Quel pasticciaccio brutto che fece la pop art

di Redazione The Freak

Quel pasticciaccio brutto che fece la pop art

di Redazione The Freak

Quel pasticciaccio brutto che fece la pop art

di Redazione The Freak

Nel 1925 nacque un movimento artistico che prese il nome di “Nuova oggettività”. Il suo centro gravitazionale fu la Germania e al contrario di quanto possa far pensare il suo nome, esso si distinse dal realismo per la carica di emotività che riuscì a mantenere.

Artisti disillusi e cinici vollero rappresentare la realtà senza abbellimenti, senza finzioni artistiche. Del resto, in un periodo storico come quello degli anni Venti, mi chiedo se avessero altra scelta.

Trent’anni dopo, in Gran Bretagna prima e negli Stati Uniti poi, un nuovo movimento, prima di tutto di pensiero, si aggrappò alla Nuova Oggettività come se fosse la sua unica chance, il suo unico spazio espressivo, e diede inizio a un percorso che disdegnava le astrazioni dal reale e quella separazione tra arte e presente a cui gli espressionisti astratti avevano dato un certo lustro.

È stato scritto: “La pop art vuole distruggere l’arte (o se non altro farne a meno), ma l’arte le è subito addosso: è il contro-soggetto della nostra fuga. Non solo la pop art è un’arte, ma per di più il suo riferimento è la Natura. Certo, non più la Natura vegetale, apaesaggistica, umana, psicologica. Oggi la Natura è il sociale assoluto, o meglio ancora: il Gregario. La pop si appropria di questa nuova Natura e la critica. Come? Imponendo al suo sguardo (e dunque al nostro) una distanza”.

Pop, dunque. Popolare.

Arte del consumo.

Arte dei mass media che hanno preso in mano la società e l’hanno trasformata in un qualcosa privo di precedenti.

Una volta ho letto da qualche parte che la realtà è quelle quattro cose che vedi.

All’inizio mi sembrava una frase troppo semplicistica, una di quelle che come risposta meriterebbe la classica formula del: “Guardi che le cose non stanno proprio così”. Invece le cose stanno così, nella pop art, nel mondo post-modernista, nella società odierna. Guardarsi intorno ed essere testimoni di quanto accade. Posare lo sguardo su ciò che fa da contorno alla nostra vita e renderlo soggetto protagonista.

Niente invenzioni, elucubrazioni, finzioni.

Warhol, disse Alberto Boatto: “rifà le immagini che stanno sotto gli occhi di tutti per sottrarle all’invisibilità e renderle per una volta lamento, tanto vedibili da farcele scorgere e conoscere realmente. Perché è proprio l’oggetto che ci sta di continuo presente davanti allo sguardo che ci sfugge, che non arriviamo a vedere”.

Prendere l’immagine di Marilyn Monroe, di un barattolo di latta, di una lattina di Coca-Cola, e trasformarlo in arte.

La questione è più seria di quanto si pensi: si tratta di uscire da quella concezione dell’arte come sogno, come ideologia senza piedi per terra, di immaginazione oltre l’immaginazione.

La realtà è quelle quattro cose che vedi.

E se qualcuno ha detto che Warhol voleva uccidere l’arte forse un po’ si sbagliava, forse, mi sento di dire, la sua visione era leggermente parziale.

Warhol, Schifano, Angeli, Festa erano, per dirla alla “sorrentiniana” maniera, solo irriducibili amanti della verità. E se il capitalismo in quel momento storico aveva generato un’industria culturale, producendo come risultato gli sguardi scandalizzati di tutti coloro che rifiutavano questa tendenza, gli artisti pop presero atto della situazione e iniettarono valore in quegli oggetti che sembravano non averne.

Ma non sarà questa la missione dell’arte? Non sarà che forse proprio grazie all’approccio della pop art la cultura diventa un mezzo di contatto, il profano si fa sacro e l’arte diventa, finalmente, tangibile?

 Di Adriana Lagioia

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