Sacralità, Kasher e modernità, il vino nella tradizione ebraica

di Fabrizio Spaolonzi

Sacralità, Kasher e modernità, il vino nella tradizione ebraica

di Fabrizio Spaolonzi

Sacralità, Kasher e modernità, il vino nella tradizione ebraica

di Fabrizio Spaolonzi

Siamo già arrivati alla Repubblica romana nel racconto della Commedia Divi(g)na che quest’anno ci sta portando tra la Storia del vino nelle diverse epoche e culture, avvicinandoci ai costumi, agli usi ed abitudini, alla letteratura, alle opere, alla religione ed al ruolo vero e proprio di questa bevanda millenaria.

Ed ora, dopo aver attraversato la Mesopotamia, la Grecia ed essere arrivati a Roma, guardiamo ad un altro mare, il Mar Rosso, dove un popolo, quello ebraico, come i precedenti di cui abbiamo parlato, affonda tanto le proprie radici culturali quanto quelle religiose nell’utilizzo del vino. E allora vediamo quale è stato e quale sia oggi nella tradizione ebraica il “posto” del vino…

Iniziamo con il dire che nella religione ebraica il vino ha sicuramente un forte significato simbolico, tale da essere, come per esempio nella religione cristiana – che vedremo tra qualche Storia! – elemento importante, se non centrale della liturgia religiosa. Ma andando a ritroso, cerchiamo di comprendere da dove inizia, nel modo ebraico, il legame tra vino-uomo-leggi e religione.

La parte di mondo occidentale, di cui certamente Israele fa parte, che si regola sulle concezioni etico-religiose della Bibbia colloca gli inizi della vinificazione in epoca primordiale, all’alba della diffusione della popolazione umana sulla terra, a seguito del grande Diluvio. E il Mito di Noè narra che fu proprio lui il primo uomo a piantare la vite: “Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda.” (Gen. 9,20 e 9,21; C.E.I)

A supporto di questo primo Mito, l’archeologia ha confermato il racconto biblico con recenti scavi che hanno dimostrato che la vinificazione era diffusa nella regione di Hebron.

Più avanti nel percorso biblico troviamo un altro importante riferimento al vino: gli esploratori inviati da Mosè (Numeri, 13). “Il Signore disse a Mosè: Manda alcuni a esplorare la terra di Canaan, che sto per dare al popolo d’Israele. […] Mosè inviò questi uomini a esplorare la terra di Canaan con queste istruzioni: Entrate nel territorio dal sud e salite nella regione montuosa. Esaminate bene la regione. Osservate se gli abitanti sono forti o deboli, molti o pochi. Guardate se la terra è buona o cattiva, se gli abitanti vivono in città fortificate o in accampamenti; se il suolo è fertile o povero, se vi crescono alberi o no. Mostratevi coraggiosi e portateci anche alcuni frutti di quella terra. (Era la stagione in cui matura l’uva). Quegli uomini partirono dunque dal deserto di Zin, per andare a esplorare la terra di Canaan fino a Recob, presso il passo di Camat. Entrarono nel territorio dal sud e arrivarono vicino alla città di Ebron, dove abitavano i gruppi di Achiman, Sesai e Talmai, discendenti del gigante Anak. (La città di Ebron era stata fondata sette anni prima di Tanis in Egitto). Si recarono poi nella valle di Escol dove tagliarono un tralcio di vite con, un grappolo d’uva. Lo misero insieme con frutti di melograni e fichi su una portantina, che potevano sollevare soltanto in due per volta.
Quella località prese il nome di valle di Escol (valle del Grappolo), appunto in seguito al fatto di quel grappolo d’uva che gli Israeliti vi avevano preso”.

Da qui in avanti, molti sono i riferimenti che potremmo fare, ma appare limpido il fatto che il vino abbia avuto importanza sin dall’inizio per la popolazione ebraica. E infatti sono vari i termini che designano il vino nella Bibbia ebraica.

Il termine più diffuso è “YAYIN” (ricorre ben 141 volte nella Torà), poi ancora “ASIS” dalla radice  ebraica “asas” che letteralmente ha il significato  di “pressare “-o “schiacciare,” che potrebbe indicare il succo dell’uva  schiacciata o pressata, ma nei testi aramaici della Bibbia il succo  d’uva fermentato ha un suo altro vocabolo preciso, “CHEMER”, dalla radice “chamar” che indica appunto la fermentazione (Deut. 32,14).

Altro “momento” di centralità del vino è indubbiamente quello delle cerimonie. Per le più importanti, come matrimoni, maggiore età religiosa (Bar mitzvah), Pessah (Pasqua) o in occasione della festa del Paurim (la festa delle sorti – per la quale gli Ebrei sono addirittura “incitati” ad una leggera ubriachezza), il vino veniva – e in alcuni casi tuttora viene – mescolato con l’acqua e con aggiunta di miele e altri aromi.

La Pessah ad esempio è la festa che commemora la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, dura circa 7 giorni e viene celebrata con una cena che si svolge con un particolare rituale chiamato Seder, durante il quale vengono rievocate e discusse secondo un ordine prestabilito le fasi dell’Esodo, rileggendo l’antico testo della Haggadah. Si consumano 4 bicchieri di vino, assieme ed erba amara in ricordo dei dolori e delle gioie degli Ebrei liberati dalla schiavitù. I quattro bicchieri di vino che si bevono durante il Séder, dice il Talmùd, sono il simbolo delle quattro promesse di riscatto date dal Signore a Mosè; vehotzetì, vi sottrarrò dalle tribolazioni dell’Egitto; vehitzaltì, vi salverò dal loro servaggio; vegaaltì, vi libererò con braccio disteso; velakachtì, vi prenderò quale popolo, a Me.

Ma anche nella celebrazione più costante dello Shabbat (il sabato ebraico) il vino trova questa sua collocazione in un preciso comandamento del Pentateuco – l’insieme dei cinque libri che costituiscono la Torah (l’Insegnamento alla base della vita religiosa ebraica, la cui composizione viene attribuita direttamente a Mosè).

Shabbat: è il giorno della settimana più importante per gli ebrei, ha inizio il venerdì sera e finisce il sabato al tramonto, all’apparizione delle prime tre stelle. E’ una festività dedicata al riposo (l’equivalente della domenica cristiana), alla preghiera e ai rapporti familiari, in occasione della quale tutta la famiglia si riunisce intorno alla tavola. I pasti di Shabbat (preparati in anticipo) sono sempre preceduti dalla benedizione del calice di vino (Kiddush), seguita dalla benedizione del pane (hamotzì).

Il “Kiddush” è il quindi il nome con il quale si indica la benedizione e la speciale preghiera con cui la sera del Venerdì ci si prepara al successivo giorno di riposo. Nel rito sacro di santificazione del Sabato avviene la “beracah” (= benedizione) sul vino: il vino usato dovrebbe essere rosso e di alta qualità e con esso si deve riempire fino all’orlo un bicchiere (di solito, un apposito, elegante calice istoriato con caratteri ebraici).

Nell’Ebraismo quindi il consumo del vino è molto presente, oltre ad essere importante, ma se ne raccomanda un uso moderato. Un consumo che deve attenersi alle regole della Kasherut, quelle che prescrivono cosa è lecito magiare al popolo ebraico e di conseguenza è considerato Kasher. Proprio sul vino consumato dagli ebrei è necessaria sempre attenzione al fatto che sia Kasher, e che risponda quindi a precise condizioni sia nella coltura della vite che nella vinificazione, permettendo così il suo utilizzo negli usi religiosi. Ecco le regole della Kasherut:

1. Nei primi 3 anni è proibito raccogliere i grappoli, che vengono distrutti prima della fioritura. Questa pratica si chiama Orlah;

2. Ogni 7 anni la vite deve essere lasciata a riposo e non si devono raccogliere i grappoli. E’ il famoso anno sabbatico, pratica, queste, definita Shmitah;

3. E’ proibito far crescere, tra i filari del vigneto, piante orticole o frutticole. E’ la cosiddetta pratica del Kilai Hakerem. In Italia e Spagna sovescio, consociazione, inerbimento e coltura promiscua sono però praticate;

4. Il vino deve essere lavorato solo da ebrei praticanti a partire dal momento in cui i grappoli arrivano in cantina. Questo implica che i non ebrei non possono toccare lì l’uva, le attrezzature e i contenitori per la vinificazione. Va sottolineato che per ebreo praticante va inteso chi osserva il Shabbat e che porta la Kipa o la Yamulka (pettinatura religiosa).

5. E’ proibito lavorare durante Shabbat;

6. Tutti i prodotti necessari alla vinificazione devono essere Kasher. In particolare l’acido tartarico, che per essere considerato tale deve essere interrato per 2 anni. Di conseguenza è proibita la gelatina animale non Kasher, al pari della polvere di sangue utilizzata in enologia, mentre il bianco d’uova è permesso, a condizione che siano controllate tutte le uova per eliminare quelle che contengono anche la più piccola goccia di sangue.

7. Va effettuata la cerimonia del Trumat Maser, con la quale l’1% della produzione viene gettata e non utilizzata, questo in memoria della decima che è stata versata ai sacerdoti guardiani del Tempio di Gerusalemme.

Una volta che il vino è pronto, si possono poi distinguere tre livelli di criteri di classificazione dei vini Kasher:

1. Vini solamente Kasher sono quelli che possono essere impiegati nel consumo quotidiano e al di fuori del Shabbat. Sull’etichetta vi è generalmente un piccolo marchio figurato che indica che il vino è stato elaborato sotto la sorveglianza del Rabbinat;

2. Vini Kasher per Pessah sono quelli utilizzati per la pessah o festa di Pasqua. Questi vini durante la loro elaborazione non possono venire a contatto con pane (o pasta o frumento). Le persone partecipanti alla vinificazione non possono mangiare pane nelle cantine, per evitare briciole, per cui le sale da pranzo devono essere esterne alle cantine. Questa tradizione proviene dal ricordo della fuga dall’Egitto: gli Ebrei ammoniti da Mosè di lasciare subito l’Egitto, non avrebbero avuto il tempo di fare lievitare il loro pane – La maggior parte dei vini Kasher sono anche Kasher per la pessah.

3. Vini Yain mevushal sono infine quelli pastorizzati (a 800C o con pastorizzazione rapida). In effetti è normalmente il mosto che viene pastorizzato. Questo permette un rispetto molto ortodosso della religione ebraica e ad un non-Ebreo di servire il vino ad una persona di stretta osservanza della religione ebraica.

E in Italia, dove il vino è molto molto importante e diffuso?

Qui ogni territorio ha saputo “mescolarsi” ed integrarsi con la religione in maniera precisa e sapiente. La cucina ebraica italiana prevedeva che ogni convito di un certo rango si accompagnasse con vini adatti all’occasione, nella cui degustazione e scelta gli ebrei d’Italia si dimostravano tutt’altro che sprovveduti esibendo un’indubbia competenza. Nelle diverse regioni e nei diversi secoli troviamo diversi riferimenti ad ebrei italiani che erano soliti bere vino, prevalentemente nel centro Italia dove la vivevano le principali comunità.

Ma in generale il vino piaceva molto agli ebrei, talmente tanto che il più delle volte non facevano neanche caso se fosse Kasher o meno (il ché indispettiva alquanto i rabbini!), anche se per le cerimonie religiose si cercava di non usare vino comune. E le cose non sono molto cambiate qui in Italia da allora…!

 

di Fabrizio Spaolonzi, all rights reserved

Una risposta

  1. Se mi invia lo e mail le invio una piccola pubblicazione sul vino kasher produciamo eccellenze in 14 cantine dal nebbiolo al barbera dallo amarone al brunello fino allo aglianico

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