Penelope sotto la pioggia

di Vittoria Favaron

Penelope sotto la pioggia

di Vittoria Favaron

Penelope sotto la pioggia

di Vittoria Favaron

Stazione metro San Paolo, a due passi da via Ostiense. Ci siamo io, il mio gracile ombrello e il solito centinaio di persone sconosciute che aspettano sotto una grondaia posticcia che smetta di piovere.

Roma non è una città adatta alla pioggia. Parigi forse, sicuramente Londra, Amsterdam certo, Milano lo è per sana e robusta costituzione, ma Roma no.

Ci sono persone a cui piace la pioggia, perché appicciano sopra tutta una serie di appellativi romantici, bellezza data dal tintinnio delle gocce e da vetri appannati, dall’acqua che scroscia e azzera ogni percezione, dalla libertà di camminare dentro la pioggia, come a lavare via un po’ di pensieri bastardi.

Io detesto la pioggia, da una vita fa. Si vive in precarietà perenne, si scivola, si procede a passi goffi sui marciapiedi e in mezzo alla gente, devi gestire ombrelli odiosi e contemporaneamente borse, cellulare e quant’altro.

Avete mai provato ad accendervi una sigaretta sotto la pioggia? Puntualmente perdi l’ombrello di mano, ti cade l’accendino, si bagna il filtro, tutto da rifare e non parliamo dei capelli umidi, del trucco sbavato.

Si detesto la pioggia, e ci sono finita dentro, oggi.

Oggi è un giorno diverso. Ero a casa e il telefono ha iniziato a squillare mentre io ammiravo dalla finestra il primo caos dettato dall’acqua che scendeva a cascate per strada, creando il solito panico di clacson, auto in fila, gente in delirio da buste della spesa. Il telefono continuava a squillare nel preciso istante in cui giuravo a me stessa di rimanere piantata a casa a godermi quell’increscioso spettacolo di pioggia e confusione.

Mi accorgo del suono, rispondo: Pronto? Resto in ascolto.

Silenzio, il mio, dopo un ripetuto deglutire e sudare freddo, con gli occhi accecati e il cuore in salamoia. Chiudo. 10 minuti. Scendo. Poi è solo un giro di metro e di inconsapevolezza.

Tuttora stordita, eppure è più di mezz’ora che ho riattaccato e sono scappata fin qui, completamente confusa ma vigile, all’incirca come in quei casi in cui vieni colta da eventi inaspettati, che creano un turbamento scenico e immediato. Devastanti.

Devastante, l’attesa che sono in procinto di consumare. Mi hai chiamata dopo anni di voluta assenza, di mutismo e distanza, di viltà ed egoismo. Mi hai chiamata, e non ero assolutamente preparata al tuo avvento.

La tua voce pastosa e rauca, poche parole, come nelle tue migliori conversazioni, la tosse delle tue Lucky Strike Rosse Morbide, la tua timidezza infantile e che ancora serbi fedele.

“Ciao, è tanto che non ci sentiamo. Sono a Roma, ci vediamo?”

Boom..come in quei test di collaudo di automobili appena sfornate dalla fabbrica, un crush test emotivo e potentissimo, incredula, sconvolta.

Sono qui, e ti aspetto.

Di tutti i posti accettabili di Roma in cui potevamo incontrarci, hai scelto via Ostiense, al di là di ogni senso estetico, tutto cemento e odore di carta dei libri dell’università. Un posto che ricorda il nostro tempo ormai morto: il Caffè Lettario civico 95, una delle tante volte in cui ci siamo detti “come stai?” mentre distratti scorrevamo tra i libri e gli amari appena bevuti.

Non sono più tornata, lo sai?

Possiamo sopravvivere al presente che si consuma senza la quotidiana compagnia delle persone scelte, o capitate che siano, e poi fuggite via, ma non possiamo tollerare le visioni che i ricordi riportano in scena quando marcano i palcoscenici in cui erano vita, sostanza pura.

Sono qui che ti aspetto, perché tutto il mio orgoglio si è sciolto nel momento preciso in cui   hai preso finalmente coscienza e coraggio e hai digitato il mio numero che credevo cancellato nei tanti cellulari che avrai sicuramente fatto a pezzi, conoscendoti.

Attendo di rivederti, senza curarmi degli anni, delle esistenze proseguite divisi, di tutte le parole che avrei voluto dirti ogni giorno, che ormai si sono perse nella distrazione del tempo, ti attendo sotto la pioggia e non c’è abbastanza freddo o fastidio che possa farmi desistere e né alcuna futile impazienza tale da rendermi nervosa e portarmi altrove.

Perché sono nervosa, ma sento risalire tra lo scheletro e il sangue, tutto quello spiraglio di felicità a cui non ero più abituata e di cui sentivo forte e incessante la mancanza.

Felice, perché comprendi di come a volte la vita è in grado di renderti indietro la ricompensa per quei dolori brutali che segnano l’anima, piaghe profonde e livide di cui sottopelle intravedi il solco, di cui spesso hai subìto l’insopportabile affanno.

E ti accorgi che inconsapevolmente sei stata supina e diligente nell’attendere questo giorno, che in fondo non avevi distrutto speranze e illusioni, che la tua personale tela dagli intrecci di sogno e insistenza si è finemente dispiegata fino a raggiungere Lui, che si è deciso a tornare da te.

Già da te, quell’uomo così imperfetto e speciale, che non ha risparmiato niente alla vita, che ti ha portato su bellissime altalene di edera e petali di rosa, con cui hai guardato albe tramonti e onde in candida veglia, quell’uomo che ti ha cinto con abbracci stellati, cantandoti parole d’amore, quell’amore di cui, si sa, non si può bissare la sostanza né il suo naturale corso.

Di amori come il nostro, non esistono copie o simulazioni adeguate, e quando hai deciso di stare lontano da me, non eri consapevole, tu, della portata che questo ha scatenato dentro le flebili membra del mio dare per scontata la tua presenza costante.

Cosa accade quando eventi come “il distacco” ci toccano e ci portano a vedere con verità innegabile la mostruosità di una solitudine congenita e inevitabile?

Accade che una precarietà latente si impossessi di te, azzera spensierate movenze e fiducia nel prossimo, tu diventi più sola e puoi anche circondarti da una distesa di persone, ma non sarai mai appagata come prima, prima di quando non mi hai permesso nemmeno di dirti “perché”.

Ma se la pioggia è divenuta candida musica dentro i miei timpani completamente afoni di voci e suoni che girano intorno, se non ha più importanza sentire i piedi zuppi e la gola asciutta e pizzicata, se Ostiense sembra un giardino degli aranci e non una babilonia immobile e grigia, questo è perché non ho mai spento la speranza di poterti offrire il mio abbraccio e tutto il corredo del mio più innocente e sincero perdono.

E comincio a scorgerti da lontano, mentre i tuoi passi lenti scandiscono i metri che ci dividono, evitano le pozzanghere e cadenzano quest’attimo infinito in cui ci vede inseriti sopra una scacchiera, pronti per una nuova mossa.

Ti vedo, e sento il respiro venir meno, sento che non sarò così brava a trattenere il pianto, ma non importa, la pioggia confonderà tutto e io mi mostrerò a te coraggiosa e fiera come mi hai sempre vista.

Sarai orgoglioso di me, vedrai, e io sarò meno dura e non alzerò la voce, saremo rilassati e stanchi entrambi di tutto questo mancato vivere, ritorneremo ad essere complici a modo nostro, sicuri che il tempo per noi sarà ancora clemente e ti concederà l’ennesima buona carta da giocare, con me.

Tremo ovunque, mentre sei ormai a pochi metri dal mio naso, chiuso nel tuo loden e con la testa un po’ abbassata come a nascondere pudore e disagio.

Sei come ti avevo lasciato, le tue mani increspate cinte in tasche necessarie, la tua colonia pungente che inizio a percepire, i tuoi occhi rugosi dagli anni che procedono bassi.

Alzi il capo, e per quello sguardo sarei disposta a perdere ogni senso pacato e tornare bambina solo per non provare vergogna e per correre da te ingenua e distratta, e soffocarti con il mio abbraccio.

 

Ma resto immobile.

 

E adesso ti vedo. E sei bello come allora…Papà.

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