Storie di una Repubblica – Il gioco del silenzio – Parte I

di Pietro Maria Sabella

Storie di una Repubblica – Il gioco del silenzio – Parte I

di Pietro Maria Sabella

Storie di una Repubblica – Il gioco del silenzio – Parte I

di Pietro Maria Sabella

“Intrappolati tra il cielo e il mare subiamo lo scorrere della vita”

 La piazza era gremita.

Il sole bruciava, le basole di pietra e le palme fluttuavano danzanti, piegate dai cicalecci e, in basso, l’acqua della fontana sgorgava dalla statua con lentezza e poi a fiotti, senza regole, senza patimenti, ma con una anormale cadenza di quotidiana parvenza.

La primavera si mescolava con i primi giorni di prematura estate e nonostante fossero appena le tre del pomeriggio, tutti erano lì davanti, in attesa; alcuni chiacchieravano, altri giravano intorno alla fontana della piazza, scambiando opinioni, guardandosi attorno con la sana diffidenza e arroganza che contraddistingue solo noi in tutto il mondo.

Erano giorni di campagna elettorale.

I manifesti invadevano la città e le campagne circostanti; persino i passeggini dei “picciriddri” e dei “nutrichi” avevano addosso un qualche segno che in quei giorni si votava e si doveva votare bene.

 In Sicilia, la cosa semplice e forse la più complicata, è che si è sempre risaputo chi votare e chi no.

Ma tutto, poi, magicamente, si trasformava in una sorta di rito ancestrale dove democrazia, religione, tradizioni di buona o cattiva fama, desideri e oppressione, si mescolavano, regalando al popolo l’ebbrezza di potere apparentemente decidere del proprio futuro con una “icchisi”.

A differenza di quanto si possa immaginare in quel paese, per volontà di Dio e della Madonna – sorto sulle collina sopra Palermo- quando si doveva votare si facevano feste e ammazzatine.

Da quando si era passati dalla monarchia alla Repubblica, che era cosa di tutti, ogni singolo cristiano nato e pasciuto sentiva in mano la possibilità di “canciari” le cose, ognuno a modo proprio, ognuno secondo i propri istinti e convinzioni. E da trent’anni il rituale ancestrale andava modificandosi, strutturandosi, divenendo sempre più rappresentativo di quello che poi sarebbe accaduto a livello nazionale.

Non c’erano regole, solo pochi simboli che, rappresentati in un piccolo fac-simile nascosto pudicamente dapprima in tasca e poi scatenato fuori come una rivolverata, racchiudevano l’essenza stessa di uno stile di vita, di un sogno di cambiamento o di quieto sopravvivere.

Falci, martelli, garofani, scudi crociati, e altri utensili e fiori raccontavano lo scorrere di una nuova esistenza democratica che in Sicilia ha fatto sempre fatica ad attecchire secondo le regole canoniche dettate dalla legge.

Sì, perché, noi siciliani abbiamo sempre avuto la convinzione di potere dettare le regole da soli, ma al momento di “assittarici” al tavolino per decidere da dove “accominciare”, abbiamo sempre avuto qualche scusa a cui fare appello, lasciando alla fine le cose per come stanno e progredendo in modo strano, costringendo la teoria dell’evoluzione a fare i conti con chiare contraddizioni inesplicabili.

Come, del resto, è inspiegabile il perché da una pianta “malu crisciuta”, piena di spine e senza una vera simmetria, che nasce sia sulla buona terra che negli anfratti più stretti e poco fertili delle rocce spioventi sul mare, possa nascere un frutto così dolce.

Il fico d’india è come la Sicilia: bellissimo alla vista, colorato, tondo, invitante; ma se lo tocchi senza le dovute cautele ti pungi e pure tanto; devi fare attenzione, prenderlo con i guanti, metterlo su un piatto e, piano, con il coltello eliminare bucce e spine per poi, infine, assaporare un autentico dono di Dio.

Ma anche lì non è finita, perché è pieno di semi che se ingoi ti regalano tre giorni di dolori intestinali interminabili.

Eppure, ancora oggi, tutti noi, lo prendiamo, ci pungiamo, ce ne fottiamo e alla fine ingoiamo i semi.

Solo alcuni sono veramente bravi, ma forse la loro bravura li rende immuni dalla gioia dolorosa di nascere e crescere a ridosso tra la modernità e l’antico.

Seppure la metafora non apparirà chiara a qualcuno, anche il senso di cittadinanza e di partecipazione sociale diventava un fico d’india da desiderare e poi da “catafottere” a terra con mille parolacce al seguito.

Una sorta di malattia genetica rispetto alla quale il vaccino, seppur esistente, risultava del tutto inefficace.

Don Antonio Licata, detto “ Zu Nenè” era sempre presente in queste occasioni “mondane”.

Per lui era un dovere controllare la piazza, la gente, i voti, per il bene del paese e dei suoi cittadini.

Camminava a passi lenti e sicuri, con la mano sinistra in tasca, dalla quale emergeva sul mignolo, un grande anello d’oro sbrilluccicante e nella mano destra, sempre vicino alla bocca, aveva una sigaretta senza filtro lunga due chilometri.

Aveva un modo tutto suo di tenere la sigaretta in mano. Rivolta verso l’interno: soltanto il filtro fuoriusciva dalle dita gialle di fumo e i sospiri, intensi e minacciosi, goduti e riluttanti, uscivano da quelle labbra che si muovevano in modo ambiguo, una via di mezzo tra quando si dà un bacio e quando si assaggia un caffè dove per sbaglio è finito del sale.

Ad ogni sospiro le guance si stringevano e poi si dilatavano e il fumo saliva verso i baffi per poi disfarsi nello spazio circostante.

Zù Nenè era sempre attorniato da una ristretta cerchia di fedeli che lo seguivano ovunque e comunque.

Due davanti, alcuni dietro, e a suoi lati il suo confidente, Michele Pirosi, detto “U’ scairtu” e il suo braccio armato, Angelino Fontana, detto “ U sceccu”, perché oltre ad essere veramente asino, aveva una pruriginosa passione sessuale per alcuni animali di campagna.

“Si un fituso senza Dio” gli gridava sempre Zù Nenè che, però, non riusciva a staccarsene perché, quando dei contadini, diversi anni prima, tentarono di occupare le sue terre, “U sceccu” fu l’unico che gli rimase affianco senza scappare via.

Zù Nenè si sedeva sempre al solito bar. Era quello più importante di tutto il paese, posto proprio al centro della piazza principale, ad angolo tra la via Roma e la Cattedrale, famoso per i cannoli fatti con la ricotta fresca: il barista diceva sempre che “u latti ra crapa s’era appena quagghiato” per indicare quanto fosse fresca.

Sul bancone vivevano, in un’orgia confusionaria e miracolosa, secoli di sapori, miscellanee di tradizioni, imbastarditesi nel tempo, incancrenite e rivitalizzate dalle macerie di dominazioni divenute poi il frutto di un amore.

Ogni dolce, in Sicilia, è il simbolo di un esorcismo.

Noi Siciliani per addomesticare rabbia, rapimenti e massacri, abbiamo sempre creato una pietanza, un dolce, una bevanda, che, riprendendo ricette diverse, serviva a trasformare la sottomissione in qualcosa che, una volta entrato in bocca, ci saziava e ci alienava dal torpore e dalla mestizia.

Un dono prezioso direi oggi, la concretizzazione del fatto che si è sempre stati in grado di amare in questa terra.

Zù Nenè ordinava sempre un chinotto “agghiacciato” e un piccolo cannolo gremito di chicchi di cioccolata e decorato magistralmente con una fettina di arancia candita.

Seduto, gambe incrociate, mandava prima giù il chinotto e poi, con una composta ingordigia, si “catafotteva” il cannolo in gola, dimenticandosi la sua età e ritornando un picciriddro. Poi apriva gli occhi e ti guardava in faccia, cercando di recuperare quel tono di autorevolezza perso anche per un solo istante.

 Ma ad ogni tornata elettorale, in quel preciso istante, in cui riemergendo dal godimento sublime, si riaffacciava sulla piazza, sempre meno persone, attendevano attonite il suo sguardo, per mostrare la loro riverenza e il loro rispetto.

“Ca, tutto a schifio sta finenno” esclamava voltandosi verso i suoi che – sottovoce e quasi come cantassero in coro – replicavano: “ Raggiuni avi, raggiuni!”.

“Un c’è cchiù rispetto, mancu pu ‘u Signuri ci’ nnè”.

 Finito il rito frugale, si riaccendeva una sigaretta e si accertava che i suoi uomini fossero ben dislocati in giro per assicurarsi che tutto filasse come doveva. Ognuno armato di fac-simili e “boni paroli” andava in giro a chiedere il voto “giusto” e “santo” per il sindaco che avrebbe fatto il bene della città.

 Il candidato sindaco appoggiato da Zù Nenè era Salvatore Madonia, detto “U Re”, perché in pochissimo tempo era riuscito a comprarsi mezza conca d’oro e a spargerci sopra case e palazzine manco gli fosse caduto sul pavimento un sacco pieno di biglie.

Ovviamente tutti sapevano come era riuscito ad ottenere terreni, appezzamenti e a cancellare limoneti e aranceti come quando si passa la scopa dopo pranzo per terra, ma nessuno, o quasi, alzava il dito e la buona creanza portava molti cittadini a dire che si era fatto da solo, che i “piccioli” li aveva ereditati dai suoi parenti di Alcamo e che ci sapeva fare bene con le persone.

U re, però, era “cane sciolto”. Spesso dissentiva dalle “opinioni” di Zù Nenè e si fotteva tutti i soldi a buttane e pranzi che si sapeva come iniziavano ma che nessuno diceva come minchia finissero.

Si sa soltanto che una volta, fu trovato dalla moglie nella cascina di campagna con due fimmine, una, la figlia del farmacista e l’altra una ragazza del Collegio monacale della Madonna del Carmelo.

La cosa finì con una palazzina regalata al farmacista proprio sotto la Cattedrale a ridosso del bel panorama che guarda al Golfo di Palermo e con una donazione di 10.000 milioni di Lire alle sorelle.

Ovviamente, la moglie lo perdonò.

Tutti in paese dicevano che in fondo era un bravo picciotto. La sua età, appena quarantino, la sua altezza e il suo bell’aspetto lo aiutavano a prendere per il culo buona parte delle persone, soprattutto le mogli di commercianti e dipendenti comunali e – dice qualcuno – anche di qualche masculo poco avvezzo alle minne.

“Perché il nostro paese sarà al centro dello sviluppo economico della provincia; queste regole che ci impongono di adottare un piano regolatore sono delle vere e proprie sopraffazioni di Roma sulla nostra Sicilia. Questa terra è nostra e dobbiamo essere noi a decidere dove e come costruire, abbattere e edificare, creare lavoro e risorse per i nostri figli”.

Ogni volta che proferiva queste parole dalla bocca, applausi e applausi lo circondavano.

Da tempo non si edificavano più case popolari, anche se lo IACP non era proprio convinto che non si potesse più.

“Mentre ‘sti comunisti parrano di travagghio, diritti e scendono in piazza per manifestare senza però poi combinare nenti, noi dobbiamo pinsari alle cose serie e farici aiutare da chi, per anni, ha contribuito a dare lavoro e mangiare a tutti”.

Si riferiva a Zù Nenè e ai suoi compari latifondisti che, da decenni, controllavano tutti i terreni limitrofi alla città e che, durante le rivolte dei contadini alla fine degli anni ’50, se l’erano goduta a vederli scannarsi tra di loro per poi essere presi a colpi di lupara da scagnozzi e dalle istituzioni.

“Qualcuno, peraltro senza portare rispetto, osa infangare il mio nome e quello dei miei alleati, definendoci – come è che dicono – mafiosi! Ma io vorrei capire cosa sia questa mafia, perché qui, nessuno di noi la conosci. Noi pinsiamo solo al benessere della città e a differenza di perdere tempo appresso a lunghi discorsi scuncicati che non portano a nenti, ci occupiamo di tutti”.

In realtà, a Zù Nenè gli prendeva un sintomo quando veniva pubblicamente “infangato” insieme a Salvatore Madonia, perché, in fondo, i due pesci cani erano molto, molto diversi.

A Zù Nenè piaceva l’idea di continuare a controllare il paese e a sapere come, dove e quando, si muovevano i soldi pubblici. Ciò che non gli aggradava era il modo in cui  Madonia lo faceva sapere in giro.

“Troppo sfacciato” ripeteva sempre Zù Nenè mentre lo taliava dall’alto verso il basso.

E mentre continuava a proferire queste parole, quasi come dovessero essere un richiamo per i suoi “vicini” di tavolino, un omone alto e panzuto, sulla cinquantina, un po’ calvo e imbrillantinato sui peli rimanenti, si avvicinava piano piano verso l’uomo “d’onore”.

Con fatica, si toccava i baffi lunghi e folti per ammansirli prima di aprire bocca.

“Baciamo le mani Don Antonio” – disse il panzuto ominicchio.

“Salutiamo” – replicò Zù Nenè con aria di sfida e diffidenza; “ Si vuoli accomodari. Oppure vuole continuare a soffrire sotto questo sole e rimanere ‘a critta? A cosa debbo questa visita?”.

“Scusassi Zù Nenè, scusassi”.

“Prego..”

“Ape Zù Nenè..ogni vota che addrumo la televisione, sento dire al telegiornale che i tempi stanno canciando. Che la società non è più quella di una volta, e che, soprattutto dopo la sparizione di Moro, ci viene cchiù difficile a noi altri italiani essere felici del Governo..”.

Zù Nenè lo guardava un po’ perplesso: “ Mmm..e lei chi sapi di Moro?”.

“Zù Nenè, c’aiu a sapiri io? Chiddo chi sapi vossia..ovvero che tutto quello che ci hanno fatto credere è una grande e scacrosanta minchiata. Ci pari che quei cacasotto dei communisti armati ponno fare na cosa del genere?”.

Zù Nenè cominciava a muoversi sulla sedia, un po’ spazientito ma incuriosito.

Non riusciva a capire per quale motivo, durante uno degli ultimi comizi prima delle elezioni, a quell’ora e in quel modo, da Palermo, gli avevano mandato Ciccio “La Buatta” Sciacca a parlare del Governo, della sparizione di Moro.

Ciccio “La Buatta” (termine locale con cui si indica la botte o la lattina) era un ominicchio di niente (secondo quanto si sentiva dire dai suoi – come dire – colleghi di lavoro) ma, da sempre, aveva avuto un occhio di riguardo per Zù Nenè, ed ogni volta, che qualcosa di nuovo era nell’aria, andava sempre da lui a aizzare le paure e le fantasie più assurde.

Infatti, Zù Nenè non era mai troppo contento quando vedeva avvicinare al Paese Ciccio “La Buatta”; tutti consideravano quest’uomo un fanfarone che cambiava “padrone” ogni volta che una parte politica stesse per vivere una “débâcle” – per volere usare un termine sofisticato – o meglio, una rovinosa sconfitta.

“Continuassi…continuassi” diceva Zù Nenè avvicinando la sedia verso l’ominicchio panzuto.

 Ciccio Sciacca si allungò velocemente e senza alcuna agilità verso l’orecchio di Zù Nenè.

 In quel momento, gli astanti vicini sentirono come dei brividi sulla schiena. Chi capiva chi fossero e di cosa potessero parlare, si sentiva male solo all’idea di sapere cosa – di violento e funesto – potesse accadere ancora.

Continua..

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