PANORAMI SONORI. PER AUTUMNALE OTIUM: Roma addormentata senza sogni: dalle terme alle mura alle tombe

di Valerio Tripoli

PANORAMI SONORI. PER AUTUMNALE OTIUM: Roma addormentata senza sogni: dalle terme alle mura alle tombe

di Valerio Tripoli

PANORAMI SONORI. PER AUTUMNALE OTIUM: Roma addormentata senza sogni: dalle terme alle mura alle tombe

di Valerio Tripoli

Autobus, linee deviate, rotaie del tram in manutenzione, clacson, motori come vespe, code, soste in doppia fila, passaggi pedonali invasi da carovane da mille piedi, incontenibili, automobili che speronano le carovane, file trattenute sui marciapiedi, poi di nuovo riversantisi lungo le strade, instancabili.

Ovunque, sempre. Tra piazze e slarghi e vie, sotto obelischi, accanto a muti monumenti, sconosciute statue. E dagli autobus tutto scorre veloce, sotto occhi distratti, anche quando a fatica si è in spazi ampi e senza case, lungo stradali che scorrono veloci, senza notare che, non più costretti tra caseggiati e chiese, si attraversa la campagna romana, per poi, inconsapevoli, rientrare tra le murature di cemento e calce.

Così è pure scivolando davanti al palazzo arancione del Laterano, accostato al colossale complesso12200492_10206379647283205_1087796004_n della basilica di San Giovanni, quando non già per l’Appia nuova, ma verso la via Cristoforo Colombo, la via del mare, si imbocca la via dell’Amba Aradam, a dispetto del nome neppure troppo chiassosa, e ci si ritrova senza farci caso confitti nel cuore dell’antica Roma, ai piedi di villa Celimontana, tra Celio ed Aventino.

Solo adesso, nell’ampio piazzale di Numa Pompilio, ci si accorge, mettendo i piedi a terra, di stare al centro di una grande area verde, inspiegabilmente priva di qualunque costruzione moderna, pur se attraversata chiassosamente da grandi strade.

Solo adesso, tra gli alberi, si intravedono le immense strutture delle Terme Antoniniane, dette di Caracalla, a ridosso della strada, che si staccano dal suolo e si librano, potenti, nel cielo grigio della città. Ma qual è la città che ha dato vita e queste strutture adesso silenti, nascoste, che pure spiccano giganti con le loro portentose mura di mattoni? Quella, stesa a terra, che Carducci, qui passeggiando, immagina quale corpo mastodontico, con il capo poggiato sul Palatino, le spalle tra il circo massimo e lo slargo di porta Capena, le braccia aperte tra il Celio e l’Aventino. 12208187_10206379665003648_1723051075_n

Quella, nel cui tumulo funebre risiedono gli splendori monumentali che si insinuano tra queste verdi valli, e di cui le Terme appaiono, oggi, i resti più vilipesi, più defilati, più sconcertanti, al confronto del luogo di delizia, di sfarzo, che dovevano essere, quando l’acquedotto antoniniano riempiva delle sue acque le vasche in cui milleseicento bagnanti alla volta si detergevano. Scorrendo accanto a questo ciclopico complesso pare camminare in un bosco di alberi di pietra, e l’impressionante spettacolo cui si assiste cancella dall’orecchio qualunque rumore di motore, che pure passa vicino, e immerge in una veduta del Settecento, ove manca solo un pastore con il suo gregge a definire un quadro affatto cambiato, rispetto a quel tempo. E quando ci si porta dietro le Terme, per via Guido Baccelli, questo bosco di mattoni si scorge man mano sempre più dall’alto, un’altezza a sua volta superata dalle strutture più alte, che si staccano sovrane, e interrompono la linea libera di spazio che sta tra le falde dell’Aventino e quelle del Celio, ove la villa Celimontana sembra muschio, tanto è fitta, di lontano.

Qui, da dietro, il silenzio è già totale. Qualche macchina, passando, disturba, solo perché ora il fracasso non si eleva, costante, come nella città che si è lasciata, ma arriva isolato, isolato scorre e isolato se ne va. Sotto si stende questo addormentato prato di pietra, e avanti, salendo il monte, solo alberi si vedono, o i piani alti di qualche casa.

Si arriva ad una piccola rotonda, da cui si dipartono alcune strade. Si prenda via di Santa Balbina solo se si regge all’emozione di uscire completamente da Roma: all’inizio, questa piccola strada è sopraffatta dall’odore del finocchio selvatico, del muschio umido nella stagione autunnale, e i suoi colori, grigi e verdi, sono letteralmente bombardati da quelli, pazzeschi, di un curatissimo vivaio, che sta sulla sinistra. Buganvillee pendono dall’alto, piante esotiche trasformano quello che poteva essere l’angolo di un qualunque paese appenninico in un non-luogo virtuale, ove colori e odori si mischiano azzuffandosi, così incantando letteralmente colui che, passando di qui per caso, ride di gioia, e socchiude gli occhi solo per concentrarsi sull’odore.

Alla fine della piccola strada, la ricostruita chiesa di Santa Balbina offre un esempio di come la manìa della ricostruzione dell’antico possa, sebbene assai raramente, dare buoni risultati: la finta chiesa paleocristiana – lo si vede dalle inferriate – è un falso di primo Novecento. Ma attaccata com’è all’istituto Margherita, storica casa di riposo per anziani, gioca con l’occhio umano, e ricrea una finta scenografia teatrale, che pure si apre, ancora, sulla vista delle Terme, del Celio, della teoria di statue lontane, bianche, della basilica di San Giovanni. Il brutto suono della città è, qui, ovattato.

Solo risalendo per la medesima strada, e passando davanti all’ingresso del vivaio, si scopre un boschetto di bambù, bellissimo, stranissimo. E questo finto mondo di colori e odori non lo si vorrebbe, davvero, lasciare.

Nuovamente sulla rotonda, dall’altra parte, il bel palazzetto dell’ambasciata nipponica presso la Santa Sede è fiancheggiato da un portale, da cui si apre la privata via di villa Pepoli, luogo per autumnale otium del cardinal Rufo, per come una lapide di Pio VII avvinta da giunchi testimonia, accanto al portale, dal 1801.

Qui, però, l’elitario silenzio del piccolo Aventino (per distinguerlo dal grande, dalla parte del giardino degli aranci, della casa dei cavalieri di Malta, a ridosso del Tevere), con anonimi villini degli anni Cinquanta e Sessanta, sdegna assai: è il sacco di Roma, quello peggiore, quello del ceto benestante, che lottizza l’Aventino e se lo spartisce, e costruisce con una edilizia a dir poco mediocre, che tempo e denaro camuffa, adesso, a ottimo quartiere, sicuramente uno dei migliori della città. La piaga, non già sanata, si è cicatrizzata, e il silenzio di queste campagne, disabitate per millenni, cede ora a case e vialetti alberati, pieni di gialle foglie, tra il passeggio di padroni con i loro cani.

Si discende lungo via Giotto, per poi voltare a sinistra, lungo via Guerrieri, ed incontrare un varco tra le Mura Aureliane, che qui offrono uno tra i tratti più belli di tutto il loro, lungo, tracciato: il viale di Porta Ardeatina, infatti, le costeggia per alcune centinaia di metri in leggera discesa, verso la Cristoforo Colombo e, subito dopo un piccolo poggio, spiega agli occhi di chi vi passa, distrattamente in macchina o, più lentamente, a piedi, il tratto concluso, molto più giù, dalla possente struttura del Bastione del Sangallo.

È questo l’unico intervento realizzato da Antonio da Sangallo il Giovane, tra tutti quelli con cui il Farnese Paolo III voleva irrobustire le difese della città, appresso il sacco dei Lanzichenecchi del 1527. Per tale bastione il Sangallo procedette alla demolizione integrale delle strutture romane di Aureliano (III secolo d. C.), e creò una imponente struttura che si raccorda alle mura per tramite di torrioni irrobustiti, in cui la differenza delle fatture è percepibile da qualunque occhio inesperto: da un lato, mura romane non inclinate e con pesanti interventi di recupero parziale ad opera di materiali spesso difformi: dall’altro, la struttura inclinata del bastione, con bel colorito rosato, uniforme, e con lungo cordolo in travertino alla sommità.

Nel bastione vero e proprio, avanzato di decine di metri rispetto alle mura, si aprono ampi finestroni per il lancio delle palle di cannone. All’angolo, ove la strada diventa a gomito, campeggia il grosso e bellissimo stemma di Paolo III, con i gigli farnesiani, tra spini al di sotto, con il tempo che trasforma in muto muro di contenimento il simbolo della rinata potenza, anche militare, di Roma e dell’ecùmene cattolico, almeno nella speranza del Farnese.

Le inutili mura riaccompagnano di ritorno verso l’Aventino, tra il rapidissimo e rischioso passaggio di automobili e taxi. Riprendendo via Giotto, si scende per brutta edilizia ‘bene’ verso il confuso piazzale di Porta San Paolo, da cui si diparte la via Ostiense, che adduce al mare. Ma la formidabile Piramide cancella ogni altro nome che non sia il suo, e questo poligono di travertino bianchissimo (tale, almeno, fin quando gli effetti del recentissimo restauro non cederanno all’inquinamento, al tempo), campeggia con la sua esotica sagoma sulla disarmonica piazza, vicino alla sporca stazione.

12207374_10206379643723116_1232881029_oDietro di essa, luogo in cui una certa Roma, al riparo delle sue mura, dorme i suoi sonni, è il luogo che il Sant’Uffizio concesse, nel 1671, ai «signori non cattolici» per la sepoltura dei loro cari, di loro stessi, dopo che per secoli dovettero celebrare nottetempo i riti funebri, e fuori dall’Urbe, clandestinamente. Il cimitero protestante, che oggi è più propriamente acattolico – ché non solo protestanti sono sepolti in esso – è un luogo della memoria, della storia, prima ancora che un ambiente in cui solo dal rispetto e dall’austerità sono trattenute le emozioni più forti. I reietti, i rifiutati da una storia a loro sfavorevole, che per secoli vietò loro anche un sepolcro, si riscattano creando un cimitero che è semplicemente bellissimo. Grandi e secolari cipressi, in un poggio che risale, gradatamente, fin su le mura Aureliane, che chiudono in alto l’insieme, fanno ombra a migliaia di sepolcri, di differenti forme, di diverse pietre, di multiformi colori, tutti con croci, alcuni con statue, altri con piccole architetture fantasiose, di gusto nordico, quasi friedrichiano, se non fosse che le mura romane che fanno da quinta scenografica, e l’affollamento tipicamente mediterraneo, ricolloca più presso il Tropico del Cancro questo luogo.

Un cielo autunnale marmoreo, che stria con tonalità di grigio pezzi di volta ritagliati tra le tondeggianti  12204692_10206379646603188_657876985_ngalbule, frutti del cipresso, invita a raccogliersi, nonostante l’arzillo guizzo dei fiori coloratissimi, che nei primi di novembre affollano, meno degli altri, ma pur anche, questo cimitero. Il rumore dei passi è l’unico che accompagna; insoliti suoni di uccelli, che qui nidificano in pace, squarciano il pio silenzio, povero di retorica, pregno di rispetto. Tra grandi e figli di grandi, riposano giovani difensori della Repubblica romana, ragazzi di sedici e diciassette anni, senza spavalderia. Riposano stranieri che in Italia sono morti, e che sono rimasti stranieri solo per religione, italiani nella cultura, italiani nel cuore. In fondo, modestissime, le ceneri di Antonio Gramsci.

Cosa sogna la Roma delle mura, la Roma delle Terme, la Roma del cimitero acattolico? Nulla, perché pure la retorica qui è debole, e suonerebbe come impostura, come provincialismo.

Assiste – e assisterà ancora per tanto – allo scolorirsi irrecuperabile della città, attraverso lo scorrere imperterrito dei secoli.

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