Rue Vielle du Temple (III puntata di Bilbao solo andata)

di Vittoria Favaron

Rue Vielle du Temple (III puntata di Bilbao solo andata)

di Vittoria Favaron

Rue Vielle du Temple (III puntata di Bilbao solo andata)

di Vittoria Favaron

Era un suono di pianoforte a corda quello che, di buon grado, fuoriusciva  dalla casa bianca con le rifiniture in ferro nero e laccato e si mescolava nell’aria pungente attraversando i corpi, le cose, le altre case, ma soprattutto, la strada.

Giorgio poteva sentirlo e, come era solito fare, fermava il passo, accostava padiglioni e occhi al di sopra del suo naso e si concedeva quell’ intimo ascolto, ripetendo il gioco di chi brama di indovinare l’esecutore, se sia un principiante, un musicista vero, o niente di tutto questo.

Merry Christmas Mr Lawrence. Inconfondibile attacco. Accordo dopo accordo, tasto dopo tasto. Un brivido, incalzava la giacca di Giorgio, si snodava tra le pieghe del cotone. Un brivido, inconfondibile anch’esso, della medesima consistenza di quello che lo colse dentro il Blue Note di Milano, dentro quel buco con luci blu e aria rarefatta, intensa.

Giorgio era fermo, non si poteva sottrarre a quell’ ascolto pubblico, offerto a lui e a chiunque incrociasse Rue Vielle du Temple, in quella serata parigina altrettanto fredda, di un freddo che non faceva più alcun effetto, ora che lui era tutto preso a non perdere nemmeno una nota, come se questa fosse l’unica cosa utile da fare in una città traboccante di romanticismo a buon prezzo.

Quella musica era Livia, era la loro canzone, come se ci fosse ancora una canzone per ogni coppia di amanti che tendono verso questo genere di cose, come se i pezzi  che passano in radio, in passeggiate notturne nelle macchine, fossero roba da dilettanti dei sentimenti. Il loro amore, leggero e lento, intenso, nei pomeriggi al tramonto, acceso sui divani di casa, era nato seguendo il piano di Sakamoto, quella sera a Parigi.

Livia. Il suo nome era abbastanza perfetto per Giorgio, come quei disegni fatti sull’ acqua di cui uno va fiero, come se Keats dalla terra di Testaccio potesse consacrare quel legame scritto sull’acqua.

Livia e non c’era altro da aggiungere. Una fatica fa, per avere un suo sorriso, in mezzo a un mare di indifferenza, di passi scontati, di vie del centro affollate di tanta volgarità inconsapevole. Si erano incontrati per caso, e si erano guardati.

Livia era solita non guardare mai quando camminava in giro. Aveva uno sguardo fiero, di sfida, che taglia l’atmosfera, irraggiungibile.

Conteneva il suo mondo nelle cuffie dell’Ipod, quell’oggetto di cui Giorgio era geloso fino al sangue, al cervello, perché distraeva Livia da tutte le parole intorno, a volte.

Ma quel giorno vinse Giorgio sull ’arnese malefico, perché Livia lo vide, e si tolse le cuffie con forza, come se un frastuono di sensi e fruscii emotivi l’avessero colta nell’ attimo prima del cambio di canzone.

E si fermò. Giorgio di fronte a lei, mentre osservava una noiosa vetrina delle meraviglie, annoiato più del vetro, con la testa a mezz’aria, nell’attesa di niente.

Ci vollero diversi minuti, che per Livia durarono giorni, prima che Giorgio voltasse la testa e si rendesse conto che una ragazza stava mirando verso il suo campo visivo. Con quel fare da finto inconsapevole, con tutta la sua falsa sicurezza, il suo essere saccente anche solo alzando un sopracciglio, Giorgio sorrise.

Livia restò immobile, come paralizzata, come se un fiume di cemento avesse bloccato ogni sua azione vitale, in trance, disarmata.

Si ricompose, frugò nella borsa alla ricerca di tutte quelle cose che sapeva benissimo non essere presenti, con quella velocità figlia di nervosismo e incapacità di inventarsi un piano migliore, con la mente in apnea e il cuore in prognosi riservata, fregata, senza aver neppure iniziato un’ esile battaglia di spudorato orgoglio.

Giorgio era placidamente in grado di scorgere e svelare tutte le frustrazioni, le riluttanze, i riserbi altrui.

Capacità innata e coltivata, quasi un rito sacro da applicare ad ogni incontro, ogni caffè all’aperto, ogni inutile conversazione fuggiasca.

Il suo semplice come stai, in realtà era come dire avanti raccontami qualcosa di te, e gli altri lo sapevano, e non aspettavano altro che sganciare il freno a mano sull’anima e vomitare tutto quello che rendeva loro schiavi e cupi.

Giorgio riusciva ad esercitare quella dote ormai scontata e troppe volte applicata, un po’ per questioni di superego, un po’ per reale desiderio di conoscere incubi e pensieri dei suoi compagni di viaggio, colleghi di lavoro, amici datati o perfetti sconosciuti.

Ma con Livia questo esercizio di stile non era possibile.

Livia era impenetrabile. Era alta e severa, e severa era usato come termine per denigrare il fatto che Livia fosse in realtà dolce, solare, viva. Ma non con Giorgio, con il quale manteneva una distanza, percettibile solo tra di loro, che lui trovava insopportabile, inspiegabile. E come tutte le  persone che si sentono attaccate in modo così subdolo e labile, nascondendo un certo desiderio di ricevere il sangue in faccia, lo sdegno visibile, per poter sfogare quella frustrazione figlia solo di un’inadeguatezza ormai tangibile, Giorgio si ritrovava costretto a tacere, senza alcuna possibilità o tentativo di poter figurare in quel gioco malsano, nel suo vittimismo ricercato, a causa di quella perfetta capacità di Livia di renderlo goffo, ma con eleganza, e rimandarlo nel girone delle persone “normali”, terribilmente ordinarie, tragicamente banali, e senza che lui potesse neppure urlarle: Stronza.

Naturalmente lei recitava. Naturalmente lui lo capì dopo.

Giorgio e la sua Parigi. Una bomboniera di luci e cemento fragile come un cristallo purissimo, suggestiva come una pioggia di lava, malinconica come un manto di stelle in estate. Non ebbe dubbi alcuni riguardo al trattenersi lì tutto il tempo che la sua ambizione lavorativa e il suo desiderio di bellezza richiedevano alle sue scelte di vita.

Non avrebbe mai lasciato quel fortino di fragole e buon Bordeaux in cui sostava quotidianamente, e di cui bramava le continue visioni, senza accusare stanchezze stucchevoli, e i ridondanti scorci, quelli di una città che non permette esitazioni emotive, ma solo lunghi e instancabili amplessi, nella sua contemplazione.

Quando Giorgio incontrò Livia pensò che lei era come Parigi, e che quello scambio di attimi intorno allo stesso lasso temporale non poteva essere casuale e doveva essere colto, volè, come direbbero da quelle parti.

Non indugiò ad accostarsi a lei con una scusa, a subire il suo sguardo perentorio e incerto, mai inizialmente disteso. Come un pugile che scruta l’avversario tenendo i guantoni ad altezza del volto, così si atteggiò Livia, ma Giorgio non sembrò curarsene e proseguì in quel furto del cuore.

Andò da sé il resto, con una velocità di giorni che coinvolse entrambi, che andò a superare remore reciproche e caratteri in eterna diversità di vesti e movenze. Caratteri per cui, solo un convivio di passione e voglia di scambiarsi la pelle potevano fungere da collante perfetto.

Livia aveva seguito quell’amore che non richiedeva pretese, se non di essere alimentato con moti di sincero abbandono, di dolce stretta, e odore di cornetti caldi, di vita normale.

Ricerca di qualcosa che non determinasse pensieri accidiosi, veleni sanguigni, silenzi pesanti e ascolti letali. Ricerca di qualcosa che fosse lontano da occhi neri infetti di amore straziato e acre sapore di naftalina cardiaca, gli occhi di Vanni.

Giorgio aveva scoperchiato il mondo di Livia condendolo di leggerezza e speranza, versando su di lei gocce di calma tangibile, di energia buona. Non importava che lei dimorasse nella fredda e algida Amsterdam, che i loro incontri fossero scanditi da aeroporti confidenziali e weekend schizofrenici e fugaci.

Importava quel tempo morso e assaporato fino in fondo, importavano le corse sotto la pioggia beffarda e repentina, le risate scroscianti, il sesso perfetto, addormentarsi senza porsi troppe domande.

Giorgio non aveva mai osato chiedere dei giorni pregressi di Livia, di cosa aveva lasciato in Italia, di quali tumulti la sua carne soffriva, mentre lui addomesticava vertebre ancora tese e impenetrabili. Ma Giorgio conosceva Vanni, ovvero l’ombra funerea che talvolta coglieva lo sguardo di Livia inondando i suoi occhi di una malinconica essenza, del riflesso di un altrove a cui lui non poteva avere accesso alcuno.

Aspettare. Aspettare che quel velo nostalgico e quei conati di rimpianti ricorrenti venissero spazzati via con la dovuta complicità del tempo futuro, di abbracci evidenti, e pressanti. Aspettare un ricambio emotivo vero, che quel loro giovane e concreto romanzo di rapporto potesse valere da vaccino esemplare per curare ogni sbaglio conquistato per strada e di cui ancora si sentiva il solco del dolore.

Aspettare che Livia barattasse tristezza occasionale con sorrisi liberi e rivolti unicamente a lui, che lottava contro fantasmi senza forma né storia.

Aspettare, era quello che ripeteva Giorgio a se stesso, munendosi di una pazienza inconsueta ma inevitabile.

E in quel vortice di pazienza e baci, di mani strette quasi a forgiare una barriera intensa contro ogni ostile attacco all’idea della loro unione, la musica pungente e rafferma del piano di Sakamoto figurava in sublime esecuzione come a  sancire tutto quello che passava nelle loro notti, intervallate da albe trascorse tra le lenzuola senza un motivo preciso e senza sprecare fiato, semplicemente con i corpi frontali ad ammirare quell’attimo. Quelle note precise e puntuali fungevano da unico dolcificante possibile nei caffè che trascorrevano svogliati in pomeriggi qualsiasi, sul divano di casa di Giorgio.

Merry Christmas Mr Lawrence scorreva come vocabolario prezioso per tradurre tutto il racconto di un amore che non poteva carpire altri significati dalle storie già scritte, perché personalmente diverso, senza copiature, senza ricezioni straniere, senza termini adeguati di paragone.

E mentre Giorgio riproponeva il suo spartito di emozioni, mentre si lasciava trafiggere dalla meraviglia di quella musica, a diversi chilometri di distanza Livia giaceva appoggiata al muro di un caffè, ad Amsterdam, con le sue lacrime accumulate dal palmo di una mano, mentre con l’altra teneva la sigaretta fumata dalla sua stessa cenere, intatta.

Giorgio non poteva sapere che Vanni aveva superato quella barriera così dannatamente costruita a maniera, quelle mani ben disposte e schierate per affrontare ogni guerra esterna. Non poteva sapere che una lettera color verde pistacchio aveva lobotomizzato ogni senno razionale di Livia, ogni sua percezione carnale, ogni suo equilibrio così a fatica ricucito e tenuto a caldo.

Giorgio che teneva il pensiero di Livia, perenne e vivace, incastonato in ogni strato di pelle e in ogni molecola d’ossigeno, vispo e affamato, come un vampiro che pretende la sua dose di sangue giornaliera, non poteva sapere che in quel preciso istante Livia era disconnessa con il suo muscolo cardiaco, scollegata da ogni legame sensoriale, ritornata ad essere Lei, nella sua dimensione anteriore, che procedeva con un solo nome: Vanni.

Livia. E quella sua nuova codardia che la portava a desistere dal continuare a leggere l’inchiostro che Vanni aveva fatto scorrere verso di lei, quella richiesta di attenzione, quel “guardami” così poeticamente espresso, quell’ennesimo gancio sulla sua carne, quel bisogno d’aiuto che Vanni non cessava mai di urlarle.

 

L’amore è spesso un giocatore d’azzardo che bluffa su un tavolo di commensali innocenti. Il suo mazzo di carte sono i suoi mille volti, le fiche con cui si muove e avanza, sono le vite che sacrifica in cambio della sua stessa esistenza. Quando si è certi di poterlo sopraffare con una mossa sicura, lui si presenta con un poker inaspettato. E vince, a discapito delle illusioni che ha generato. Vince, non curandosi delle rese individuali. Vince anche se si invoca il suo imbroglio palese.

Vince.

Sempre.

 

Prima parte: bilbao-solo-andata

Seconda parte: hotel-jardines-ii-parte-di-bilbao-solo-andata

Merry Christmas Mr Lawrence – Ryuichi Sakamoto

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