Opera lirica, estate e Sud Italia: conferme e tentativi

di Valerio Tripoli

Opera lirica, estate e Sud Italia: conferme e tentativi

di Valerio Tripoli

Opera lirica, estate e Sud Italia: conferme e tentativi

di Valerio Tripoli

Festival della Valle dell’Itria (XLV ed.) e Festival dei Teatri di Pietra (I ed.)

Lo si dica subito: l’opera lirica non è nata al Sud. Nell’endemica (e a volte patologica) propensione, tutta meridionale, ad appropriarsi di ogni manifestazione dell’ingegno umano, tanto da farne coincidere la scaturigine in un luogo compreso tra il parallelo di Roma e quello dell’isola delle Correnti, non si è riusciti ad inserire il melodramma.

Pronta la scappatoia, però. Non può negarsi che l’opera lirica sia lontana (lontanissima) filiazione della tragedia classica – nell’erronea convinzione, propria della Firenze di fine Cinquecento, patria del melodramma, lei sì, che la tragedia di Eschilo, Sofocle ed Euripide fosse integralmente cantata e che, dunque, a noi non restassero che i libretti – e, se di tragedia classica si parla, beh, è tutta un’altra storia. Magna Grecia, teatri, colonie, poleis: ed è subito Mezzogiorno.

A questa vera e propria forzatura occorre aggiungere un supplemento, stavolta storicamente valutabile e onesto: la stanza preferita dal teatro d’opera in Italia, per tutto il Settecento e per la prima parte dell’Ottocento, è Napoli: al Teatro di San Carlo (il più antico in Europa, dunque nel mondo, ancora in attività – 1737) e negli altri teatri della corte partenopea si svolse una tra le vicende più eccelse e feconde del dramma in musica, tanto che non c’è bisogno di aggiungere parole superflue per i conoscitori più attenti, e sarebbe vano aggiungerne per chi non s’è mai accostato a questo genere musicale. Basti evocare la ‘scuola napoletana’, e chi sa alza le mani, chi non sa, si fidi e lo faccia lui pure.

Non ricordiamo se Napoli sia al Sud. Se lo è, siamo coscienti che stiamo fornendo un assist di quelli seri a chi pensa che il secondo nome del big-bang sia Napoli e che la prima cosa che il dio creatore creò fu il Sud Italia, ma tant’è. Davvero la ‘scuola napoletana’ è una di quelle eccellenze che ha permesso al teatro d’opera di vantare la storia che ha, e di giungere a quel grado di perfezione senza il quale (e non esageriamo) Mozart e Rossini e tutto il melodramma romantico fino a Wagner sarebbero stati altra cosa. E con ‘altra’ intendiamo qualcosa di ben più trascurabile.

Che ne è, oggi, di questa tradizione? D’agosto, usciamo dai teatri all’italiana – quelli in legno dorato e velluto rosso, per intenderci – e andiamo nelle piazze.

Ciò che, in primis, va considerato, è che siamo in Italia (Sud Italia, certo, lo si precisa per gli amici del Nord), in un’area né tedesca, né centrale d’Europa. Questa considerazione lapalissiana non prelude, si badi, a strali contro il debito pubblico, né contro le politiche di austerity: è fatta solo per significare che la tradizione dei festival (festipiele in tedesco) estivi, spesso all’aperto e, comunque, tali da svolgersi nei mesi più caldi dell’anno in luoghi spesso differenti dai teatri invernali, è tendenza nata in quell’area del mondo: Orange, in Provenza (ove le Chorégies che si svolgono al teatro romano sono considerate il festival lirico più antico del mondo – 1869), Bayreuth, patria di Wagner, dal 1876; poi Salisburgo, quando nel 1877 si decise di impegnare le cinque settimane estive tra luglio e agosto in una programmazione operistica di tutto rispetto; via, dopo quelli, Verona (1913), Glyndebourne (Inghilterra, dal 1934), Lucerna (Svizzera, dal 1938), per citare solo i più importanti.

Insomma, quella dei festival è moda d’importazione italiana, prima ancora che meridionale. Se si esclude Verona (che consideriamo di area tedesca), i più importanti festival operistici italiani sono il Festival dei due mondi (in Spoleto, e non solo operistico, dal 1958), il ROF (Rossini Opera Festival, che si tiene in Pesaro solo dal 1980), il Festival Verdi (in Parma, dalla metà degli anni Ottanta e poi, stabilmente, dal 2001), il Festival Donizetti Opera (in Bergamo, dal 2015). Anche qui, si citano solo i più famosi, in un elenco omissivo e parziale.

Ne manca uno all’appello, perché è quello di cui si vuol parlare. È il Festival della Valle dell’Itria, che si tiene ininterrottamente dal 1975 in Martina Franca. In questa insospettabile cittadina della provincia di Taranto va in scena un vero e proprio prodigio. Lì, un gruppo di appassionati musicofili capeggiati da Alessandro Caroli, primo presidente del Festival, con il determinante supporto di Franco Punzi, l’allora Sindaco di Martina Franca, e di Paolo Grassi, all’epoca sovrintendente del Teatro alla Scala, compì una scelta epocale: fare un festival d’opera. Il che, se si considera l’anno, 1975, e il luogo, la profonda provincia tarentina, avvalora l’iperbolica aggettivazione utilizzata. Non si aveva il senno del poi, ossia il successo, in termini economici e turistici, che simili eccellenze musicali creano nei mesi estivi, e l’unico esempio di Verona era lontano e di remota comparazione; non si aveva un pubblico formato a recepire tale forma d’arte, o lo sia aveva solo elitariamente e tale da non far pensare all’innesco di un sistema quale quello venuto fuori nelle ormai quarantacinque edizioni del festival.

La vera eccellenza fu quella di scegliere un repertorio assolutamente desueto, di rarissima esecuzione e a dir poco misconosciuto: parliamo di titoli poco famosi di autori eccellenti (Tancredi di Gioacchino Rossini, del 1976, vero primo grande successo del festival); di titoli famosi di autori meno conosciuti (Il barbiere di Siviglia, ma di Paisiello, non Rossini, nel 1982); di versioni meno note di opere note (Norma, di Bellini, versione originale per due soprani, nel 1977); infine, di opere poco note di autori poco noti (tra le moltissime, Il giuramento, di Saverio Mercadante, anno 1984).

Elenco di cui non vi tediamo, e che è possibile leggere su Wikipedia o su altre pagine online, ma da cui abbiam tratto per sottolineare come la scelta, vincente, del festival di Martina Franca fu quella di rendersi indispensabile: se opere rarissime vuoi ascoltare, in Puglia dovrai andare. Di conseguenza, platea ristrettissima di intenditori, è vero, ma da tutto il mondo; semplici appassionati che, per una volta, non vogliono vedere Traviate e Tosche; curiosi che, per una volta, magari vicino casa, possono godere di uno spettacolo unico, costosissimo e titanico, quale è quello che mette in scena personaggi, coro e comparse a centinaia, con sotto decine di professori d’orchestra che suonano con strumenti spesso unici al mondo per svariate ore. Ossia, l’Opera.

La stagione di quest’anno, la XLV edizione, era un omaggio, per l’appunto, alla scuola napoletana con cui si è principiato. Titoli principali: Il matrimonio segreto, di Domenico Cimarosa, è opera che non aggettiviamo per non apparire banali. Basti solo pensare che alla sua prima esecuzione, al Burgtheater di Vienna, dinanzi all’imperatore Leopoldo II (anno 1792), riscosse tanto successo che, al finale, fu chiesto il bis: sì, ma di tutta l’opera, che puntualmente, e da capo, fu fatta ricominciare. E poi, Ecuba, di Nicola Antonino Manfroce: più che un capolavoro, quest’opera è un miracolo. Il giovane Manfroce, nativo di Palmi, in Calabria, morì di tisi a ventidue anni: nel 1812, un anno prima della morte, rappresentò in Roma, al Teatro Valle, questo lavoro che coincide, giocoforza, con il suo testamento artistico. Cosa ci sia da testare a ventidue anni ce lo chiediamo, ma la risposta è data da un’opera imperfetta, certo, a volte ingenua, ma musicalissima e godibile in ogni sua nota, e il pensiero non può che andare a tutte le opere che Manfroce avrebbe potuto comporre e che sono rimaste mero, irrimediabile, ottativo.

Sul sito https://www.festivaldellavalleditria.it/ le date e gli altri, imperdibili, appuntamenti.

In calce alla conferma di una eccellenza, si noti una novità: è il Festival dei Teatri di Pietra, che vede i teatri antichi di Siracusa, Taormina e Tindari farsi scenografia per rappresentazioni liriche. Regìa di Alessandro Cecchi Paone, ma la spinta propulsiva è di Francesco Costa, un trentaduenne siciliano alla guida del Coro lirico siciliano, fondato nel 2008 e con già una illustre carriera alle spalle. Il Festival non ha (ancora) un sito, ma su pagine come questa può trovarsi la programmazione in dettaglio.

Teatro antico di Tindari
Aida al Teatro antico di Taormina

Un apprezzamento e una messa in guardia: l’idea di popolare i teatri antichi siciliani di rappresentazioni liriche è splendida e, pur con l’immane sforzo economico che comporta, probabilmente vincente. Farlo con Tosca e Cavalleria rusticana, diamine, no. Rimane allo stadio di ‘figata’ l’operazione de quo, se si pensa che l’intenditore non ne può più di sentirne parlare, di titoli siffatti, e con l’appassionato andrebbe, al massimo, ad ascoltarli in messinscene straordinarie (almeno à la carte), come Tosca che si darà in Milano, alla Scala, il prossimo 7 dicembre; il curioso, poi, perché dovrebbe sorbirsi due ore di musica d’opera, quando negli stessi teatri (meno che Tindari) si mettono in scena centinaia di altre rappresentazioni, durante l’anno, senza per forza dover aspettare l’Opera?

Il consiglio è, dunque, di essere coraggiosi come i creatori del Festival della Valle dell’Itria: si scelga, chissà, il tema delle tragedie classiche divenute melodramma: Médée, di Cherubini, Ermione, Zelmira di Rossini, tutta la schiera dell’opera neoclassica di Sette e Ottocento (Cimarosa, Spontini, Paisiello, Mayr e tacciamo di altri cento); oppure quello della Sicilia nell’opera (Les Vêpres siciliennes di Verdi, Tancredi di Rossini, Il Pirata di Bellini, Das Leibesverbot oder Die Novize von Palermo di Wagner, Cavalleria rusticana di Mascagni, certo, ma in un’ottica del genere, non perché, durando poco, costa meno).

Insomma, qualcosa che renda tali rappresentazioni indispensabili, insostituibili ed uniche. Costi? Esorbitanti. Risultati? Se si è bravi, un’operazione culturale epocale e un indotto inaspettato; se lo si è meno, la memoria che qualcosa di significativo è stato fatto, e non di una sgangherata trovata estiva per racimolare qualche spiccio e dire che si fa cultura, senza realmente farla.

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