siamo certe, ancora ci stiamo lavorando, ma certo la gravità di quella reazione ad una frase così apparentemente banale doveva pur significare qualcosa per me. Essere cancellati, sentirsi dimenticati, è forse uno dei più grandi dolori che possiamo provare. E Dario non lo sapeva, non era colpa di Dario, ma dentro ai miei buchi cadevano le sue parole, le sue parole mi ferivano involontariamente e involontariamente aprivano voragini di buio: sentirmi dire che sarei stata cancellata doveva evidentemente avere a che fare con una mia sofferenza.
Come per magia, da lì a 20 anni, come se fosse stato quasi un contrappasso dantesco, come se fosse stata una qualche forma di riparazione storica, Dario, colui che da piccolo mi cancellava “dalla faccia della terra”, è adesso il mio tatuatore. Ci conosciamo da quando eravamo alti un metro e 40 e, guarda caso, da quando il suo è diventato un vero lavoro e la mia è diventata una vera paura, lascio a lui il compito di trasferire sulla mia pelle i segni indelebili delle cose a cui tengo, quelle che non tollero di dimenticare, quelle che non potrei perdonarmi di cancellare. A volte la realtà supera di gran lunga la fantasia e Dario, dapprima cancellatore della mia identità, mi aiuta oggi a mantenere memoria delle cose a cui tengo.
È per questo che ho sempre sviluppato un qualche interesse per ciò che si trova al confine dell’essere dimenticato, per tutte le cose che abitano il perimetro invisibile tra ciò che conta e ciò che sta per essere perso: un migrante, la periferia, i ricordi. mi hanno sempre in qualche modo affascinata quelle zone della città, quelle aree dentro di noi, quelle isole di esistenza che sono ai confini, che sono ai margini del nostro perimetro di visuale.
È per questo che ho sempre sviluppato un qualche interesse per le zone di confine o per gli strumenti di filtraggio, quelli che in qualche modo, loro malgrado, dividono: occhiali, finestre, muri.
Penso a quando mia madre è stata ricoverata al nono piano di un alto, altissimo ospedale romano, che quando mi vedeva arrivare mi diceva “ti ho visto dalla finestra che parcheggiavi il motorino” e che da quella stessa finestra vedeva che me ne andavo. Io, di tutta risposta, da sotto l’enorme parcheggione dell’alto, altissimo ospedale romano, alzavo il volto e guardavo su fino al nono piano. I miei occhiali da miope astigmatica non ce la facevano a mettere a fuoco la finestra esatta di mia madre e men che meno riuscivo mai a vederla da lì in basso. Ma quando alzavo gli occhi, col buio, la pioggia o il sole, alzavo la mano e salutavo al vuoto. Non sapevo se in quel momento mia madre mi stesse guardando, ma mi bastava saperlo. Mi bastava pensare di non volerla lasciare sola. Non lo so se mi abbia mai visto, ma a me interessava muovere le mani in mezzo all’aria, avere l’illusione che in quel momento era alla finestra. Una finestra che filtrava i nostri magoni e segnava il passo al nostro affetto.
Penso a Marco, a quando lo salutavo dal finestrino del treno mentre me ne tornavo a Roma, a quando piangevo mentre fingevo di sorridere e, fissandolo mentre la carrozza si muoveva, cercavo di comunicargli quanto mi sarebbe mancato, lasciavo al finestrino e al sale delle mie lacrime tutto il peso di quel saluto e di quell’amore.
Penso a quando gli occhiali da sole mi aiutarono a coprire le occhiaie nella mattina del 7 maggio, quando quella notte Matteo mi disse che la nostra amicizia era cambiata, quando quella notte passammo tutte le ore e i minuti e i secondi a dirci se i nostri baci non erano più da amici. Gli occhiali da sole della mattina del 7 maggio mi protessero dai segni di una notte come tante future ce ne sarebbero state.
Penso agli specchi delle mie mattine che mi dividono tra ciò che sono e ciò che vorrei essere, che riflettono le mie incertezze e mi separano dalle mie responsabilità, che mi chiedono conto di come sto e di cosa mi accade.
Penso alle lenti da vista che colorano il modo in cui guardo alle mie relazioni, familiari, d’amore e di lavoro, alle mie relazioni di fame e bisogni, di rabbia e repulsione, di attese e sospiri, che danno forma a come vedo il mondo e danno senso a ciò che mi circonda.
Penso al muro che mi divide dai vicini di casa che cambiano ogni 3 mesi e ogni 3 mesi mi fanno ritrovare con un dirimpettaio diverso: Paolo e Mauro che si amavano, Fabio e Diletta che si amavano di notte, Lorenzo e Ornella che si odiavano di giorno, Barbara e Marta che si confidavano di mattina, Lucia di Napoli che era qui per lavoro, Roberto di Mestre che ascoltava i Pearl Jam. Le loro vite, divise dai nostri muri, così diverse, ma in fondo così uguali.
Le cose che filtrano, le superfici che dividono hanno sempre in qualche modo attratto la mia attenzione, hanno sempre riempito il mio corpo di domande: cosa c’è dietro? Quello che vedo è davvero così? C’è uno scarto tra ciò che vedo e ciò che realmente è? C’è qualcosa che sto dimenticando dietro i miei muri, dietro questi mattoni? C’è qualcosa che ho perso oltre lo steccato?
È sempre bene trattenere certi ricordi? Dov’è la ragione per poter dimenticare o per poter ricordare? La rimozione ha di fatto una funzione? E i muri, gli specchi, le finestre dividono soltanto o a volte uniscono?
Da molti anni lavoro a Tor Bella Monaca, zona di confine, periferia dell’animo, linea di separazione. Oltre il raccordo, oltre ciò che avevo potuto immaginare. La tv me l’aveva presentata, mia madre me l’aveva sconsigliata, il mio capo mi aveva detto di scegliere. E io avevo scelto.
Tor Bella Monaca non è la periferia, ma è il centro delle contraddizioni. Dentro al Pewex, il supermercato più grande della zona, passano la dance anni ’90 e io mi fomento; nei bar, i ragazzi mi chiamano “Signorì” e io volo; nelle vie delle case popolari passano le vite di coloro che sono stati meno fortunati di me, passano le vite degli immigrati, passano le vite di coloro che lottano. E io mi sento morire. Perchè sono figlia di genitori agiati e in fondo mi vergogno un po’ per i pregiudizi che la televisione ha contribuito a crearmi, i pregiudizi che la televisione ha piano piano inoculato dentro la mia mente in forma di piccolo virus e che si sono sgretolati al primo anticorpo di esperienza. E mi vergogno perchè ogni volta che entro in quella frazione di mondo, i miei occhi si scontrano con la crudeltà della disparità economica e sociale, con la crudeltà della statistica anagrafica: se nasci svantaggiato, le possibilità sociali di equità saranno davvero poche, le garanzie ai tuoi diritti naturali (ad una vita che possa dirsi tale, all’educazione e alla salute) non potranno dirsi sicure, anzi proprio no. Mi vergogno perchè ho trascorso i primi giorni a trattenere la borsa a me, mi vergogno perchè prima di valicare il raccordo non sapevo cosa avrei trovato. Una terra di ferventi affetti e di gentilezze delicate, una terra di dolori e di storie dimenticate.
C’è qualcosa di strano e di bello in certi posti. Quelli brutti, lontani e dimenticati. Nei posti e negli umani. Quell’incrocio di repulsione e attrazione che ognuno chiama a proprio modo.
Ognuno pensa che le cose stiano di qua e di là, tu a destra, tu a sinistra, qui questo, lì quello. Con precisione e certezza.
Non ti muovere e stai fermo” così posso darti un nome, posso catalogarti e sentirò di avere meno paura.
Mimetizzato, uguale agli uguali, immodificabile. E nessuno ti vedrà. Oppure, grazie al recinto che ti ho costruito intorno, potrò identificarti e così avrò l’illusione di aver arginato i miei più grandi incubi.
La lingua aiuta a catalogare, i ghetti aiutano a bandire.
Ciò che delimita può sedurti perchè rende il mondo ipoteticamente e illusoriamente più comprensibile.
Ecco perché i ghetti hanno sempre fallito, le zone di reclusione, i recinti dell’animo e del mondo, come le aspettative che le cose stiamo precise e ferme lì dove vorremmo, lì dove desidereremmo che non fossero contaminate.
Hanno fallito perchè hanno reso il mondo immobile e gli uomini impotenti.
Hanno fallito perchè confermano ogni volta che un mondo ordinato è destinato a morire.
Un mondo fuori. Come il mondo dentro.
L’ordine rende facile la vita ipotetica, ma complica la vita vera.
E, per certo, la impoverisce.
Se non dolorosamente la falsifica.
E Tor Bella Monaca è quella zona lì, che porta in seno al suo nome quel “bella” così conflittuale.
Che ci ricorda come è fatta la nostra esistenza, come è fatta la nostra anima. Di contraddizioni e di coerenze, di bellezze e di sproporzioni, di zone buie e di zone dimenticate, di cose brutte e di due dita in gola, di profondi affetti fraterni e di dolorosi impietosi destini, di autentiche famiglie e di tradimenti sociali, di ricchezza interculturale e di pregiudizi inospitali.
Il parco di Tor Bella Monaca dovrebbe essere visitato almeno una volta da ognuno nella vita.
Il controsenso (che caratterizza tutte le cose del mondo) è che da lì si vede un paesaggio bellissimo. I Castelli Romani e un tramonto senza parole.
Dal parco di Tor Bella Monaca ho visto i migliori tramonti della mia vita. E se non ci siete mai stati, non potrete neppure immaginarlo.
Da lì ho sbattuto contro tutte le contraddizioni di questa terra. I tossici, le siringhe, la Croce Rossa che cerca di presenziarlo come puó, l’immondizia che lo abita: i rifiuti sul prato, le buste, gli incarti della pizza, lettere d’amore, lettere di Equitalia, gli scarti delle nostre anime.
Ma oggi hanno costruito almeno una ventina di pannelli di ferro, pannelli elettorali che oscurano la visuale dei tossici e il paesaggio dei Castelli Romani.
Ma che ancor peggio riportano sopra i volti di certi scarti elettorali.
“Qui si fa l’Italia”, mi ha detto Giorgia Meloni mentre toglievo la catena al motorino e un tossico dietro cercava il senso dei suoi giorni lacerati.
Il 4 marzo andiamo a votare.
E questo è un racconto sulle cose che cancelliamo e che poi tornano.
È un racconto sulle zone di confine.
È un racconto su tutto ciò che si trova dietro una finestra e che vediamo alterato, tutto ciò che si trova dietro i nostri occhiali e ci sembra diverso, tutto ciò che si trova dietro un muro e abbiamo l’illusione che non esista.
Questo è un racconto che attraversa Tor Bella Monaca e che attraversa la nostra coscienza anche se a Tor Bella Monaca non ci siamo mai stati. È un racconto che ci sbatte davanti la più grande responsabilità che abbiamo verso la nostra vita: poterla guardare senza muri e senza finestre, senza occhiali o strumenti di filtraggio. La responsabilità di informarci vivendo e di tendere ad una verità non fragile come la carta. Come quella di certi cartelloni pubblicitari.
Un immigrato sull’autobus mi chiede a che fermata siamo e se posso dargli un aiuto perchè non sa dove si trova: ha un foglietto stropicciato nelle mani e una via cancellata dall’acqua della pioggia. Gli dico che gli indicherò la fermata giusta.
Mi dice che non ha mai visto la neve e che è la prima volta in vita sua. Io gli sorrido da dietro i miei occhiali.
Caro te che non so come ti chiami, che non sai dove sei, che hai una via scritta su un foglio stinto e che in questo Paese, in questa città e in questo quartiere hai visto per la prima volta in vita tua la neve.
Vorrei che questo freddo non ti scottasse più di quanto certe realtà potranno fare e vorrei per te che la neve sbiadisse per sempre certi manifesti elettorali.
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