Non c’è nessun lato oscuro della luna, in realtà

di Paolo Pugliese

Non c’è nessun lato oscuro della luna, in realtà

di Paolo Pugliese

Non c’è nessun lato oscuro della luna, in realtà

di Paolo Pugliese

La musica dei Pink Floyd è da sempre oggetto di discussione: controversa, osannata da alcuni quanto presa a simbolo di tutto ciò che non funziona nel mondo musicale da altri, (il famoso “I Hate Pink Floyd” sulla maglietta di Joey Ramone) imitata ma mai raggiunta, è passata di generazione in generazione senza perdere nulla della propria originale forza espressiva.

Nel quadro delle Lezioni di Rock dell’Auditorium Parco della Musica si inserisce quindi perfettamente una riflessione sulla musica dei britannici.
La storia dei Pink Floyd è qualcosa di più di un semplice susseguirsi di dischi che hanno contribuito almeno in parte alla ridefinizione di concetto di bellezza, no.
La storia dei Pink Floyd è molto altro, molto di più: è un crogiolo di rabbia e silenziosa disperazione, (d’altro canto era questa la english way) di legami distrutti e riparati, di ambizione e di rassegnazione.
È estremamente paradossale questa storia, dove per paradossale si intende proprio quella serie di circostanze che sembrano così logicamente inconciliabili tra di loro: come si sarebbe potuto altrimenti spiegare nell’ottica di un gruppo in grado di vendere decine di milioni di dischi la decisione di fare un concerto senza pubblico nelle rovine di Pompei?
Inutile dire che il “Live at Pompeii” è un lavoro di una qualità impensabile, vero e proprio spartiacque della carriera della band.
Come si sarebbe potuto spiegare un gruppo che tanto spesso ha parlato di mancanza di comunicazione tra gli esseri umani e che invece al proprio interno ha avuto faide degne di Franchi e Longobardi?
Come si sarebbe potuto spiegare un gruppo pionieristico come loro negli effetti visivi che sembra quasi nascondersi dietro alle proprie stesse scenografie?
I Pink Floyd sono stati tutto e il contrario di tutto.
Iniziano con le sperimentazioni psichedeliche sotto la guida visionaria di Syd Barrett, il “crazy diamond” che lascerà un’eredità destinata a perdurare per una lunga fase della produzione floydiana.
Fase piuttosto breve quella barrettiana, perché Syd era semplicemente troppo bello per il mondo.
I suoi problemi personali (in particolare l’ipersensibilità) lo condizionano pesantemente e l’abuso di droghe non favorisce di certo questa condizione, ma nessuno fa niente.
I suoi compagni, i suoi amici, non fanno nulla per evitare che la mente di Syd si distrugga sotto il proprio stesso peso; nemmeno quando il gruppo decide di cacciarlo nessuno fa niente.
Non si presentano più a casa sua per andarlo a prendere prima di suonare: questa è l’ingloriosa fine della storia di Barrett con i Floyd.
Il rimorso per quanto fatto deve aver evidentemente toccato i membri del gruppo, che infatti tratteranno ampiamente il tema, oltre a dedicare all’ex compagno una delle loro più belle canzoni.
Dopo l’uscita forzata di Barrett il gruppo trova un’improbabile armonia che, mai scevra di tensione creativa, li porta a diventare sempre più conosciuti e famosi, anche sull’onda della rivoluzione culturale che li aveva fatti, loro malgrado, paladini di quei cambiamenti che andavano avvenendo.
Il culmine della loro produzione del periodo è con tutta probabilità The Dark Side of the Moon, uscito nel marzo del 1973, punto focale della riflessione curata da Ernesto Assante e Gino Castaldo.
L’album era, a detta di Roger Waters, bassista e compositore del gruppo in tandem con David Gilmour, un’espressione di carattere politico, filosofico e umanitario che doveva essere comunicata.
L’album rappresenta esattamente questo: un messaggio all’umanità.
I temi trattati vanno dalla solitudine e alla mancanza di comunicazione, dalla paura del diverso all’ossessione per il denaro, dalla follia (la storia che Syd avesse lasciato qualcosa di profondo in queste persone non era così campata in aria) all’invecchiamento, passando per la morte e la nostra stessa concezione di vita.
Come l’album è aperto e chiuso da due serie di battiti cardiaci, così il famoso prisma che scompone il raggio di luce sulla parte frontale della copertina ritorna ad essere come prima del suo incrociare la superficie nera nella parte posteriore.
In mezzo ci sono 43 minuti di storia della musica: sarebbe impossibile indicare uno o più pezzi particolarmente importanti di questo album, ma non solo per l’altissima qualità di tutto il lavoro.
Come ogni concept album che si rispetti (posto che i Pink Floyd hanno in parte la responsabilità della creazione dell’idea stessa di concept album) non si può scomporre il prodotto finale in una serie di sottoparti, non si può agire per compartimenti stagni.
Ogni filo è legato agli altri in una matassa che si interseca in maniera fin troppo profonda per non subire danni da un grezzo colpo di forbice.
Un album intrinsecamente legato al concetto di circolarità, quindi, che vorrebbe idealmente chiudersi con la morte, non necessariamente intesa come fine del nostro viaggio.
Non esiste infatti il lato oscuro della luna: a dire il vero è tutta oscura.

Di Paolo Pugliese.

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