Pirateria in Somalia: prevenire è meglio che curare

di Adriana Bonomo

Pirateria in Somalia: prevenire è meglio che curare

di Adriana Bonomo

Pirateria in Somalia: prevenire è meglio che curare

di Adriana Bonomo

Pirateria in Somalia: prevenire è meglio che curare

Il 27 settembre è tacitamente scaduto l’ultimatum dei pirati somali per la liberazione del cargo Savina Caylyn, sequestrato l’8 febbraio scorso insieme al suo equipaggio di 6 italiani. Esclusa l’opportunità  di un’azione militare, troppo rischiosa per gli ostaggi, lo Stato italiano ha rifiutato di pagare il riscatto, proseguendo lungo la via della diplomazia. L’ennesimo caso di sequestro, l’ennesima richiesta di riscatto. Problema ricorrente quello della pirateria: dai Caraibi al mar Giallo. Se si guarda alle statistiche degli ultimi anni, sembra che la pirateria abbia subito un’inflazione soprattutto – e non a caso – nel Corno d’Africa.

La Somalia non ha uno Stato effettivo dal 1991. La pirateria aveva subito una deflazione quando l’Unione delle Corti Islamiche aveva assunto nel 2006 il controllo della maggior parte del territorio ma, in seguito all’invasione etiope nel dicembre del medesimo anno, la situazione è precipitata. In Somalia non esiste ad oggi alcuna Autorità  costiera, nessuna marina militare, e le acque territoriali godono sostanzialmente del medesimo status giuridico delle acque internazionali, mari in cui la pirateria è perseguita come crimine contro l’umanità.

Le statistiche

Negli ultimi anni si è assistito a una notevole inflazione del fenomeno, passando dai 24 attacchi del 2006 ai 219 del 2010. Fino al 2008 la maggior parte degli attacchi avveniva nelle coste meridionali contro le navi che trasportavano aiuti umanitari del World Food Programme a danno sostanziale della popolazione locale. Oggi, gli attacchi sono concentrati nell’area del Golfo di Aden, nei pressi del mar Rosso, punto focale per il commercio internazionale, porta per l’Estremo Oriente. Sempre armati e spesso dotati di alte tecnologie marittime, i pirati si muovono con piccoli motoscafi: agili nei movimenti, veloci nella fuga. Nei casi di attacchi a navi con gradi carichi e petroliere, questi si muovono come arcipelaghi di imbarcazioni, facendo capo a una mother ship.

 

Spesso la rapina degenera in sequestro estorsivo, ma raramente si assiste a un’escalation di violenza nei confronti dei membri dell’equipaggio. Nel 2010, su un totale di 155 ostaggi, non vi è stato alcun omicidio nè alcuna lesione personale. Nella maggior parte dei casi i pirati imbarcano l’equipaggio in scialuppe di salvataggio. Talora invece il rilascio degli ostaggi avviene dietro pagamento da parte della Società  armatrice o dello Stato nazionale di riscatti che si aggirano nell’ordine dei milioni di euro.

Costoso tuttavia non è il solo ipotetico riscatto. Le stesse operazioni di salvataggio, la predisposizione di una portaerei e i relativi costi di funzionamento e del personale hanno valori a 6 zeri. Si pensi che l’Unione Europea ha stimato una spesa annuale di 8,3 milioni di euro per lo spiegamento di 6 fregate al largo della Somalia. Il Ministero della Difesa italiana ha invece previsto il costo di 8,7 milioni di euro per l’invio di una sola fregata.

La vecchia Europa, maggiormente interessata a preservare l’incolumità  dei commerci marittimi con l’Estremo Oriente, ha promosso varie missioni multilaterali, costose ma spesso poco efficaci e mal coordinate. Dal 2008 sono state intraprese tre diverse missioni cooperative interstatali (la Combined Task Force 150; la US Combined Joint Task Force; la missione Enduring Freedom Horn of Africa). Nell’ambito delle organizzazioni internazionali, la NATO ha avviato la missione Allied Provider e l’Unione Europea la missione Atalanta, entrambe volte alla protezione degli aiuti umanitari inviati dal WFP. Parallelamente, numerosi Stati hanno impiegato unità  navali nazionali per la protezione delle proprie navi da carico.

Strumenti questi repressivi si, ma non risolutivi. Malgrado tali missioni abbiano spesso sventato tentativi di rapina, non ogni attacco può essere sventato in flagranza e spesso la lentezza negli spostamenti marittimi delle portaerei militari rende difficile l’inseguimento. Con la conseguenza che un apparato che richiede elevate spese di mantenimento non sempre realizza gli scopi per cui è stato introdotto.

D’altro canto, le società  armatrici e le compagnie di navigazione hanno adottato numerosi mezzi di tutela preventiva: assicurazioni del carico, assoldamento di scorte di mercenari, l’addestramento dei marinai a utilizzare le armi e a difendere la nave. Certo, le società armatrici non hanno altra scelta che tutelarsi con mezzi preventivi o, in taluni casi, a fronte degli alti premi assicurativi, percorrere rotte alternative intorno a Capo Agulhas. Dall’altro lato, la strategia repressiva dell’Europa non sembra più efficace. In preda a una frenesia umanitaria – o forse sotto la più importante pressione dell’opinione pubblica – si è tentato di porre un argine alle conseguenze degli attacchi, invece che sradicarne le cause.

Una strategia risolutiva non può infatti prescindere da un elemento saliente: il nemico.

Il pirata somalo è oggi un uomo che – a fronte di una condizione di miseria – trae maggiore vantaggio economico da una condotta antigiuridica che da una professione lecita. Nella quasi totalità  dei casi, è un pescatore. I mari somali, proprio perchè sprovvisti di una regolamentazione in materia di pesca e delle relative autorità  esecutive, sono teatro di depauperamento selvaggio da parte delle multinazionali, pesca che ha decimato le specie e lascia ben poche risorse ai pescatori locali. Versando in una condizione di povertà  e a fronte dell’ottima conoscenza del mare locale, decidono di unirsi alle bande armate che saccheggiano le grandi compagnia commerciali. Certi di un cospicuo guadagno e di una quasi certa impunità . Il risultato di un mero calcolo costi/opportunità  dunque.

Dinanzi a un settore in cui la porta di entrata è la povertà  e la contestuale assenza di uno Stato sovrano che eserciti una giurisdizione effettiva sui propri cittadini, il poliziotto europeo può muovere ogni risorsa per catturare ogni pirata di oggi, ma non eviterà  che il pescatore di oggi sia il pirata di domani.

Tanto le misure precauzionali private quanto le missioni repressive militari non sembrano dunque risolvere il problema. Il vecchio continente dovrebbe massimizzare la vigilanza dei mari, magari con maggiore coordinamento con la Comunità  Internazionale al fine di minimizzare i costi di operazioni che spesso costano troppo proprio perchè frammentarie e gravanti su un unico Stato. Si dovrebbe però andare alla radice del problema, rendendo esecutivi i regolamenti in materia di pesca e garantendo i diritti dei lavoratori in un Paese in cui non esiste lo Stato. Certo, si potrebbe obiettare che gli Stati europei non hanno alcuna autorità , né responsabilità, per intervenire in un territorio straniero. Tuttavia, non si comprenderebbe perchè sia lecito varcare tali confini per reprimere o inseguire il pirata o, in modo ancor più pervasivo, portando scorte alimentari alla popolazione locale, e non fornire a quest’ultima le risorse per sostentare autonomamente.

Insomma, prevenire è meglio che curare.

 

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