To Calabria with love

di Redazione The Freak

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A 18 anni pensavo mi bastasse una valigia. Qualche jeans, tante felpe, le scarpe buone, ché se proprio era vero che a Londra pioveva sempre era meglio non rischiare. Ma poi alla fine mica è vero che piove sempre a Londra. Il più delle volte “squicciulia“. Se vi state chiedendo cosa significhi questa parola, chiudete l’Oxford Dictionary e chiamate i vostri parenti Calabresi.
E se non li avete voi i parenti Calabresi, chiedete ai vostri vicini di casa, perché in ogni palazzina di ogni città del mondo c’è sempre almeno una persona che ha i parenti Calabresi.

Io ero una parente Calabrese a Londra. L’espatriata. Quella a cui tutti dicevano “oddio che bello anche io voglio andare a vivere a Londra”.
Mi sono laureata in Politics alla School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra a 21 anni. È da quando avevo 16 anni che volevo studiare Politica: la Politica dei grandi Stati, le strutture di Governo, Fanon, la Rivoluzione Iraniana, l’Islam e la Democrazia, Israele. Tutto. Volevo tutto. Ed in Italia non trovavo niente. Perché se fai Scienze Politiche non stai facendo Politica Internazionale, se vuoi fare Politica Internazionale o giù di lì prima vai a fare Scienze Politiche e poi si vedrà.

Dopodiché ho conseguito il Master in Human Rights alla University College of London (UCL) a 22 anni. Per gli altri è stato un passo importante, per me scontato, perché seppur sia un campo vastissimo, io la mia nicchia l’ho scelta tanto tempo fa. Ho scelto i diritti delle persone con la valigia. Ma mica tutte, sia chiaro! Solo quelle che il bagaglio se lo portano sulla pelle, negli occhi, nelle parole non dette, perché mica gliene importa dei jeans, delle felpe, delle scarpe per la pioggia. Li chiamano immigrati, li disprezzano gli immigrati, hanno compassione per gli immigrati, neanche hanno mai parlato con gli immigrati.
Noi a lavoro li chiamiamo “richiedenti asilo politico”. Il linguaggio è uno sporco affare, sapete.

Tra poco compirò 23 anni e sono quella a cui tutti dicono “oddio ma come fai ad essere tornata a vivere a Cosenza”.

La mancanza di punto interrogativo è voluta, non accidentale; è un’affermazione carica di pietà. Forse sbaglio io quando dico “tornare”, probabilmente gli altri pensano che significhi fare un passo indietro, e non si rendono conto di quanto invece io sia andata e stia andando avanti.

Dicono che viaggiare ti apra la mente, io credo che piuttosto ti dia una sonora botta in testa. In quattro anni all’estero di cose ne ho capite tante e forse ne potevo ancora imparare molte, ma credo che la vita sia scandita da tempi diversi. E se prima c’era un tempo per capire, ora è tempo di fare. Sei un vigliacco se vai, sei un vigliacco se torni. Poco importa, scegli tu da che parte vuoi stare. Nessuna delle due scelte sarà semplice. Ma chi torna non lo fa con leggerezza: ci pensa, ci ripensa, si fa mille domande, quotidianamente, anche dopo tanto tempo, si guarda intorno e si fa assalire dai dubbi. Non siamo infallibili.
Ma siamo persone che ci provano. Che sanno che la Calabria non è la Terra dell’Oro, ma che anche il resto del mondo non è da meno, e che se proprio c’è da investire, cambiare, migliorare, è bene farlo là dove ce n’è bisogno. Perché la Calabria ha bisogno di noi e noi di Lei.

A 18 anni pensavo mi bastasse una valigia. Qualche jeans, tante felpe, le scarpe buone.
Ora nella mia valigia ci sono solo storie di vita vera. Ed ognuna vale molto di più di qualche “squicciuliata”.

di Alessandra Pulzella, all rights reserved

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