PAOLO DI PAOLO, TEMPO SENZA SCELTE

di Federica Piacentini

PAOLO DI PAOLO, TEMPO SENZA SCELTE

di Federica Piacentini

PAOLO DI PAOLO, TEMPO SENZA SCELTE

di Federica Piacentini

Tempo senza scelte, “una panchina su cui sedersi a discutere di noi stessi”

Era Trump. La città si muove. Sorgono movimenti, contestazioni, si agita una resistenza pronta ad affrontare anni di ruggine, paura, estraneità. Si ricostruisce un’unione che abbia in seno fede e speranza. Tutti di nuovo in strada, marciando, per orchestrare una contro-narrazione. Giovani donne e giovani uomini a passo svelto, tra le auto e lungo le avenue, un po’ ballando un po’ canticchiando, rivendicando a squarciagola il proprio futuro. Mi ricordano che una scelta c’è sempre: vivere o non-vivere. Anche quando crediamo di attraversare un Tempo senza scelte.

Il saggio di Paolo Di PaoloTempo senza scelte, edito da Einaudi per la collana le “Vele” – è un libello prezioso. Un percorso affascinante tra i giganti della Letteratura, fra coloro che in qualche misura hanno scelto mentre la società muta stava a guardare. Un viale ombrato in cui si incontra se stessi e ci si domanda se mai ci siano stati anni in cui scegliere possa esser sembrato facile o comprensibile. Torniamo alla generazione dei nostri nonni, ai tempi in cui scelte non ce n’erano: bisognava resistere, combattere. E oggi? Non è forse un tempo in cui le scelte sono gli ultimi petali di una margherita cui affidiamo la nostra fiducia nel futuro? Non è anche questo un tempo in cui, qui a Manhattan ma anche altrove, l’unica azione possibile è resistere o morire? Nell’uno e nell’altro caso una via si profila. L’arte è corruttrice, spiega Platone ne La Repubblica, e il breve testo di Paolo Di Paolo, nella sua bellezza e grazia e gentilezza, corrompe. Nella sua sintassi misurata, l’autore svela il brillio della rivelazione. paolo-di-paolo-tempo-senza-scelte

Si sceglie sempre. In fila al supermercato o per un referendum. Se non lo facciamo, rischiamo che a farlo sarà per noi il destino, come rammenta Platone. Pensiamo di scegliere quando l’occasione è la cabina elettorale. Temiamo la caduta della democrazia, rifletto, ma mi chiedo: siamo certi che sia questa la forma migliore di governo? Gli uomini, scandisce Platone, sono per natura diseguali. Non soltanto in quali tempi si sceglie, è il quesito, ma anche in quali luoghi. In guerra scegliere è difficile, scegliere non si può, o a volte è necessario. Scegliere ha significato resistere o uccidere, e se la resistenza si ebbe sotto il nazismo – la radio passa proprio adesso un jazz degli anni ’40 – un’altra resistenza a più sottili e ben nascosti nazismi è ancora possibile. A Kobane, ad Aleppo, anche lì si può resistere, si può scegliere, portando un sorriso tra le corsie o curando i feriti dell’ultima esplosione. Nella Lampedusa degli sbarchi, si può scegliere, porgendo un aiuto o un paio di scarpe. Scegliere, insegna Paolo Di Paolo interrogando Calvino, è anche dire no, persino in quest’epoca ambigua e disintegrata, che impacchetta le fragilità delle nostre piccole storie, incastonate in alveari di disperazione. «Forse – scrive l’autore – avrebbe spiegato [Calvino, ndr] che dire no, spesso, è il gesto di maggiore coerenza. Forse avrebbe difeso certe forme di resistenza passiva che valgono scelte radicali. Forse avrebbe detto che essere se stessi fino in fondo può somigliare anche a un gesto di mitezza, a un silenzio.» Oggi, noi droni in carne e ossa, «siamo diventati così, più o meno tutti: – ammonisce Di Paolo – leggeri, rapidi, piuttosto esatti, quanto mai visibili e carichi di visioni, di sicuro molteplici.» Un ritratto a mio avviso fedele alla popolazione minuta che si disperde nelle piazze dietro a piccoli o grandi schermi.

Siamo felici, così, a capo basso? Non è la felicità il fine di ogni scelta? E non sta nella scelta la nostra identità? Scegliere, mi suggeriscono queste pagine, è porsi quei quesiti che fanno vibrare l’anima, di uomini comuni, scrittori, poeti, pittori, musicisti. «Chi sono? Che cosa faccio? Che cosa voglio fare? Che cosa posso fare?» E su questo corsivo, “posso”, si è soffermato il mio sguardo, poiché questi sono forse tempi in cui dobbiamo tornare a chiederci cosa possiamo fare per noi stessi, per le nostre vite, per gli altri, per la comunità di cui siamo parte. «Chi sono in grado di essere?» Chiede lo scrittore. Siamo ciò che è destinato, azzardo una risposta, e che spesso dimentichiamo. Siamo il buongiorno al mattino, le strette di mano, un “ciao come va?”, un sorriso mancato, un gesto di gentilezza, il pugno nello stomaco dopo una cattiva notizia. Siamo un puzzle senza volto in una società liquida in cui non vige «nessun imperativo. Nessuna scelta da considerare definitiva. È rassicurante e spaventoso.» Il nostro corpo, le nostre mani, non sono che impronte, nulla di definitivo è in noi. Noi che ci battiamo per un posto a sedere, quando la vita è cammino, movimento. «Che cosa vuol dirci Hawthorne? Che un posto, un ruolo nel mondo siamo costretti ad averlo, anche se ci va stretto?» Dico di no. Qui sta il valore della scelta, che deve calzare come un abito e non come una maschera imposta, come bambini infelici. Il sorriso si sciupa.

Essere felici: a questo siamo destinati. A questo credo. Ciascuno a proprio modo. Ed essere felici è a mio avviso una scelta, anche se l’arte inganna, anche se il cuore democratico della nostra civiltà è soltanto quello che tenacemente batte nel nostro petto.  Kierkegaard, sottolinea lo scrittore di penna finissima, «richiama ogni giovinezza alla serietà di una scelta, e che non sia troppo tardiva.» Ma quanta paura si cela dietro la scelta; paura che è lupo travestito d’agnello: è errore. Eppure mi domando: esiste l’errore quando si sceglie della propria vita, se siamo ciò che è destinato? Non è più utile interrogarsi sulle ragioni della scelta o dell’errore? Dove ci conducono? Se a un passo dalla felicità o lontani da noi stessi? E se la felicità sia soltanto essere vicini a noi stessi, cosicché il solo mondo da esplorare sia quella caverna in cui risiede l’anima? Ho dubbi su cosa sia la felicità. Cos’è un uomo felice, cosa un uomo infelice. Seneca, nel De vita beata, scrive: «Io non bado all’apparenza delle vesti che coprono i corpi, non giudico un uomo con gli occhi, dei quali non mi fido, c’è in me una luce migliore e più sicura con cui distinguo il vero dal falso: è l’anima che deve trovare quel bene che solum è suo.» Distinguere il vero dal falso. L’anima guida. Nella scelta sta la verità, nella verità sta la bellezza, nella gentilezza la grazia. In ciò forse, in una delle sue possibili definizioni come insegna lo stoico, risiede un anticipo di felicità, che non sta alla maggioranza ma alla solitudine degli spiriti.

Paolo Di Paolo accende le luci sul tempo. Una mia ossessione, condivisa con il protagonista di Tristano muore di Tabucchi. Nella sua materialità l’uomo si muove in due dimensioni, nel tempo e nello spazio; la profondità è nel Sé; l’altezza è sempre oltre lo sguardo. E poi lo scrittore inserisce un concetto fulminante: «l’attrito – fra ciò che scegliamo e ciò che non scegliamo.» Quale definizione migliore del rammarico? Dei desideri che non abbiamo assecondato e che stridono sull’asfalto? Ne sono rimasta colpita. E questa battaglia tra dimensioni – il tempo che viviamo, che abbandoniamo, che subiamo, che attraversiamo. E questo tornare indietro persino sulle parole, sulle cancellature, come quel “Secondo Pereira” barrato per il “Sostiene”, un episodio letterario narrato nel testo in maniera squisita.

Scegliere richiede coraggio, come lo richiede essere felici. «Quanto slancio, quanta passione, quanta imprudenza servono per resistere?» Io penso molta, moltissima. Molta imprudenza, generazioni di coraggio. Occorre essere fedeli a se stessi, non tradirsi, in questa guerra in cui il nemico è in noi – la “non-scelta” – e in cui l’alleato è in noi – la “scelta”. Scelta che ha valore etico, spirituale, identitario, unitario. Scelta che è vita ed è poesia, come ricordano i murales qui a New York di Federico Garcia Lorca.  New York e la poesia, New York e Federico. Quanto mi sento vicina a questa espressione. La poesia, la denuncia, la metropoli. «Questa folla, dice Lorca, dovrà gridare: “con voce così straziata, finché le città non tremino come bambine.”» paolo-di-paolo

Scrivere infine è scegliere. «La scelta di uno scrittore» è il titolo del capitolo V. «Quella cosa che conosci benissimo, che ti porti sempre dietro.» È la scelta di scrivere o di non farlo, di lasciare entrare il mondo nelle parole o tenerlo fuori. Se caricarsi del peso, della responsabilità, o lasciarsi adulare da un gesto che può spingere soltanto nell’angolo più buio del proprio ego. «Perciò, egregio signore, io non vi so dare altro consiglio che questo: penetrare in voi stesso e provare le profondità in cui balza la vostra vita; alla sua fonte troverete voi la risposta alla domanda se dobbiate creare. Accoglietela come suona, senza perdervi in interpretazioni. Forse si dimostrerà che siete chiamato all’arte. Allora assumetevi tale sorte e portatela, col suo peso e la sua grandezza, senza mai chiedere il compenso, che potrebbe venir fuori. Ché il creatore dev’essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura, cui s’è alleato.» Le parole di Rainer Maria Rilke ci spingono ad associare la responsabilità alla scelta, un peso. Prendere una posizione, stare da una parte del racconto, tracciare un solco, oltrepassare una linea e poi guardarsi indietro: scrivere, a mio parere, è anche questo. Giudizio condiviso dall’autore del saggio. A proposito di Enzensberger, egli scrive: «essere scrittore per lui è stato anche questo. Una questione, sì, di partecipazione. La voglia di capire, di vedere, di prendere posizione, di provocare indignazione, e magari – perché no? – di “sbalordire e far imbestialire la società” senza uccidere nessuno.» Di stare in piedi nel mondo, aggiungo io, pronti a incamminarsi oltre le frontiere. «Che ce ne facciamo di cuori raffreddati?» Si domanda accorato Di Paolo. Una preoccupazione che affigge anche me. Abbiamo bisogno di cuori che sentono e che ridono e che piangono e che parlano. Non di belle pagine, ma di pagine fradicie di vita, con maniche di camicia sollevate e il viso battuto dal pensiero, dal racconto dei tempi che rimbalzano e delle vite che restano. Le vite restano, come fiammelle che mai si spengono.

Scrivere questo saggio è stata una scelta. Coraggiosa. Paolo Di Paolo è uno scrittore autentico e appassionato di anime; questo testo una panchina su cui sedersi e discutere, insieme, di noi stessi. Il mio solito tavolino dello Starbucks all’incrocio sulla Columbus è assai affollato. L’ho condiviso con molti ed è stato come essere Dio per qualche ora: vedi passare tante vite, sorseggiano un caffè, saltellano tra social, computer, telefonate, orologi. Poi vanno via. Vado via anch’io e vi lascio con queste parole. Che ho scelto. Che servono.

«Immergersi in un’opera d’arte serve. Pregare serve. Meditare serve. Una chiacchierata schietta con un amico serve. Sentirsi parte di una tradizione spirituale serve. Riconoscere che ci sono state innumerevoli persone davvero intelligenti prima di noi che si sono poste queste stesse domande e ci hanno lasciato le loro risposte serve. Fate presto. Iniziate subito. In ciascuno di noi c’è un equivoco di fondo, un vero malessere in verità. Si tratta dell’egoismo. Ma la cura esiste.»

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