Puglia terra di mafie 1

di Federico De Giorgi

Puglia terra di mafie 1

di Federico De Giorgi

Puglia terra di mafie 1

di Federico De Giorgi

La Puglia è da anni definita, insieme a Sicilia, Campania e Calabria, come una Regione a “tradizionale presenza mafiosa” (Rapporto Ecomafia di Legambiente), essendo infatti risaputo che il tacco d’Italia abbia partorito la Sacra Corona Unita, da molti chiamata anche “quarta Mafia”. Per molto tempo la Puglia è stata ritenuta una “insula felix”, a differenza delle altre regioni del sud Italia, dove erano già presenti delle organizzazioni criminali di stampo mafioso consolidate e potenti.

Nei primi anni ‘80 ci si rende conto che non è assolutamente così.

Tuttavia, mentre le altre mafie hanno attecchito più o meno interamente sulle Regioni di riferimento, in Puglia la situazione è stata fin da subito molto frastagliata, tanto che i più autorevoli studiosi della materia sono concordi nel dire che è scorretto parlare di SCU come mafia pugliese in quanto, pur essendo quella l’idea alla base della sua creazione, questo non si realizzerà mai per una serie di motivi.

La Sacra Corona Unita sarà egemone nelle provincie di Brindisi e di Lecce con forti influenze in quella di Taranto, mentre Bari e Foggia si distaccheranno quasi subito da essa seguendo delle esperienze autonome.

LA NASCITA DELLA SCU: UN PROGETTO REGIONALE

La data esatta non è certa: alcuni parlano della notte di Natale del 1981, altri del 1 Maggio 1983 (la più probabile). Quello che è certo invece è che ciò sia avvenuto nel carcere di Bari dove Giuseppe Rogoli da Mesagne (BR), professione piastrellista, non ancora quarantenne, sta scontando una condanna a dieci anni di reclusione per una rapina avvenuta a Giovinazzo.

E’ un periodo duro per i criminali pugliesi perché nelle loro stesse carceri dominavano i camorristi: a causa della guerra fra la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo e la Nuova Famiglia di Michele Zaza e delle conseguenze che ben si possono immaginare all’interno delle carceri campane, si decide di trasferire i cutoliani in istituti al di fuori della Campania e a causa della vicinanza territoriale ne fa le spese la Puglia.

A ciò si aggiunga che i rapporti fra Camorra e delinquenza pugliese sono stati fino a quel momento di sfruttamento e assoggettamento, con i pugliesi costretti a versare delle percentuali sui profitti dei loro affari in cambio di “protezione”.

Raffaele Cutolo però si rende conto che è una situazione che non può reggere a lungo e vuole fare della malavita pugliese la succursale di quella campana: è cosi che con il summit di Lucera (FG) nel 1979 affilia alla Camorra gli esponenti di spicco della criminalità locale per creare una consorteria che avrebbe dovuto chiamarsi “Nuova Camorra Pugliese”. Poche settimane dopo si cerca il consenso di ‘Ndrangheta e Cosa nostra con un’altro summit, questa volta a Galatina (LE). L’invasione campana a questo punto non può più essere tollerata, “Don Raffaè” si era spinto troppo oltre e l’obiettivo dei criminali locali diventa ridare “la Puglia ai pugliesi”.

Chi allora meglio di Rogoli, già affiliato alla ‘Ndrangheta e in stretti rapporti con storici boss calabresi come Umberto Bellocco e Carmine Alvaro, poteva ergersi a capo di questo “disagio”?

Nasce così questa nuova consorteria che è la Sacra (riferimento al “battesimo” a cui è sottoposto ogni nuovo membro) Corona (gli affiliati sono come i grani di un rosario) Unita (con un alto grado di coesione interna), che però secondo molti esperti è rimasto più “un progetto di associazione mafiosa che non un modello compiuto”.

Al momento della fondazione c’è una vasta rappresentanza di tutto il territorio pugliese: Gerardo Agnelli e Giosuè Rizzi (storici capi della malavita foggiana), Savino Parisi (il boss dei boss di Bari), Vincenzo Stranieri e i fratelli Modeo (personaggi di spicco della provincia di Taranto), Antonio Dodaro (che sarà il responsabile della SCU in provincia di Lecce) oltre a Salvatore Rizzo e Romolo Morello (quest’ultimo sarà il primo pentito della SCU leccese, costretto a ritrattare le sue dichiarazioni e in seguito ucciso), oltre allo stesso Rogoli (come già detto fondatore e leader della Sacra Corona).

IL DISTACCO DI BARI E FOGGIA RISPETTO ALL’ESPERIENZA SALENTINA

La grande coalizione pugliese però dura poco, anzi pochissimo: passa solo un anno quando vengono rinvenuti numerosi scritti all’interno del carcere di Bari con le formule di giuramento utilizzate, la copia dello statuto riportante anche il nome dell’organizzazione e tutti i suoi membri.

Rogoli, interrogato dalla magistratura, afferma che “la Sacra Corona Unita era stata creata solo per regolare e decidere le varie questioni insorgenti fra i detenuti”, in cui lo stesso Rogoli era il giudice ultimo, “che si poteva accedere solo tramite battesimo e che i componenti si distinguevano per grado”.

La cosa incredibile è che nel processo non si riconosce il carattere mafioso dell’associazione, ma ciò è probabilmente giustificato dal fatto che i suoi componenti non avevano ancora avuto il tempo di affiliare abbastanza adepti e di assoggettare il territorio di riferimento. Cosa che sarà fatta negli anni a seguire, quando i fondatori esauriranno le loro condanne e torneranno a casa.

Il progetto regionale della SCU viene ridimensionato proprio a causa della eccessiva confidenza che Rogoli concede allo Stato con le affermazioni di cui sopra, che provocano lo sdegno e il successivo distacco dei baresi (Savino Parisi, Francesco Biancoli e Giuseppe Mercante) e dei foggiani (Pinuccio Iannelli, Cosimo Cappellari, Giuseppe Caputo e Giosuè Rizzi). Bari e Foggia diventano autonome dando luogo a esperienze diverse.

A Foggia (a cui si aggiungono San Severo e Cerignola) opera la “Società Foggiana”, dedita principalmente a traffico e spaccio di stupefacenti, estorsioni e gioco d’azzardo, con una organizzazione a forma piramidale e “batterie” (così vengono definiti i vari clan) operanti in tutta la Provincia.

Fortemente condizionata dall’esperienza camorristica campana a causa della vicinanza territoriale, è da molti considerata l’associazione di stampo mafioso più sanguinosa e brutale in Italia; negli ultimi anni è infatti salita più volte all’onore delle cronache per un’escalation di violenze che sembra non arrestarsi più. Anch’essa sarà considerata dalla magistratura una semplice associazione a delinquere nel 1995, scelta che sicuramente non sarebbe replicata oggi.

Da tenere distinta è invece la “mafia garganica”, arcaica e legata fortemente al controllo delle terre in cui fin dagli anni ’60 si registrano violente faide legate a fenomeni di abigeato ma che oggi si sta adattando allo sviluppo turistico del territorio e vuole sedersi al tavolo a dialogare con imprese e politica.

La situazione nel barese è ancora più complessa: già negli anni ’90 viene riconosciuta la matrice mafiosa de “la Rosa”: grazie alla testimonianza di un pentito viene riferito che ad Acquaviva delle Fonti si era assistito ad uno strano “rito battesimale” in cui “Oronzo Romano, Giovanni Dalena e Giuseppe Dentice erano entrati a far parte di un sodalizio di tipo camorristico”. Questa sarà tuttavia l’unica organizzazione operante nel barese ad avere stretti rapporti con la SCU salentina, con cui intercorrevano ottimi rapporti.

Le altre importanti esperienze che si segnalano sono quelle del clan di Parisi nella città di Bari, che da molti sarà riconosciuto come il boss di riferimento di tutta la provincia del capoluogo pugliese, e del gruppo di Salvatore Annacondia a Trani, che però ha presto iniziato a collaborare con la giustizia con una conseguente dissoluzione della sua compagine.

Da non sottovalutare sono l’influenza e l’infiltrazione che i gruppi baresi hanno avuto rispetto alla pubblica amministrazione negli anni ’90: nel solo 1993 sono stati sciolti i comuni di Terlizzi, Modugno, Gioia del Colle e Trani.

Tenendo presente che la zona di Manduria capeggiata da Stranieri può ritenersi un tutt’uno con il resto del Salento rogoliano, anche Taranto sviluppa una esperienza propria ponendosi come “cuscinetto” dalle mafie che la circondano: da est la SCU, da ovest la ‘Ndrangheta e da nord la Camorra.

A Taranto la malavita ha avuto forti connessioni con il mondo amministrativo e imprenditoriale e si è fatta portatrice di welfare nel periodo di crisi dell’ex Italsider (l’ILVA di oggi tanto per intenderci) che aveva interessato un numero elevatissimo di lavoratori. Per il resto il solito copione, questa volta recitato dal clan dei fratelli Modeo che si dedicavano principalmente a estorsioni e traffico e spaccio di stupefacenti.

Episodio da segnalarsi è la condanna nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa del Sindaco Giancarlo Cito.

Sulle province di Brindisi e Lecce ci sarebbero moltissime cose da dire. Per lungo tempo sottovalutata, è il 1994 quando la Commissione Parlamentare Antimafia decreta l’esistenza della “quarta mafia” in Puglia. Nel brindisino dominava il clan dei “mesagnesi”, il cui massimo esponente è naturalmente stato Rogoli, che aveva anche come esponenti di spicco Massimo Pasimeni, Francesco Campana ed Ercole Penna. Negli anni di massima importanza della SCU Mesagne sarà definita da molti “la Corleone di Puglia”.

Il “vecchio” (soprannome gradito a Rogoli) si trova in regime di 41 bis dal 1992 e sarà uno dei pochi sacristi di alto rango a non pentirsi e non collaborare con la giustizia. Fra Brindisi e Tuturano operava poi Salvatore Buccarella, il “cassiere” Tonino Screti a San Pietro Vernotico, Ciro Bruno a Torre Santa Susanna e i fratelli Brandi nel capoluogo.

La provincia di Brindisi è stata sempre quella più fedele e obbediente al fondatore.

Nella provincia leccese si è parlato invece di “struttura ad arcipelago”: nel capoluogo comandavano prima Salvatore Rizzo e poi Filippo Cerfeda, affiancati dagli storici clan Vincenti a Surbo e Pellegrino a Squinzano, senza dimenticare poi il gruppo di Gianni De Tommasi a Campi Salentina, uno dei capibastone più potenti e sanguinosi di tutta la consorteria. Nel sud Salento grande potere aveva invece i Padovano a Gallipoli e i Giannelli-Scarlino tra Taurisano, Ugento e Casarano.

Volendo definire la struttura della mafia salentina, “l’organizzazione non è mai arrivata a esprimere una verticalità decisionale, né una accettabile orizzontalità strutturata: potrebbe definirsi una mafia orizzontale a carattere frammentario poiché caratterizzata dall’assenza di vertici e, orizzontalmente, dalla massima autonomia dei singoli clan” (A. Apollonio).

Attività primaria era quella delle estorsioni, che permise di creare una “cassa comune” dell’organizzazione di cui sarà responsabile Tonino Screti. Seguono le solite attività illecite tipiche delle associazioni a stampo mafioso come il traffico e lo spaccio di droga, l’usura e la gestione del gioco d’azzardo.

La vera gallina dalle uova d’oro però è il contrabbando di sigarette, importate via mare dai vicini Paesi jugoslavi, tanto che la fine di questa attività nei primi anni duemila è da alcuni studiosi considerata una delle cause che ha portato alla fine della SCU. Secondo le stime ogni viaggio fatto da uno scafo poteva fruttare circa 200 milioni di lire. Il contrabbando, inoltre, è stato un fondamentale “ammortizzatore sociale” perché sosteneva nel 1995, nella sola provincia di Brindisi, 5000 famiglie per un giro di affari di circa 1000 miliardi di lire; esso era inoltre visto come un lavoro “pulito”, accettato da un punto di vista sociale, dato che non si trattava di trafficare droga né di fare del male ad altre persone. E quando finisce il giro del contrabbando la SCU entra in crisi. Secondo alcuni esperti, finisce per sempre l’esperienza sacrista per come l’abbiamo conosciuta.

E’ con l’arresto del boss Filippo Cerfeda nel 2003 che, dopo due maxi-processi negli anni ’90, le operazioni “Primavera” e “Merdiana” nel 2000 e nel 2001, “la Sacra corona unita, in quanto struttura del crimine mafioso che tenta di ricondurre la malavita locale a un sistema unitario, perde riferimenti e soprattutto consistenza, lasciando sul terreno grumi autonomi di crimine organizzato che continuano ad adottare metodologie mafiose” (A. Apollonio).

Tuttavia non sono tutti concordi nel definire esaurita l’esperienza sacrista: da un lato la motivazione di Apollonio è sicuramente convincente, dall’altro c’è chi, come l’ex procuratore capo della DDA di Lecce Cataldo Motta, ha più volte parlato di riorganizzazione della SCU e che essa addirittura opera con “tre generazioni”.

E’ davvero la fine di un’esperienza?

 

di Federico De Giorgi, all rights reserved

 

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