Racconti di strada

di Redazione The Freak

Racconti di strada

di Redazione The Freak

Racconti di strada

di Redazione The Freak

E’ la strada che ti forma la vita, che te la racconta.

Attraverso la strada capisci il mondo dove vivi, che ti circonda. Le mie strade, le nostre strade, sono pieni di buche da riparare tappezzare ricoprire ricostruire.

Le strade metafore del paese in cui viviamo e allora sono piatte e lineari, come questa scrittura che non riesce a trasformarsi che non trasmette al lettore qualcosa, qualcosa di nuovo.

Perché non c’è niente di nuovo da trasmettere, perché qui è tutto finito e la strada sbuca in vicolo cieco. Restare o percorrerle queste strade, a ritroso o contro mano. Sperimentare sulle strade, sui libri e nella scrittura. Cercare, trovare un nuovo inizio, dolore da cui ripartire. Dolore sociale, familiare, esistenziale. Dolore che si fa pensiero, scrittura, dramma da cui cominciare. Evolversi per le strade tra la gente con cui parlare.

Lasciare, annegare tra di loro. E’ l’infinito a terrorizzare. Meditare, allora pensare.

1 -La strada è piena di gente, i rami degli alberi cadono sulla superficie del fiume. I “punk a bestia” sono sotto il ponte, quello è il loro luogo di ritrovo la sera. Sono seduti per terra e fumano una sigaretta d’erba appena rollata. Il tempo è mite, anzi parecchio caldo per essere Dicembre. Portano quasi tutti giubbotti in pelle nera con delle spille attaccate sulla reveverse. Si sentono uniti per il modo di vestire e di pensare, si sentono diversi rispetto alla società in cui vivono. A scuola hanno smesso di andare, c’è chi ha preso il diploma e adesso lavora, c’è chi studia all’accademia di belle arti, chi vive in un centro sociale e passa i suoi sabati a manifestare o a raccogliere firme per qualche petizione appena emanata d’associazioni animaliste, e c’è chi invece sogna che un mondo diverso può esistere.

Quando è sera si ritrovano lì, sotto quei ponti che li hanno visti crescere, nella parte sinistra del fiume. Si ritrovano sempre verso lo stesso orario, arrivando con i proprio cani, miseri docili bastardi appesantiti da collari e borchie.

Si ritrovano intorno ad una pietra e si raccontano la giornata e tra una sigaretta e una birra, si continua fino a notte fonda. Hanno tanti sogni nella testa ma non si creano troppe illusioni, ma non per questo hanno deciso di gettare la spugna. Con la forza di volontà un giorno cambieranno: il sistema o loro stessi.

La maggior parte di loro sono figli d’industriali o politici che hanno creato questo sistema, ma di ciò loro non ne parlano, non lo vogliono ammettere a loro stessi.

Infatti è molto più semplice scendere in piazza a contestare, che mettersi da parte e domandare.

Forse per moda, forse per bisogno di affetto, loro preferiscono unirsi in massa, vestirsi in modo eccentrico e parlare con linguaggio “marxista-comunsta”, linguaggio che sarebbe più consono ad essere utilizzato dalla loro colf o dall’autista del padre.

E così, termini chiave del linguaggio socialista, come: proletario, lotta di classe, plus ultra, vengono a prendere nuovi significati, perdendo quelli un tempo acquistati.

In anni zero come i nostri, ma non per via del 2000, ma per i contenuti di questi anni, spesso tendono a piangere il maggio francese o il palco di Woodstock.

E così, ogni tanto, è necessario inventare qualche occupazione, chiamare qualche gruppo punk o addirittura creare terrore durante una manifestazione.

La noia dà alla testa e così, per non passare pomeriggi al computer o leggere libri di quella cultura che loro difendono alla stregua, si calano un acido e rivivono gli anni 60 dentro uno sgabuzzino di qualche centro sociale.

2- Sono le dieci passate di una notte da poco iniziata, Claudio è alla sua scrivania e traduce i lirici greci, traduce i versi di Alceo e apre una bottiglia di Syrah. E’ sceso fin in cantina per prenderla: una delle bottiglie che il padre conserva con cura maniacale, ma crede sia arrivato il momento di stapparla e berla.

Ora tocca ubriacarsi, Mirsilo è morto.

Pensa che la vita è fugace, che non bisogna mai aspettare il domani per viverla. Stappa la bottiglia impolverata e versa quel rubino sciolto in un bicchiere.

Brinda ai lirici greci e brinda a suo padre.

A suo padre che è in ospedale poiché un piccolo scarafaggio di soli 5 centimetri ha deciso di nascere e crescere nel suo cervello.

Brinda alla vita che, per non smentirsi anche questa volta, gli ha voltato le spalle.

Brinda al suo futuro da disoccupato.

Claudio ha 21 anni e studia lettere classiche, forse non pensa neanche al suo futuro.

Ha gli occhi rossi per le lacrime versate, ma agli amici dirà che è il fumo della sigaretta. Non vuole farsi vedere triste dai suoi amici, dalla sorella piccola e dal padre.

Anzi, non ci vuole neanche pensare a questo incubo che sta scuotendo le sue giornate.

Si butta a capofitto nello studio e pensa alla sua laurea e al viaggio che farà insieme al padre a New York.

Studia fino a tardi e quando è a letto continua a leggere Baudelaire e Verlaine, e mentre legge fuori piove.

Piove sui tetti e sui fiori del male.

E piove anche nel suo cuore, oramai arido per l’amore di una donna che non esiste.

Non si sente uno sfigato e neanche superiore ai suoi compagni, ma è solo stufo di tutto ciò, di tutti questi ostacoli che la vita giorno per giorno gli presenta. E’ stufo anche del suo amico che vive in seminario e che ogni due secondi gli menziona Cristo e la volontà divina.

Ma è anche stufo di questa testa che non smette di pensare, quando invece si dovrebbe dormire.

E allora si alza, si dirige verso la scrivania e si accende una sigaretta.

Accende anche la televisione e inizia a cambiare canale dopo canale: politica-tasse-neri uccisi-terremoti-balene-donne nude-politica.

Aspira la sigaretta e si domanda perché è dovuto nascere in un periodo così vuoto come il nostro, un periodo che verrà ricordato per crisi finanziarie, mignotte in politica e tragedie terrestri.

Cerca di fare mente locale e trovare qualcosa di buono in questa società o almeno in questi anni: Niente.

Anni vuoti per gente vuota. Anni piatti, lisci e lineari. Al bando la sperimentazione, proseguiamo la restaurazione.

E poi lui che studia anni classici, anni belli, costretto a vivere durante la nullità.

Prende una sedia, ci sale sopra e dall’ultimo scaffale della libreria tira giù un album fotografico.

Sono delle foto che ha scattato due anni fa in Sicilia, durante un viaggio fatto in treno, in cui ha visionato i resti di una cultura classica che aleggia ancora sul nostro presente.

Taormina-Siracusa-Agrigento, il teatro greco e l’Etna e il tempio di Apollo e il barocco di Ortigia e il tempio di Vesta.

E allora gli torna il sorriso sul volto e nell’anima, è felice perché qualcosa di buono nella sua vita l’ha fatto.

Continua a sfogliare e si ritrova sopra una barchetta per l’isola di Mozia o tra gli scavi di piazza Stesicoro.

Gli tornano in mente il sole caldo, la brezza marina e il vento fresco sulla cima dell’Etna.

Come in trance, cerca qualcosa negli scaffali, in tv stanno riproponendo un film natalizio e lui rimpiange di non essere nato ai tempi di Pisistrato o di Aristofane.

Gli tornano in mente i simposi che d’estate organizzava a casa, dove si riunivano intorno ad un tavolo e dopo aver bevuto del vino con del latte, discorrevano di poesia e musica.

Continua a cercare quando finalmente gli occhi s’illuminano.

Una cassetta, una vecchia cassetta, una registrazione di una tragedia messa in scena a Siracusa durante quel viaggio.

Accende il videoregistratore e inserisce un nastro che vorrebbe essere sbranato e non mangiato.

Iniziano a scorrere le immagini e dentro quella scatola magica, grazie alla modernità e grazie a questi anni che odia, rivive gli anni classici tanto agognati.

3- Undici del mattino.

Anche oggi purtroppo il sole è sorto. Michele sta sotto il piumone, oramai vive lì sotto la mattina, ma la notte se lo vuoi trovare basta fare due passi a Trastevere o per campo dei fiori, sicuramente lo trovi su qualche panchina o sotto la statua di Bruno , con una birra in mano e una canna nell’altra.

Anche se adesso preferirebbe attaccarsi alla canna del gas.

Si gira su di un fianco e chiude gli occhi, vuole continuare a dormire, un’altra ora e forse più. Diciassette anni e una vita che rotola come “le pietre rotolanti” che la radio passa. Diciassette anni e la voglia di andare via da questo paese, di fuggire lontano: America Latina India o Australia.

Ma non ha una lira, non ha neanche i soldi per le pasticche, figuriamoci per un biglietto aereo.

Va bene, capisce che è fatta e che il sonno non tornerà.

Si alza, si veste ed esce. Ad un tratto i rumori della città si spalancano nelle sue orecchie, motorini impazziti, auto incolonnate e autobus incastonati come sanpietrini tra l’asfalto.

Si dirige al bar a prendere un caffè e a comprare le sigarette, almeno per oggi qualche soldo lo ha rimediato.

Solite facce di stronzi ogni mattina-pensa- soliti discorsi del cazzo ogni santo giorno.

Esce fuori, guarda il sole e sa che, oggi, sarà una giornata diversa.

Si accende la sigaretta e si dirige verso il parco. Oggi è proprio una bella giornata.

Roma sembra impazzita, auto, moto, turisti (state tranquilli, la solita routine quotidiana). Gente che cammina, corre, scappa, ma dove va poi? Che avranno tutti da fare?

Si poggia sotto un albero e toglie le scarpe dai piedi, ed esce dalla tasca del jeans un libro. Strano, penserebbe la gente, uno straccione che legge.

Michele ha letto solo un libro in vita sua: Il vecchio che leggeva romanzi d’amore; e continua a leggerlo giorno dopo giorno. E anche oggi continua a leggerlo e si emoziona ancora.

Lo legge fino a quando gli amici lo trovano e iniziano a sbeffeggiarlo e chiedere una sigaretta, come fosse una questua. Pensa che sono le ultime sigarette che offrirà a questi stronzi, che da domani potranno comprarsele da soli.

Chiacchierano, si scuotono i jeans per vedere quanti soldi hanno nelle tasche, per capire quante pasticche possono rimediare per la serata.

SUPER RAVE FUORI ROMA, annuncia Marco tutto gasato.

Avranno bisogno di molte pasticche.

Michele questa volta è taciturno, ha lo sguardo rivolto verso l’alto, verso un punto che nessuno riesce a scorgere in mezzo agli alberi. Pensa che qui al parco tutti i rumori si ovattano come se la natura avesse ingerito della Ketamina e avesse richiuso tutti dentro una grande bolla verde.

Una grande bolla che tiene lontano i rumori e i problemi di questa città.

Così senti solo le anatre o i passi della gente sui sassi dei viali, le voci dei bambini, e se stai attento riesci anche a percepire cosa si dicono quei due ragazzi seduti su quella panchina.

Lui è innamorato, lo si vede dagli occhi. Lei invece pensa ancora al suo ex, con le dita si stacca le pellicine vicino l’unghia. L’amore è tutta un illusione, pensa Michele, e come lesse una volta da qualche parte: “Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa”.

Per questo lui aveva deciso di donare tutto se stesso alle anfetamine, che sì sono ingannevoli ma almeno dopo una certa ora passano.

“OH MICHELE! CI SEI??” Dario e la sua voce da stronzo.

Si alzano e si dirigono verso la macchina, una loro amica li stava aspettando al forte.

Ci sarebbe voluto un attimo, sarebbero entrati, pagavano e il viaggio era assicurato. “OTTIME PASTICCHE, MIRACOLOSE” dicevano, tutte le sante volte la stessa espressione, fino a quando qualcuno non tirava le cuoia, ma allora tutti a dire che lo spacciatore era un rumeno.

Lasciarono Michele a casa, “FATTI UNA DOCCIA”, gridarono.

Michele sbuffò, si calò gli occhiali da sole sul naso ed entrò a casa.

Aprì il frigo e tirò fuori un’arancia, la sbuccio, la mangiò, ma solo metà, il resto era per la cena.

Si mise a letto e mandò giù un paio di pasticche con un sorso di gin che teneva sotto al letto, un ghigno sinistro gli comparve sul volto. Si mise a dormire.

Pensava che tutto finalmente sarebbe finito. La fine era vicina.

***

Sono le sette dello stesso giorno, ed è il giorno della stessa storia, quella di Michele e della sua voglia di abbandonare questo mondo.

Gli amici sono già al rave, stanno ballando, bianchi in faccia e con due grosse pupille che sembrano due fanali. Nessuno, tra di loro, si sta chiedendo come mai Michele ancora non arrivi. Loro continuano a ballare, mentre fuori il sole inizia a nascondersi dietro i tetti e le case di Roma, mentre il Senato si svuota dopo una lunga giornata di lavoro durata in tutto quarantacinque minuti.

I lampioni si accendono, i fari delle macchine brillano e le sirene implodono per le strade. Tutto prosegue per la sua normalità in una città come le altre, anche se questa città è eterna.

E Michele è lì, in una di quelle auto, una Volvo station-wagon appena rubata con direzione Francia.

Non sa come ci arriverà, anche se spera nella bontà dell’ex proprietario e del suo pieno.

Sfreccia per le strade di Roma e per un paese che sta rotolando verso il baratro con la crisi finanziaria. Paese che rotola, proprio come le pietre rotolanti che la radio, anche adesso, sta passando.

***

Il vetro dell’auto che guido è sporco, una coltre di polvere e insetti lo ricopre. Continuo a percorrere questa strada desolata, si stende il grano su questi campi e le lente edicole si ergono ai lati delle strade. Intravedo, nella notte cadente, un nuovo giorno spuntare. Accosto al ciglio della strada, accendo una sigaretta e piscio. Sono le sette, o forse le sei, non lo so. In realtà me ne importa veramente così poco di che ora sia. Sto fermo per qualche ora su questa strada e poi ripartirò verso una nuova meta, quale meta poi.

Non per forza bisogna avere una meta quando si viaggia, io viaggio e basta e quando anche questo pieno sarà finito potrò abbandonare questo rottame e poi proseguire. Non ho voglia di restare fermo, non ho voglia di risiedere come cadavere al cimitero, è il momento di andare. Abbandonare tutto e fuggire, correre e scorrere nelle vene di questa terra.

La strada è proprio come una vena, varicosa, ma una vena. Che scorre quasi in superficie della pelle. La strada è la culla che mi avvolge, che mi riposa e m’inebria. Alle spalle un paese, un albero e degli amici. Avanti a me una strada che s’infuoca inferocita, che lotta con i copertoni ruggenti. Alle spalle una cultura, mediocre. Una nazione servile non curante del futuro. Una società che è strada lineare, senza curve e dossi, lineare ma piena di buche. Scorrono le città ai bordi degli occhi, scorrono i campi ai lati della macchina. Partire. Andare. Lontano. Nessuna meta, nessun arrivo, ma solo un nuovo inizio per la strada. Tra la gente, gli animali e i paesi.

Questo cielo cinereo che all’orizzonte è ramato, che segna il confine di un nuovo mondo lontano. Un nuovo mondo che mi si apre in petto, che mi esorta ad andare, ad accelerare, a spingere il piede. 100 -150- 180 e la vita che scorre per le vene, e la vita che vola su queste strade.

di Pierangelo Grosso All rights reserved

Nota biografica dell’autore

Nato nel 1990 in Sicilia, espatriato nel 2009 alla volta della capitale ma nel cuore sempre la mia Itaca. Mi auto-definisco un moderno Ulisse. Viaggio quasi ogni mese in un posto diverso, non amo la monotonia. A Febbraio prenderò la laurea triennale in lettere moderne e da gennaio andrò a vivere in Francia. Mi piace sperimentare partendo dalla scrittura che non è approdo ma punto di partenza, sfocio nella pittura, passando per la scultura. Insomma amo l’arte in tutte le sue forme. E mai, come adesso, sento il bisogno di crearne. Scrivo dall’età di sedici anni, prima preferivo perdermi per i campi della mia terra. Leggo le basi della letteratura. Sono un tipo Verghiano sfociato nel romanzo di Consolo, ma De Roberto è il mio angelo custode.

 

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