Racconti – Come una musica lontana

di Redazione The Freak

Racconti – Come una musica lontana

di Redazione The Freak

Racconti – Come una musica lontana

di Redazione The Freak

Non immaginava quanto rapido potesse essere. Era vento elettronico e meccanico. Il treno d’acciaio gli si fermò a un palmo dai piedi. Lo stridere dei freni gli si conficcò negli orecchi più ancora della tromba di Miles Davis. Osservò il lungo serpentone delle fermate della metro. Il treno rimase ad attenderlo per alcuni secondi, poi ripartì. E lui rimase giù. Le mani nelle tasche dei jeans, il cappuccio della felpa sul berretto beige della Nike. Fermò il suo iPod e riportò il cursore sulla scelta dei brani. Scelse Tutu. I muscoli assorbirono la tensione del brano e ripresero il vigore dei suoi diciotto anni. Alzò il capo e si rimise in cammino.

I palazzoni della sessantaseiesima si riflettevano sui Ray Ban neri di Phil. L’iPod aveva switchato verso Come on, come over di Pastorius. Il ragazzo camminava portando il tempo per le strade di New York, seguiva quei ritmi che si mescolavano nelle orecchie e nell’anima. Aveva perso la direzione. Central Park era a due passi. Avrebbe potuto godersi il fresco dell’erbetta più famosa del mondo, magari ammaccarla un po’ con il suo corpo gracile e ben curato. Phil si fermò all’incrocio di Park Avenue. Il traffico era fuori tempo. Era fuori tempo con il solo di Pastorius. L’idiota alla guida della Mercedes blu targata DG090HK suonava il clacson senza un minimo di senso ritmico. Phil sollevò il mento verso l’alto, e gli parve di avere proprio sopra il naso la cappa grigia dei grattacieli. Si sentiva come in fondo a un dirupo. L’acciaio inossidabile lo soffocava.

Sembrava che quegli enormi bestioni stracciassero via il cielo come fosse carta da parati. Chissà cosa speravano di trovare dietro quel blu, neanche fosse la copertina di un libro.

Phil aveva la sensazione di avere le mani vuote, e sudate. Il vento si divertiva a tirargli via il cappuccio dalla testa. Pareva che la gola gli si fosse lacerata e non potesse più parlare. Era come se il corpo si fosse fermato, pezzo dopo pezzo. Le gambe rimanevano inermi come colonnine di marmo sul suo busto, anch’esso più fermo di un chiodo fissato alla parete.

Eppure qualcosa dentro le viscere tornava ad agitarsi, ad allarmarsi, ammutolirsi e abbandonarsi, avvinghiarsi alla bile e allo stomaco, come fosse un sacco d’immondizia da chiudere.

Guardò la punta delle sue All Star bianche e rosse. Le mosse. Pensò di essere morto. Poi tornò a muovere le mani nelle tasche della felpa.

Fece su e giù come la ballerina classica dei carillions. Capì che non era morto né ferito, forse impazzito, ma questo era un altro discorso.

Decise di abbandonare la via per Central Park. Ci sarebbe tornato più tardi. Il suo quarantacinque ben assestato lo portò di nuovo verso la metropolitana. Phil scese le scalinate piegando leggermente le ginocchia a ogni gradino. Prese la linea numero sei, stazione 68 Street-Hunter College, Lexington Avenue.

Due minuti e un altro treno sarebbe passato. Avrebbe dovuto scegliere se prenderlo o perderlo, ancora. Attese i due minuti indicati dal led luminoso. Quando il tubo arrivò salì senza voltarsi. Aveva dato le spalle alla vita di pochi attimi prima. Phil non sapeva bene a cosa aveva detto addio.

Tuttavia aveva appena scelto, deciso per un nuovo viaggio. Alla 59esima prese la NQ, le porte gli si chiusero sul culo stavolta. Aveva voglia di andare. C’era qualcosa in sospeso, come l’aria che si respirava nei bui cunicoli in cui si rintanavano uomini e donne d’affari sempre in allerta sui crolli del mercato. Con la schiena poggiata alle porte automatiche, Phil se la ridacchiava. Il mondo che gli ruotava intorno lo divertiva, si rendeva ridicolo, tanto era stretto nei doppiopetto e nei tailleur, negli auricolari e nei monologhi buffi delle persone, nel sonno indisturbato di un adolescente piuttosto grasso e sbadato.

Prossima fermata la 49esima, la sua. Phil si avvicinò alle porte, diede una spallata a uno di quelli che s’incontrano a Wall Strett. Il tipo gli urlò dietro un aristocratico “Fuck you”, Phil non se ne curò e prese a correre. Divorò gli scalini e si ritrovò alla luce delle sei del pomeriggio in pochi secondi. L’affanno lo fece sentire vivo. Qualcuno gli aveva detto che lungo la 48esima Jimi Hendrix andava a comprare le sue chitarre. Pensò di essere nel posto giusto.

Anche se lui, quel che aveva dentro, lo voleva buttare fuori. Phil voleva buttare fuori quel fiato lercio come lo smog dei tubi di scappamento delle macchine. Voleva inquinare il mondo con la sua anima. Riprese il suo iPod.

Tornò su Kind of Blue e si domandò So What? La tromba di Miles fece il resto.

All’angolo con la nona doveva esserci un bugigattolo, pochi metri quadrati di musica e strumenti. Da Sam Ash non poteva permettersi neppure uno spartito. Lì, invece, avrebbe potuto comprare uno strumento vero con pochi soldi. E questo bastava. Un uomo, sulla quarantina, chiuso come un uovo sul suo da fare, era seduto su uno sgabello al centro della stanza. Sulla sinistra la cassa, e tutt’intorno chitarre, bassi, aste e rullanti per le batterie, sassofoni, contrabbassi, violini. Qualunque oggetto producesse musica lì dentro era il benvenuto. Alcuni strumenti parevano nuovi, altri mostravano gli acciacchi del tempo. Sulla testa di Phil pendeva una sorta di soppalco, sembrava quasi uno sgabuzzino per quanta roba era stipata lì sopra.

Il ragazzo saltellò un paio di volte su se stesso per vedere meglio e notò solo la cassa di una vecchia batteria dal piede rotto sulla destra.

Allora la finisci di saltellare come un idiota? Che ci fai qui?”

L’uomo dello sgabello continuò a lavorare, non badò a Phil fino al fastidioso scricchiolio del parquet provocato dai salti.

Cos’è, ti hanno tagliato la lingua mentre venivi qui? “

Il cartello “attenti” al cane è per lei? O si è solamente svegliato storto stamattina? “

Il cartello è per quelli come te che cercano rogne. Allora, che vuoi?”

Phil deglutì, spinse indietro le orecchie e alzò il mento.

Una tromba, mi serve una tromba”.

È L’uomo sullo sgabello fermò braccia e mani. Si drizzò e si voltò rivelando un armonioso profilo greco.

Eccola qui”.È Lo strumento luccicò sotto la lampadina che penzolava dal soffitto. Phil rimase folgorato come un innamorato al primo appuntamento. Era il loro primo appuntamento. Il ragazzo era su di giri, ruotava sulle sue All Star, stringeva il collo con la mano destra, poi il viso. Si sistemò il berretto e infilò di nuovo le mani nelle tasche profonde dei suoi pantaloni larghi da hip hop.

E’ questa che cerchi ragazzo?”

Si… Dio santo, è bellissimo”.

Tieni, prendila… Questa si che è una donna ragazzo… falla suonare come Cristo comanda…” Phil l’afferrò a piene mani. Con il polpastrello dell’indice percorse le curve, e poi la bocca, la impugnò, pigiò sui tasti. Era eccitato e quando se ne rese conto si fece rosso come il sedere dopo le sculacciate della mamma. L’uomo sullo sgabello rise e accese un sigaro. Ruotò lo sgabello, tutto nero, sembrava classico. Forse era la seduta di un vecchio pianoforte.

Incrociò le braccia e si godette la scena. Phil portò alla bocca la tromba. Si baciarono. Fu il bacio più saporito e aggraziato che le sue labbra avessero mai ricevuto.

Chiuse gli occhi: nessuna droga lo avrebbe mai portato fino in fondo a se stesso come quella tromba. Buttò fuori un po’ di fiato. Suonò. Era sua.

Sono cinquanta, ragazzo”.

Cinquanta dollari ed è tua.È Phil tornò in quella stanza poco dopo.

Aveva raggiunto un luogo dentro di sè ignoto, invitante, sublime.

Allora?”

Cosa?”

Cinquanta dollari”. Phil infilò una mano in tasca, aveva due biglietti da dieci e uno da cinque. Totale venticinque dollari. Tornò a farsi rosso, osservò la tromba e fece per restituirla all’uomo sullo sgabello.

Quanti soldi hai ragazzo?”

Venticinque”.

Quanti soldi hai ragazzo?”

Amico, ho venticinque dollari… non ne ho di più… Ok, senti,lascia perdere”.

Posò la tromba e aprì la porta d’ingresso a vetri scuri del negozio. “E’ tua. Da oggi è tua, forse lì dentro c’è ancora intrappolata l’anima del suo ex proprietario… Buona fortuna

ragazzo…”

Phil prese i suoi venticinque dollari stropicciati e li porse all’uomo sullo sgabello. Pochi attimi dopo, il vecchio era giù chino su un altro strumento. Phil si ritrovò all’angolo tra la 48esima e la 49esima. Si sentiva stranamente libero. Come se qualcuno gli avesse risucchiato l’anima. Aveva una voglia irrefrenabile di suonare, non poteva farne a meno. Non poteva fare a meno di tenere appiccicata alle labbra quella donna d’oro. Dio mio, gli sembrava una maledizione. Forse era così.

Phil non tornò a casa quella sera. Nè le sere successive. Nessuno seppe più nulla di lui. Nessuno ritrovò più quel negozio all’angolo con la 49esima. Una tromba tuttavia continua a suonare lungo argini e confini, intonando una melodia che ha il sapore di tutta una vita.

di Federica Piacentini, III classificata, Sez. Racconti; All rights reserved

Nota biografica dell’autore

Federica Piacentini scrive sin dall’infanzia.

Laureata.Ha frequentato la LUISS Writing School, la scuola di scrittura della LUISS Guido Carli.

Ha pubblicato con Perrone Editore il racconto dal titolo Constantin; scrive poesie e racconti; in cantiere un romanzo.

Scrive sul sito di giornalismo partecipativo Agoravox e gestisce un blog personale dal titolo Metro-post.

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