Tarots – The Empress

di Federica Picasso

Tarots – The Empress

di Federica Picasso

Tarots – The Empress

di Federica Picasso

Carta numero III

 

“E ti ricorderai di me. Per la durata di un drink. O per anni a venire. Ti ricorderai di me.”

 

 

Detestava quella luce asettica prodotta da una fila di lampade al neon. Faceva rassomigliare i corpi a spaesati manichini animati da chissà  quale energia. Era surreale. E, pensato da una donna in costume da Arlecchino, la cosa poteva risultare quantomeno bizzarra.

“Nevrotico Ordine”. Se avesse dovuto descrivere su un diario per re-inventatisi argonauti del caos metropolitano l’atmosfera che regnava in quel luogo, avrebbe usato esattamente quelle parole. Prozac. Valium. O un qualsiasi zuccherino che fosse in grado di produrre un effetto placebo su larga scala. Ecco di cosa avevano bisogno tutti quei maniaci del controllo.

Si domandò se lei stessa ne avesse mai fatto uso nella sua esistenza, “quella di prima”. Magari era stata una fedele adepta degli ansiolitici, con tanto di armadietto delle meraviglie, in bagno. Magari era per questo che si era fatta convincere da quell’annuncio sul giornale in una notte qualunque di un lunedì qualunque. Magari la sua nuova “vita” era iniziata perché s’era ritrovata senza neanche un solo vicodin a cui appellarsi.

Un poliziotto in evidente sovrappeso le sfilò accanto, come nulla fosse. Odorava di salsa barbecue e cipolle saltate. I buoni. I cattivi. Bene. Male. E tutto ciò che sta nel mezzo.

Forse sono i tribunali i posti in cui diviene più labile il confine tra santi e peccatori. Forse, concluse, le divise servivano proprio a questo. A legittimare una differenza che, altrimenti, non sarebbe mai stata notata. Definizioni. Auto-definizioni. La gente ne ha bisogno, per sentirsi al riparo da se stessa.

<Si può sapere che ci facciamo qui dentro, John?> Si era lasciata convincere con la promessa di “una gita istruttiva”. Immaginò file di ragazzini urlanti con tanto di zainetto in spalla, a ridosso di una maestra intenta a spiegar loro le origini ancestrali della creatura conosciuta col nome di “pubblico ministero”.

<Siamo qui perché c’è una lezione da imparare, mio Signore, o mia Signora. O, se dovessi fare della tautologia su di te, dovrei ammettere che ci troviamo qui perché una notte hai deciso che la tua vita non ti andava più bene. Ma questo sarebbe irriguardoso…>

<Che cosa? Che cosa non mi andava bene, John?>

Era forse uscita da una relazione deludente? Magari era per via di un contratto non rinnovato o di un’acne improvvisa. Magari era stata coinvolta in qualche brutta storia criminale. Oppure aveva deciso che era meglio indossare una volta per tutte  un costume da Arlecchino che seguire, mese per mese, i dictat della moda.

Lo sentì esitare, come non potesse dire. Come non volesse ammettere. Come si fa con certe verità su cui si pone un’ ipoteca.

<Non lo so… E, se anche ne fossi a conoscenza, pensi che potrei davvero snocciolarti una spiegazione? Per quanto qualcuno possa parlar di noi, la sua visione resta comunque il più corretto degli inganni.>

E nel pronunciarlo mestamente, Milton spalancò la porta di un’aula di tribunale. Si stava tenendo un’ udienza di una certa rilevanza, visto il numero dei presenti. Una donna in completo scuro e tacco assertivo stava tenendo la sua arringa. Le sue parole somigliavano al modo in cui si può fumare una sigaretta. Come fosse strettamente necessario. Come un’incombenza. Come un dovuto a un qualche dio della cenere. Per nessuna ragione al mondo una giuria sarebbe stata in grado di darle torto, se non rinnegando ogni più intima, radicata, credenza. Se non sentendosi come un ragazzino colto in flagrante nell’atto di falsificare la firma dei propri genitori.

Un uomo se ne stava in silenzio al lato opposto della stanza, con le mani congiunte davanti la bocca. Doveva essere un avvocato difensore. La controparte di quella donna.  Dovevano avere la stessa età. E, in un qualche indescrivibile modo, si assomigliavano.

<Sono fratelli, John?>

<Tu credi, mia Signora, o mio Signore?>

E quando quella donna procuratore terminò la propria arringa, fu l’altro ad alzarsi in piedi. E si guardarono. Per un istante. Come non esistessero né accusati, né giudicanti in quella stanza. Come non ci fossero colpe. Né testi sacri su cui spergiurare. Come si fa dentro un letto. O dentro un lento.

<Sono innamorati da anni, mia Signora e mio Signore. E si finisce sempre per prendere le sembianze di ciò che si ama. Ma rivelarlo significherebbe dover sacrificare qualcosa. Doversi esporre. Dover rischiare. E lei, come un’Imperatrice, non può scendere a patti riguardo se stessa. >

<Ma non è giusto!>

<No che non lo è. Ma, in fin dei conti, ascoltali. E’ così che loro scrivono un’interminabile dichiarazione d’amore. Sfidandosi. Contendendosi. Eternamente divisi da un giudizio. >

E l’Arlecchino tornò ad osservarli. Erano dentro la loro personale guerra santa, fatta di accuse e rimostranze. Erano eserciti pronti a muovere battaglia contro ciò che c’era di più importante nei loro pensieri. Spada e sangue al tempo stesso.

<Ballarono una sola volta, ma si strinsero come si fa solo con un nemico a cui si debba tutto.>

<Una sola volta…> fece eco lei. <Io ho mai ballato, John? Mi piacerebbe… mi piacerebbe, sai?>

E somigliò ad un istinto. Ad un impulso che nasca dalle vene ormai sterili e si pianti all’altezza del sorriso. Fu come se un rogo le bruciasse dentro la testa, senza procurarle il minimo fastidio. Era familiare. Era come era sempre stato, da qualche altra parte. In qualche altro ieri stropicciato. Si alzò in piedi, percorrendo a ritroso quel corridoio. Decine di campanellini tintinnarono freneticamente sul suo copricapo multicolore, impercettibili ai presenti. E poi. Tutt’ un tratto. Note.

“…And the livin’ is easy….”. Una musica, iniziò a suonare dentro la stanza. Senza altoparlanti. Senza un vecchio giradischi da far salire sul banco degli imputati.

Tutti presenti ammutolirono, sbigottiti, puntando i loro occhi al soffitto. Neppure il giudice seppe cosa fare, limitandosi a guardarsi intorno, spaesato. Il martello ricadde pesantemente sul banco. Non se ne rese nemmeno conto.

Qualcuno sorrise. Qualcuno si fece il segno della croce. E non ci fu più una sola parola là dentro,  se non la voce rasserenante di Ella Fitzgerald.

Summertime.

Avevano il diritto di rimanere in silenzio.

<Mi piacerebbe…> disse l’Arlecchino malinconicamente, chiudendosi alle spalle la porta della stanza. <Mi piacerebbe, sai?>

 

 

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[Listenin’ to “Summertime” – Ella Fitzgerald]

3 risposte

  1. Ora, nella mia stanza che non ha più pareti, il tintinnio prende per mano la voce di Ella, e insieme danzano in un’eterna lacrima dal dolce sorriso.

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