PROBLEMI DI INTEGRAZIONE

di Leonardo Gallato

PROBLEMI DI INTEGRAZIONE

di Leonardo Gallato

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di Leonardo Gallato

New Getto Songs (Raiz, Haber, Del Monaco)

«Il palco come nuovo tempio: le melodie vocali ebraiche come moderno songbook». Accattivante. Parole decisamente accattivanti. Si apre così, in modo più che ammiccante la descrizione riportata su un volantino dello spettacolo New Ghetto Songs, andato in scena al Teatro Vascello di Roma  il 15 e il 16 novembre. Il vero protagonista della serata è seduto in mezzo al pubblico: Yotam Haber, compositore dello spettacolo, resterà lì seduto, da bravo compositore, ad assistere fino alla fine. Ad affrontare il pubblico sul palco sono Raiz, già voce degli Almamegretta, e Daniele del Monaco con la sua LCP Ensemble.

Arrivo al concerto entusiasta e con numerose aspettative: gli artisti sono dei giganti e il progetto in sé investe e ingloba la storia, la filologia, la musicologia. Un progetto nato per riportare in vita, con veste nuova, numerosi canti ebraici registrati dal musicologo Leo Levi a Roma nella metà del Novecento. «Uno show di teatro pop, di intrattenimento d’autore […] frutto di un lavoro molto serio che ha un valore di documentazione storica, oltre che artistico». Bellissimo. Il volantino continua a parlarmi in modo sublime. Sempre più curioso attendo l’inizio del concerto.

Le luci si spengono in teatro ed entrano i musicisti. Già la formazione tradisce qualche informazione: una chitarra elettrica, una batteria, un rhodes (e altri quattro synth), una tromba, un violoncello, un clarinetto basso. Mi ricorda in parte la classica formazione kletzmer, con il violoncello e il clarinetto basso al posto del basso, grande spazio lasciato ai fiati, e con la semplice aggiunta di una chitarra e dei synth. Provo a non farmi influenzare dalla cosa. Non fraintendete: adoro la musica kletzmer. Ma il rischio di cadere nello scontato, di tornare sempre e solo al kletzmer tutte le volte che si parla di musica ebraica è sempre dietro l’angolo. Provo a non pensarci. Comincia lo spettacolo. Già dal primo brano ci si rende conto di cosa si sta ascoltando. Aspetto che arrivino gli altri brani per poter farmi un’idea più larga, più concreta. new-ghetto-songs

Mi concedo un po’ di tempo. Nel frattempo rileggo il volantino, con la speranza di trovarvi qualcosa che sul palco stia accadendo davvero. «Le antiche melodie diventano repertorio pop […]. La musica adoperata nella liturgia è evidentemente molto legata alla parola […]. L’aspetto metrico è preminente e, da una prospettiva sonora, l’ensemble enfatizza con la ricerca timbrica e ritmica certi concetti religiosi espressi dai testi». Incredibile. Poesia pura. Smetto di leggere e torno a concentrarmi sul concerto. Alla fine del quarto pezzo mi sembra di capire: devo aver sbagliato sala. Controllo di nuovo sul biglietto. La sala è quella giusta. Non riesco proprio a capire.

Sento provenire dal palco solo un’ipertrofia di note e di ritmiche. Non un accenno di sacralità, non un minimo di esaltazione della parola, dell’accento ritmico, della musicalità salmodica della lingua. Non ci sono né il pop né la classica (sì, la stampa pubblicitaria è veramente bugiarda). Provo a calmarmi. Mi piace il free jazz. Ero venuto ad ascoltare altro ma va bene lo stesso. Eppure c’è qualcosa che non riesce a farmi stare tranquillo. Un fastidio costante che mi assilla. L’esecuzione è del tutto farraginosa, costipata. Nel cercare di addomesticare il free sul palco nasce un nuovo ibrido musicale: un free jazz privo delle caratteristiche del free jazz. Lo sforzo esecutivo è appunto un vero e proprio sforzo, e prova ne sono i numerosi fraintendimenti tra i musicisti sul palco. Il free perde il suo essere free, la sua libertà. È costretto dalla direzione ad un annichilimento. Rinuncia all’esaltazione dell’errore, accetta solo l’ipertrofia musicale. Si parlava di religiosità: non v’è stata una battuta di silenzio in tutto il concerto; solo note, rumori, note, rumori, note, rumori, note.

Si parlava di attenzione alla parola, ai suoi accenti: la voce, la calda e splendida voce di Ramiz è invece isolata, recita per sé stessa. Non viene amalgamata dalla musica, né viene ripresa da essa. Tutto l’ensamble si affatica nell’eseguire (e non nel suonare, si badi) qualcosa che non gli appartiene. Non stanno suonando affatto ensemble. Ne risentono le dinamiche, così incerte, così insicure, così fratte. Ne risentono tutta la composizione e tutto il progetto. La voce è totalmente isolata, la musica va completamente per la sua strada. L’intenzione del concerto era quella di creare un concerto di free jazz che inglobasse e integrasse altre culture, altre sonorità. È stato eseguito invece un concerto di free jazz che ha isolato l’altro da sé, che lo ha rinchiuso in una piccola gabbia da esposizione, lo ha mostrato al pubblico per qualche minuto, malridotto, camuffato, isolato. E dopo averlo buttato, il concerto ha poi ripreso, impassibile nella sua insicurezza, il suo cammino, pavoneggiandosi e abbandonandosi alla totale ridondanza esagerata di sé stesso.

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