IN NOME DI NESSUNO, La storia di Charlie Hebdo

di Marica Dazzi

IN NOME DI NESSUNO, La storia di Charlie Hebdo

di Marica Dazzi

IN NOME DI NESSUNO, La storia di Charlie Hebdo

di Marica Dazzi

Viene pubblicato per la prima volta nel 1970, Charlie Hebdo, e scatena immediatamente il suo primo polverone all’indomani del funerale del presidente De Gaulle, titolando “Ballo tragico a Colombey, un morto” con riferimento alla residenza del generale. Il suo nome di battesimo lo deve a Charlie Brown, dal quale prende ispirazione, e fin dalla sua nascita, è stato sempre accompagnato da quella che sarebbe diventata la compagna di tutta la vita: la sana polemica.

Dichiaratamente di sinistra e, forse soprattutto, sprezzante nei confronti di qualsiasi religione, le vignette del giornale in Italia furono rese celebri dalla maglietta che Calderoli indossò nel 2006 e mostrò durante un’intervista, scatenando una serie di attentati dei quali abbiamo ancora vivo ricordo. Nel 2011, alla sua ennesima provocazione, la redazione del giornale viene totalmente distrutta da un incendio doloso. Ma è la giornata di ieri la più triste che Charlie abbia mai vissuto.

Le matite spezzate dei grandi disegnatori che lavoravano nella redazione e quelle, intere, alzate in alto contro il cielo in piazza della Repubblica, la luce spenta della Tour Eiffel, le urla di supplica, le ultime, del giovane poliziotto musulmano massacrato di fronte al giornale.

La storia di Charlie in realtà era, probabilmente, già scritta, lo sapevano anche le stesse vittime dell’attentato, e non mancavano di disegnarci sopra, come nell’ultima vignetta, profetica, la mattina della tragedia. Ma è forse in quell’ultimo disegno, spietato fino all’ultimo, che la bellezza di questo colorato giornale si spiega veloce nella sua semplicità: noi non vogliamo avere paura di ridere.

Un’illustrazione in fondo, non puo’ mancare di essere feroce, deve mostrare, rapida, in uno sguardo e una battuta, una critica, un concetto, senza mancare di scuotere forte il pensiero di chi legge. Charlie non risparmiava nessuno, non rinunciava mai alla sua risata intelligente. Fosse puntata contro il Papa, Maometto o il presidente Hollande, la sua matita era sempre tagliente, sfacciata.

Arte Pop non poteva decidere di non dedicare un pezzo alle più simpatiche copertine del giornale, per mostrare, anche qui nel nostro piccolo,  come  la satira di Charlie fosse tremenda, divertente e trasversale.

La satira pura che ha già visto e imparato dalla storia e mostra, vivace e spietata, quale dramma possa rivelarsi nel prendersi troppo sul serio.

E’ forse proprio questa consapevolezza che però manca nelle rapide insinuazioni che hanno popolato il web e i media tutti, di un’identità occidentale per l’ennesima volta minacciata. Come sciacalli, veloci, in tutta Europa, la tragedia ha subito dato l’occasione alle confuse menti che spesso presidiano certi partiti, di strappare consensi rabbiosi sulla scia del sangue ancora fresco.

In guerra, in realtà, ci siamo già da tempo, ma la vera guerra non è solo quella scoppiata, più di dieci anni fa, con quelle scene terribili di fumo e preghiere, che tanti di noi, sintonizzati dell’ultima ora speravano appartenessero alla finzione di un film. Un’altra guerra, più copiosa, più difficile, la stiamo combattendo tutti e non possiamo permetterci di smettere di farlo.

E’ la guerra ideologica di una contrapposizione inesistente fra religioni, la pericolosa insinuazione di una battaglia che porti il nome di Maometto, o di Cristo. Una guerra di terrorismo psicologico, di sgomento sociale, che proprio in questa nuova paura trova la sua più grande fonte d’alimentazione: con l’arruolamento di persone lontane dalle loro terre e rese ancora più sole dietro il muro di questa nuova distanza fatta di sospetto, e con il sostegno falso a quei gruppi che, cavalcando l’onda becera del terrore, contribuiscono in questa separazione.

E’ nella divisione, nel dubbio, nel timore del diverso che i terroristi vincono ogni giorno, le loro bombe, i loro proiettili, hanno una eco potente nei nostri pregiudizi. Se vogliamo segnare un punto a nostro favore in questa battaglia, dobbiamo convincerci del fatto che l’unica firma che portano queste stragi è quella della violenza non della fede. E la violenza non conosce religione, non l’ha mai conosciuta, è sempre stata sola nella sua brutalità. “In nome” è solo un pretesto, vigliacco, becero ma purtroppo mai sterile. E’ questa la prova più importante alla quale la nostra intelligenza probabilmente è chiamata: quella di non confondere e perdere nella nebbia della rabbia, un concetto prezioso e nuovo di società che, con la nostra stessa Europa, stiamo cercando di portare avanti.

Una società che non sia atea, buddista, cattolica, musulmana (o magari wicca) ma che sia libera e, oggi come non mai, che sia soprattutto libera di ridere.

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati