PANORAMI SONORI – Il tratto urbano della Via Appia “Au plaisir de Dieu”

di Valerio Tripoli

PANORAMI SONORI – Il tratto urbano della Via Appia “Au plaisir de Dieu”

di Valerio Tripoli

PANORAMI SONORI – Il tratto urbano della Via Appia “Au plaisir de Dieu”

di Valerio Tripoli

Reginae viarum principium

Corrono tra il Celio serrate e l’Aventino le scolaresche. Volti diversi, tutti uguali, si guardano intorno pallidi, taciturni, ancora assonnati, ciondolando dietro variopinte guide con ombrellini in mano, chiazze di colore come vessilli in un campo di soldati stanchi. Qualche macchina, il motore più aspro di un motociclo, tra un vociare sommesso, eppure costante, che si èleva formicolante nell’ampio viale delle Terme di Caracalla. Sopra, cielo cobalto, quasi sgombro di nubi, spazzate da un vento che muove, freddo, dai monti albani. Schiacciati, sotto alle impressionanti visioni di Roma antica, signori più grandi, dai capelli di cenere, cercano in guide volanti nomi e notizie,  non paiono accorgersi delle immobili mura che si levano su, enormi, a sfida del tempo, forse del cielo.

Si costeggia quel quadrato in mattoni di trecentotrenta metri per lato, che fa da alzata alle Terme, e si giunge nel vasto piazzale di Numa Pompilio, croce di stradali: con le spalle a Nord, sta dalla parte del Celio via Druso, mentre si apre a destra la grande strada che, per la Porta Ardeatina, reca all’Esposizione Universale Romana e, di lì, al mare; di fronte, vasti spazî verdi, con in lontananza verde, fin dove l’occhio si perde, verde. Ed è da questa parte che bisogna portarsi.

Si dipartono immediatamente, di là dal piazzale, due strade, dritte, deserte: a sinistra, via Latina, antica consolare che, per i monti, per Tuscolo, giungeva a Capua, seguendo un percorso parallelo a quello, rettilineo, dell’altra. A sinistra, quest’altra, la regina, l’Appia. È il tratto urbano della via, quello interno alle mura con cui Aureliano fece cingere l’Urbe nella seconda metà del III secolo d. C. Le separa uno slargo, con al centro una inosservata colonna corinzia, con una stella chigiana ed una croce in ferro alla sommità; dietro, un portale, semplice e già suggestivo, in sporco intonaco e abbracciato da edere eterne, sbarrato da una cancellata, nera.

Eppure, questo preludio della via Appia prende nome di Via di Porta di San Sebastiano: essa è la porta che, nelle mura, si apre al passaggio dell’Appia, che di lì scivola, lungo tutta l’area tirrenica, sino a Capua, per poi deviare per Benevento e giungere a Brindisi, ove un’alta colonna ne segna la fine. Di là, solo la Grecia, l’Oriente.

S’imbocca questa via tra l’opaco fremito dei motori, lasciati alle spalle, e d’ora in avanti, per un buon tratto, tale rumore sarà lontano, fiacco, quasi assente. Esso lascia invece spazio a melodie insolite: rumori di motofalce, schioppi di rami rotti, di foglie secche calpestate, strofinare di scope fatte di giunchi, crepitare di stoppie in fuoco. È il suono della campagna, il suono della vecchia Roma.

Via di Porta San Sebastiano, panorami sonori
Via di Porta San Sebastiano, panorami sonori

Via di porta di San Sebastiano è interamente fiancheggiata da mura in laterizî, che ad ora ad ora si aprono con alti e orgogliosi portali a cancellate, stanchi, decadenti, a destra ed a sinistra. Le stesse mura sono gravate dal peso di giuncaie, di rampicanti che ne trattengono le pietre, e tutto questo offre un paesaggio che l’occhio non si aspetterebbe di trovare, così franco, così silente, proprio nel cuore della città: spariscono le case, assenti le macchine, via qualunque segno di modernità ingombrante.

Invero, questo è ciò che l’occhio ha sullo sfondo, se guarda di lontano. Da presso, sulla destra, sullo stesso slargo che separa l’Appia dalla Latina, una chiesa. La precede una casetta a torre, in mattoni, con tre finestre per ognuno dei tre piani, e dalla finestra più alta, aperta, sporge della biancheria stesa ad un filo, da cui promana un odore di marsiglia che giunge sino al piano della strada. La chiesa, arretrata di qualche metro rispetto all’asse viario, in intonaco bianco, sarebbe di campagna se non avesse affissi gli stemmi papali e cardinalizî che la denunciano quale sede di diaconia: è San Cesareo in Palatio, o in Turri. Ciò che si nota subito, però, è come la chiesa non possa essere contemplata lei sola, ma l’occhio continui a scorrere lungo il muro che, proseguendo, reca, cento metri più avanti, ad un casolare. Si intravede già, dietro sbarre in ferro di un portale accanto alla chiesa, con un loggiato che si apre sulla campagna, ad una sola elevazione, attorniato da alti alberi, in un solitario e immoto silenzio.

Sulla via di porta di San Sebastiano sporgono due grandi finestroni crociati, che si vedono uguali nella facciata di Palazzo Venezia, e a quello conferiscono il singolare aspetto austero ben distinto dal barocco degli altri palazzi del centro. Pregevolissimi nella loro fresca semplicità, dànno alla piccola struttura un aspetto delizioso, fatale. È un rarissimo esempio di villa del primo rinascimento italiano, che la tradizione addita come casino del cardinal Bessarione, ma che sarebbe più giusto riferire al cardinale veneto Giovanni Battista Zeno, vescovo di Tuscolo dal 1479 al 1501. Ma Bessarione aveva una vigna sull’Appia, ed è più facile figurarsi questo insigne umanista greco conversare, sotto la loggia del casino, con i suoi convitati, in un clima che preludiava all’Arcadia, sotto un cielo terso, in tutto simile a quello di oggi. Da casino di delizie divenne collegio dei padri Somaschi, poi nientemeno che osteria; acquistata dallo stato, la struttura fu usata come luogo di rappresentanza dal governo fascista, poi consegnata al comune di Roma. In buona sostanza, è chiusa.

Ma è un fluir di ville. A sinistra, poco più avanti, stanno gli Orti di Galatea, ove il nome basta ad evocare gli amori di Aci, pastorello siciliano che alle falde dell’Etna spasimava per la ninfa Galatea, a sua volta desiderata dal terribile Polifemo. Ancora, più avanti, villa Appia delle Sirene, costruita su un ipogeo romano, forse sui resti del tempio delle Tempeste, fatto erigere da Lucio Cornelio Scipione di ritorno dalla Corsica, dopo essere scampato ad un naufragio. Ancora, villa Codini, su colombarî, tra vigne, sepolcri. Se si leggesse una bucolica virgiliana, un passo dell’Arcadia del Sannazaro, del Settimo canto della Gerusalemme di Tasso, del Pastor fido del Guarini, si capirebbe come essi sorgessero proprio dalla poesia di luoghi simili.

Un lungo tratto a sinistra della via è occupato dal parco degli Scipioni, ove stanno il famoso sepolcro degli Scipioni, ritrovato nel Settecento e studiato nel primo Novecento, con case romane del periodo imperiale, nonché il noto colombario di Pomponio Hylas, costruzione funeraria con loculi disposti in successione, come forma di sepoltura collettiva. Le delizie dialogano con i sepolcri, i colori degli stucchi si fondono con il verde baldanzoso dell’aprile. Ma i cancelli sono serrati, il silenzio è perpetuo. Soli, intonaci rovinati con fasci littorî anneriti, fanno leggere «membra», «senza fama», «dissolve». E, dissolvendo, si procede avanti.

Arco di druso, Panorami sonori
Arco di druso, Panorami sonori

L’ultimo tratto di via di porta di San Sebastiano è transennato su tutto il lato destro, per il muro in mattoni, pericolante. Ma la bellezza di ciò che si vede, in fondo, non fa molto curare del dissesto: merlature si stagliano alte; in basso, un arco, poi un altro arco, in fila. È uno tra gli angoli più belli di Roma.

In mezzo allo slargo che si forma di presso a porta di San Sebastiano, l’antica porta Appia, o Daccia, si eleva un potentissimo arco a tutto sesto, goffo, in conci di travertino giganteschi, specie quello della chiave di volta, a cinque metri dal suolo. Ricopre l’arco una colata di laterizî, erbe ed edere rampicanti. L’arco di trionfo detto di Druso  si componeva, un tempo, di tre fornici, dei quali rimane solo quello mediano, e servì d’appoggio a Caracalla per l’acquedotto sulla via Appia, alimentante le sue Terme. Rimangono, dalla parte della porta di San Sebastiano, due colonne in marmo giallo. Poco più in là, lo schiaccia l’alta mole della porta delle mura aureliane, termine di questo preludio, cominciamento dell’Appia. I due torrioni che la fiancheggiano, quadrangolari alla base e dal lato della città, in realtà circolari e resi squadrati da Onorio, per rinforzarli, vigilano sulla porta vera e propria, anch’essa in poderoso travertino. Un San Michele vi sta inciso, con gusto popolaresco, in ricordo della sconfitta subita da re Roberto di Napoli ad opera di Jacopo De Pontianis, caporione romano di Trastevere. Sopra, un cielo vigoroso, che è già cielo del Sud.

Roma - Porta Latina S. Giovanni in oleo
Roma – Porta Latina S. Giovanni in oleo

Il rumore rimonta, e il viale delle Mura Latine riporta nella Roma caotica, che s’era scordata. Si percorre tutto il tratto delle mura a sinistra della porta, sotto ignorati stemmi dei Barberini, dei Medici, e si lascia così il tracciato della via regina, per incontrare, più avanti, un’altra porta, la Latina, aprentesi dove l’antica via usata dagli Etruschi tagliava le mura aureliane. Bassa, impacciata, è fiancheggiata essa pure da due torrioni cilindrici, da sembrare medievali. La via Latina è adesso in discesa, e imboccata per ritornare verso il centro, conserva il carattere della parallela, più famosa, più bella. Ma non ha nulla di quel silenzio, di quell’ambiente arcadico, eccetto per un tempietto ottagonale, che sta sùbito alle spalle della porta: l’oratorio di San Giovanni in Oleo, del Bramante, ove la tradizione vuole che San Giovanni evangelista abbia subìto il supplizio dell’olio bollente, restando incolume. La costruzione ha tutto, fuorché il carattere di tempio santo: in mattoni e lesene in pietra ombrosa, risale sino ad una copertura in cotto, a motivi floreali, che non sembrano neppure romani, ma orientali, alessandrini: alla sommità, il genio di Borromini vi pone un bocciolo da cui spicca il fiore della bellezza, della purezza, vero giardino pensile di pietra, contro il tempo, fuori dalla storia. Un motto, inciso sulla porta d’ingresso dal cardinale francese Adam, committente: «Au plaisir de Dieu». Un tempo poteva essere ipocrita: il piacere era degli uomini; oggi, accanto al graffito in colore rosso: «Ti amo Nana», fa quasi sorridere.

Si discende per il tratto di via Latina che riporta a piazzale Numa Pompilio tra case e ville, vicino alla chiesa medievale di San Giovanni a porta Latina.

Il silenzio, a Roma, non è di uso pubblico, ma cosa privata, come le ville in cui si rinserra, senza alcun visitatore, senza nessuno. Nessuno vi è più, perché la dea Febbre ha udito Carducci, ed ha di qui respinto gli uomini novelli, e le (loro) piccole cose. È religioso questo silenzio, perché è qui che Roma dorme.

Eppure la dea Febbre non ha ben compreso: «Fu chi intese che questi versi [da Dinanzi alle Terme di Caracalla] augurassero la malaria ai buzzurri. Ohimè! Io intendevo imprecare alla speculazione edilizia che già minacciava i monumenti, accarezzata da quella trista amministrazione la quale educò il marciume che serpeggia a questi giorni nella capitale».

Era la storia dello scandalo della banca romana. È la storia dello scandalo di mafia capitale.

La dea Roma dorme.

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