Più Stato per una società che non ne ha

di Redazione The Freak

Più Stato per una società che non ne ha

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Più Stato per una società che non ne ha

di Redazione The Freak

L’Italia ha una grande questione sociale da affrontare. Altro problema rispetto al Corona virus, che è discussione di scienza e vaccini. Qui, nell’ emergenza sociale, né scienza né medicina risolvono nulla. L’unico vaccino si chiama Stato. Quello stesso Stato che però continua a navigare in acque turbolente. Nel paradosso che dovrebbe essere l’unica ancora di salvezza, invece, è il primo ad affondare. Questione di secondi: adrenalina, agitazione e confusione. Tre botti sordi: bum, bum, bum. Un rivolo di sangue al suolo. La vita di un quindicenne spezzata, quella di un giovane carabiniere cambiata per sempre. Decine di altre vite che conosceranno solo dolore. Basta poco per strappare esistenze. Come basta poco allo Stato per perdere, ancora. Chi a vincere? Nessuno, naturalmente.

Nessuna sentenza e nessun giudizio qui, non siamo titolati nel farlo. Poi si sa che sentenze e giudizi sono le uniche cose che non mancano mai, soprattutto quando sul banco del tribunale delle nostre bacheche facebook ci sono le vite di altri, le storie di altri, i luoghi di altri. Tutto l’ altro che non viviamo e che non conosciamo ma che amiamo analizzare, commentare, giudicare, criticare, convincerci di capire. Ad esprimersi sui fatti saranno gli unici titolati a farlo: i magistrati. A noi, cittadini, che siamo anche Stato – quello che affonda ma che dovrebbe stare a galla – rimane però l’obbligo di una seria riflessione.

Perché la vita di un adolescente deve finire a quindici anni, sull’asfalto, dopo aver tentato una stupida rapina, sotto i colpi d’arma da fuoco esplosi da un ragazzo di soli otto anni più vecchio?  Non esiste una risposta definita e definitiva, semplicemente perché nei fatti della vita quasi nulla è definito e definitivo. Esiste però almeno la possibilità di interrogarsi sul tipo di società che stiamo costruendo. Una società senza Stato per esempio? È un interrogativo legittimo quando quest’ultima ci consegna, purtroppo sempre più spesso, episodi come questo. Negli anni è risultato ormai chiaro – per chi ha voluto capirlo – che il fenomeno della criminalità è strettamente legato alla struttura sociale del contesto nel quale quest’ultima si manifesta. Anche migliaia di pagine di letteratura sociologica ne hanno dato negli anni, seppur non senza criticità, testimonianza – la famosa Scuola di Chicago ce lo dice dai primi decenni del ‘900 –.  Eterogeneità della popolazione, povertà, scarsa mobilità sociale non costituiscono la causa diretta della delinquenza ma questi elementi associati ad un alto tasso di disorganizzazione sociale aumentano, non di poco, la probabilità di delinquenza o di comportamenti cosiddetti devianti. Cos’è la disorganizzazione sociale? L’impossibilità di costruire legami sociali robusti, di convivere in un sistema di comunità e di condividere valori, di cooperare socialmente ed economicamente con altri e l’impossibilità di superare ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. Ma non è allora forse chiaro che per evitare questa disorganizzazione sociale “basterebbe” una cosa sola? Lo Stato. Che altro non è che l’incontro di due impegni conseguenti: quello delle Istituzioni e quello dei cittadini. Da una parte la garanzia di una vita dignitosa: accesso a lavoro legale, accesso ad istruzione e sanità di qualità e accesso alla cultura: quindi possibilità di costruire legami sociali robusti, di convivere in un sistema di comunità, di cooperare socialmente ed economicamente e di avere la possibilità di superare quegli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo personale. Dall’ altra parte l’impegno a contribuire in ogni modo allo sviluppo della società e di tutte le sue parti.

Se è vero che abbiamo una grande questione sociale da affrontare è altrettanto vero che abbiamo una risposta da dare: riportare lo Stato nella società. Certo, non scopriamo l’acqua calda nel dire che lo Stato deve stare nella società ma purtroppo sono ancora troppi i luoghi dove lo Stato ha messo in pausa o delegato la propria presenza. Certo è anche che risulta semplice a dirsi e meno a farsi ma non esistono risposte semplici a questioni complesse. Occorre partire subito sostituendo agli alibi la pratica, prendendo anche esempio dai tanti spazi che “ce l’hanno fatta”. Il tempo è ora, dobbiamo farcela.   

di Edoardo Accorsi, all rights reserved

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