Pregate per noi

di Leonardo Naccarelli

Pregate per noi

di Leonardo Naccarelli

Pregate per noi

di Leonardo Naccarelli

Dopo mesi di calma apparente, si torna a parlare del caso ILVA. La scorsa settimana, una notizia ha scosso l’opinione pubblica e, con essa, la maggioranza di governo: la multinazionale ArcelorMittal, con un comunicato stampa, ha esternato la propria volontà di recedere dal contratto di affitto e successiva compravendita dell’impianto siderurgico di Taranto. L’esecutivo, insicuro e travolto dagli eventi, non è in grado di fornire una risposta forte e credibile. Di fronte all’ inconsistenza politico-valoriale della politica italiana, non c’è da stupirsi che le uniche proposte siano dichiarazioni di intenti vaghe e ritardatarie. Neanche richiamare all’unità tutte le forze politiche ha un qualche senso: come insegna, infatti, l’aritmetica, la somma di infiniti zeri dà sempre come risultato zero. 

In questo articolo, non sposerò le ragioni di un’unica parte in causa. In questo valzer di sorrisi finti e pugnalate vere, in questo mix di discorsi alti e colpi bassi, nessuno ne esce veramente pulito. Tutto porta a dire che si stia giocando una partita di poker cinica e crudele. Non saprei in che altro modo definire la condotta di chi impiega 10mila operai come fiches ed una città esausta e disillusa come tavolo da gioco. Mi vengono in mente le parole di De André: “Cos’altro vi serve da queste vite?” 

 ArcelorMittal giustifica la propria condotta facendo riferimento all’eliminazione dello scudo penale originariamente promesso dall’esecutivo anni fa. Lo scudo penale è uno strumento giuridico: esso consente all’acquirente dell’impianto di essere immune da possibili conseguenze penali derivanti dall’esecuzione del programma di risanamento ambientale.  

Negli scorsi giorni è però emersa una verità che, se non diversa, è quantomeno ulteriore. Arcelor-Mittal si ritira non per lo scudo penale, non soltanto. L’affare, semplicemente, non è più conveniente per vari fattori: la crisi, ormai endemica, del mercato siderurgico, l’esigenza di ridurre costi e personale (almeno 5mila esuberi), la tentazione di veder venir meno un concorrente nel mercato e, per ultima, la questione dell’altoforno 2. A proposito di ciò, un cenno è doveroso: la magistratura ha disposto che esso sia spento il mese prossimo perché insicuro. Giusto per ricordare, è l’altoforno in cui ha perso la vita un operaio per una colata di ghisa. Per i giudici, lo si poteva continuare ad utilizzare solo a patto che venissero compiuti degli interventi strutturali. “ArcelorMittal- sostiene Simona Fersini, presidente del Comitato dei Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti- “se ne va perché non in grado di adempiere agli obblighi ambientali che le sono stati imposti”. Per superare lo stallo la multinazionale chiede, tra le altre cose, che sia emanata una legge affinché l’altoforno resti in funzione, a prescindere da quanto sostenga la magistratura. “Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo” per usare una citazione cinematografica. 

Sbaglierebbe, tuttavia, chi ritenesse che il comportamento della politica italiana sia esente da critiche. Che il mercato siderurgico fosse in difficoltà e che Arcelor- Mittal non fosse più così convinto di concludere l’affare era largamente noto. Come giustamente osserva Carlo Calenda, eliminare lo scudo penale, fornendo dunque il pretesto all’azienda per recedere dal contratto, è da irresponsabili e/o da incompetenti. Matteo Renzi che critica un emendamento che egli ha personalmente votato; Matteo Salvini che accusa l’esecutivo di aver fatto ciò che aveva fatto il governo di cui era vicepremier: sono tutti elementi di una commedia dell’assurdo che, purtroppo, non fa ridere nessuno. Volgendo lo sguardo più su un piano generale, c’è un altro elemento da analizzare: che credibilità ha un Paese che cambia leggi e viola accordi a ritmi schizofrenici? Perché soltanto in Italia, formato un nuovo governo, si stravolge l’intera politica industriale? Può essere biasimato l’imprenditore che si rifiuta di investire in un Paese così incerto ed incoerente? Non intenzionato a rispondere a tali interrogativi, il Presidente del consiglio Giuseppe Conte prevede una battaglia legale del secolo con ArcelorMittal. Gli fa eco Luigi Di Maio che sostiene l’esigenza di preservare la sovranità nazionale. Se è vero l’assunto che ciascuno dovrebbe occuparsi di cose alla sua portata, il consiglio accorato è di desistere da cotante imprese.  

Qualora un accordo tra le parti non si trovasse, l’esito non potrebbe che essere la chiusura dell’impianto. Inutile dire che sarebbe una catastrofe sotto vari profili. Circa 11 mila posti di lavoro andrebbero perduti; il prodotto interno lordo si ridurrebbe di circa il 1.5%; tra mancata produzione, mancati investimenti e costi di bonifica ambientale, il conto per le finanze dello stato sarebbe di circa 38 miliardi di euro (la manovra in discussione al Senato ne vale circa 24). È evidente che non sarebbero effetti sostenibili per il nostro Paese. Proprio per questo, a Taranto c’è una bomba sociale ed economica pronta a detonare. La speranza è che gli artificieri se ne accorgano. Pregate per noi, ce ne sarà bisogno. 

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Illustrazione a cura di Tiziano Lettieri

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