PANORAMI SONORI – Dal Tirreno a Taormina: l’incomunicabile

di Valerio Tripoli

PANORAMI SONORI – Dal Tirreno a Taormina: l’incomunicabile

di Valerio Tripoli

PANORAMI SONORI – Dal Tirreno a Taormina: l’incomunicabile

di Valerio Tripoli

Dal Tirreno a Taormina, su per i Monti Nèbrodi

Sicilia, d’Agosto: avido lutto ronzante nei vivi, monotono altomare, ma senza solitudine. E mare, e spiagge, e cale, e grotte. Tonnare, mercati, altipiani assolati, giallo che avvampa, tramonti eterni.

Oppure, lungo le arterie vitali d’Italia, quelle strade nazionali pensate nell’Ottocento come vademecum per inseguire la bellezza, non come vie, di comunicazioni il più rapide possibile, alla scoperta di orizzonti meno consueti, più defilati, lungo cui la Sicilia, come l’Italia intera, mostrano un volto che ricorda ancora il grand tour, lontano dal chiasso, lontano dal conosciuto, lontano dall’ovvio.

Se poi, oltre che l’ovvio, voglia rifuggirsi anche l’afa delle giornate più calde, si prenda l’automobile, si fissi come punto di partenza il tratto della costa che fronteggia le Eolie, dal Capo Tindari al Capo d’Orlando, e ci si diriga in direzione Sud: si risalgano, cioè, i monti Nebrodi.

Da ognuna delle innumerevoli carrozzabili che si inerpicano lungo le inclinate falde dei monti in faccia alle isole Lipari, appare chiaro come una giornata tersa garantisce, se non la vista del lontano Stromboli e della piccola Panarea, almeno la veduta sempre più distesa delle restanti isole dell’arcipelago, specie delle grandi Vulcano, Lipari e Salina, che stupiscono per la loro vicinanza, e giganteggiano sempre più, tanto più si risalgono le montagne della costa. E ci si sente in Sicilia solo per l’estrema esoticità del panorama, così insolito lungo la costa italiana, più simile a quella, frastagliatissima, greca, perché il baldanzoso verde che sprizza da ogni lato delle strade, quello incolto e quello, così opulento, delle piante di nocciòli, sembra essere il verde dell’Appennino, se non quello di regioni più settentrionali.

L’ampia veduta che si ha da Naso, da Ficarra, dall’antico sito di Gioiosa Guardia, trasferitasi a mare nel Settecento, da Piraino, mischia il blu dell’acque natali delle Eolie all’azzurro del cielo siciliano, al verde che divampa da ognuna delle valli che si addentrano, lunghe, strette, a perdita d’occhio, verso la dorsale dei monti Nebrodi. Dietro, lontanissimo, eppure vegliante, in eterno, emerge già l’Etna, tremendo. Floresta

Quasi ogni strada porta alla Floresta, casale sorto nel Seicento ai piedi della Serra di Baratta, il paese più alto di Sicilia. E qui sia la prima sosta. È estate, le vie del piccolissimo paese sono quasi tutte movimentate, specie la principale, il Corso Umberto, che coincide con il tracciato della statale 116, Capo d’Orlando – Randazzo. Una sfilata di modeste case in pietra, che si apre solo in coincidenza dello slargo principale e, più avanti, della piccola parrocchiale di Sant’Anna, mostra edifici tutti uguali, nella loro anonima semplicità, alcuni mossi da qualche presenza umana sopra i balconi, altri muti da anni. Ma della Floresta rimangono indelebili l’odore e i suoni: l’aria è frizzante anche in pieno agosto, sì che le resine dei pini che stanno sopra il paese spargono il loro profumo purificato. Con loro, i coloratissimi gerani che pendono dalle balconate spandono i petali qua e là, mossi da un venticello che sembra non mancare mai. E nient’altro, intorno: il silenzio di montagne tranquille, di campi neppure troppo vasti, è interrotto dal passaggio di qualche rara autovettura, e meno fastidiosamente dai numerosissimi uccelli che nidificano intorno, dal rumore del vento che si insinua tra le fronde, e che giunge al paese fortissimo. Altri odori? Quello, fragrante, del pane, dal calore dei forni. Quello, aspro, dei concimi animali, degli armenti, delle mandrie, subito fuori il paese.

La statale 116 prosegue, in direzione Randazzo, lungo un bel tratto della dorsale dei Nebrodi: a settentrione, per l’ultima volta, si scorgono le cime più alte delle Eolie, e la salita dei monti, caotica, ma ben distesa, fin dal Tirreno; a meridione, il primo tratto di una nuova, assai diversa Sicilia, quella delle alture più boscose dei Nebrodi, di faggi, di lecci, di abeti, su cui spicca sovrano, quasi sgombro da qualunque effimero ostacolo, il pilastro dell’Etna. Fino al paesino di Santa Domenica Vittoria la statale 116 è completamente immersa nel verde dei boschi limitrofi, quasi trazzera di campagna, se non fosse per la sua ampiezza, per il suo asfalto. E fino a quel punto è ancora il verde protagonista assoluto del paesaggio, e i suoni gli stessi che vi erano alla Floresta, solo più rarefatti, e sempre più gravati da un caldo che lassù si era quasi dimenticato. santadomenica05

Appresso Santa Domenica, però, si ha l’idea che in poche decine di chilometri si siano attraversati due continenti, e una frattura assoluta preannuncia nuovi mondi: la linea dei boschi è artificialmente interrotta proprio al limitare di questo paese. Sopra, venendo dal Tirreno, abbonda ancora il verde, quasi mai dovesse finire; sotto, un giallo assoluto, pietroso, assetato, tra la serpentina dei tornanti che discendono, pendenti. E qui, il fiato si mozza: l’immensa vallata, enorme, bagnata dall’Alcantara, che si forma tra il colossale vulcano e i monti che, a lui in faccia, sembrano finti cumuli fatti da bambini in spiaggia, mostrano, nuda, la mole vulcanica dell’Etna. È un orizzonte che né l’occhio, né la mente umana possono spiegarsi, e per questo motivo: l’Etna si vede ancora dall’alto, da molto in alto, eppure già da qui sembra troppo più alto, troppo più grande di qualsiasi altro ammasso di pietre cui gli uomini hanno dato nome di montagna. E il nero dei lontani fuochi induriti a diventare pietra è frastagliato qua e là da antichi boschetti, che chiazzano di ebbro verde un desolato colore di morte. Dalla parte del mare, verso Oriente, l’Etna ascende leggero, in una linea che impegna l’occhio, che la segue, per molti secondi. A occidente, verso l’ombelico della Sicilia, verso Enna, il vulcano muore velocemente, in una balza rapida che solo qualche vulcanetto apertosi nei millenni interrompe, in vano gareggiare con la bocca più alta, che fuma instancabile.

Giù, ai piedi, alla fine della statale 116, la bellissima Randazzo spicca dal fondo lavico su cui è costruita con le sue tre cupole grandi, di là dal ponte a sette archi sul fiume Alcantara. Intorno la cinge una muraglia nera, medievale, dentro cui vie nobili e cittadine separano ampli palazzi e egregie chiese, da Santa Maria, il cui neogotico la camufferebbe in chiesa germanica, se non fosse per il fasto nero della pietra con cui è costruita, a San Nicola, la più grande, a San Martino, chiesa della comunità lombarda, con il suo altissimo campanile romanico. randazzo-7af3b4ca-f7b1-4457-9cd6-22abd2e5fa28

Ma è già tempo di volgere verso il mare, ché la Sicilia è sempre un’isola, e il mare la bagna alla fine di ogni vallata. Pure quella dell’Alcantara va verso il mare, l’Jonio, e lo si raggiunge piegando verso oriente, ai piedi del vulcano, lungo la provinciale 185.

Splendidi e prodigiosi vitigni, irrigati da acque vulcaniche naturalmente frizzanti, recuperano dal suolo quel sapore che rende i vini dell’Etna inconfondibili, e tra i primi di Sicilia. Tra i vitigni, grandiose ville della nobiltà siciliana dell’Ottocento, masserie, paesi storici, dall’arroccata Castiglione a Francavilla, entro la valle dell’Alcantara, vicina a Mojo, il paese le cui pesche hanno fama almeno regionale.

E tra queste gole, prima ancora di arrivare a quelle, famosissime, dell’Alcantara per antonomasia, l’animo di chi discenda in macchina con lentezza può ritrovare un paesaggio irreale, grandiosamente sconosciuto, che si riconosce ma non si fa conoscere, tanto è esteso, tanto è grande, tanto è schiavo della massa infinita del vulcano, che veglia su ogni cosa. Ne deriva, sì, la consapevolezza di essere in uno tra i posti più insoliti del mediterraneo, ma pure una desolazione, una impotenza, di chi ne coglie la rarità ma non ne penetra il senso. È quella stessa incomunicabilità che portò il regista Antonioni, nella sua Avventura, a passare dal villaggio fantasma di Schisina, ove i protagonisti si ritrovano, spaesati, disorientati, sopraffatti soltanto da un orizzonte talmente divino da non essere più umano. lavventura

Da Francavilla il passo è breve. Lasciata sulla montagna la veduta di Motta Camastra, il paese che pure figura nella prima pellicola del Padrino, come patria dei Corleone, stanno ancora vitigni, oliveti, in più rapido degradare verso il basso. E di fronte il mare, e l’arce altissima di Castelmola, sopra la città di Taormina.

«Questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo […].» Questa Sicilia.

di Valerio Tripoli All rights reserved

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati