New Year’ s Eve

di Federica Picasso

New Year’ s Eve

di Federica Picasso

New Year’ s Eve

di Federica Picasso

Detestava il Capodanno. Questo era un fatto. Non ci poteva fare proprio niente. Era più forte di lui.

Tutta quella gente allegra, con quella tragica euforia più simile a uno spasmo della cassa toracica, che a un’ autentica serenità. No, il Capodanno non aveva niente a che spartire con la serenità . Semmai rientrava nella stessa area semantica di: schizofrenia, bancomat, iniezioni di insulina alle tre di notte e “ehi piccola…scusa se ci ho messo tanto alla toilette… no, no…la bionda non mi ha seguito mica…che ne so perché ha il rossetto sbavato…”

Somigliava a Las Vegas il Capodanno. Solo in modo meno autentico e divertente. Era per via delle luci, in primis. Quel bagno di fotoni in cui immergere le aspettative di un nuovo anno. Una nuova vita. Un nuovo “tutto-uguale-a-prima”, solo con una passatina di Vetril per farlo scintillare.

Poi dipendeva da quella febbrile attesa che accomuna giocatori d’azzardo e bambine coi codini  nell’atto di recitare il conto alla rovescia. È tutto negli occhi. Sudorazione alle stelle. Salivazione ai minimi termini. Il muscolo cardiaco che comincia a pompare al ritmo di numeri. “16 rosso” o “-10…9….8….”. Trova le differenze.

Infine, era per via dei picchi.

L’ultimo dell’anno tirava fuori il meglio e, soprattutto, il peggio dalle persone.

I gioielli più vistosi. Creature uscite fuori dall’armadio delle bambole, in carne, ossa e smeraldi. I tacchi più vertiginosi. Bottiglie di Bollinger Blanc servite nei ristoranti al triplo del loro costo abituale. Lo sballo totale delle calcolatrici.

Le scuse più astruse e improbabili tirate fuori dal proprio portafogli in coccodrillo australiano, per poter trascorrere quell’unica notte con Miguel, il proprio amante argentino. Ragazzine con l’apparecchio ortodontico ai denti e un abito da 700 dollari che neppure riempiono. O riempiono al punto da far crepare le cuciture.

Come si trattasse. Dell’ultima notte. Della sola. Inappellabile. Ultima. Notte. Che a chiunque spetti. Un giorno o l’altro.

 

Dal canto suo. Vincent s’era costruito a regola d’arte e di truffa la propria tradizione.

Niente cenoni. Quelli proprio non li tollerava. Argenteria disposta secondo regole di cui, in fin dei conti, non sarebbe potuto fregare di meno a nessuno. “Il cucchiaino da dessert va sempre disposto in alto rispetto al piatto…” Chi aveva stabilito in tempi ancestrali una simile assurdità ? Chi è che, dall’alto d’un cielo con su scritto “Paradiso delle buone maniere – si prega di fare il baciamano all’ ottuagenaria all’ingresso”, vigilava sulla fedele osservanza del bon-ton? Sarebbero finiti nel girone infernale della servitù disattenta tutti quei camerieri che, per negligenza/imprudenza/imperizia, si dimenticavano di servire la zuppa a sinistra, invece che a destra?

E, soprattutto, perché lui era conoscenza di buona parte del manuale “Galateo per pivelli?”

Sì, qualcosa, doveva a malincuore ammettere, gli era tornato decisamente utile nel corso degli anni. Le donne, le sue donne e, soprattutto, quelle degli altri, subiscono naturalmente il fascino di un cavaliere in smoking che apre loro la portiera dell’ auto. Sempre che non si tratti del parcheggiatore con uno sfogo di acne rosacea in faccia, si intende.

Doveva dipendere da un gene in più. O da un cromosoma. XY vs. XX. Forse. Forse, concluse, quel segmento mancante nel codice degli uomini doveva corrispondere alla propensione a tutto quel teatrino di “Prego, signora…” o ” Enchanté, pronunciato con quella tipica nota stonata di chi non conosca altra parola in francese (eccezion fatta per “Je suis Catherine Deneuve”.)

Nessun mazzo di rose avrebbe sortito lo stesso effetto di un solo, unico, fiore, recapitato alla (s)fortunata , il giorno dopo una cena a lume di candela. Bigliettino in carta pregiata. ” Sei una perla rara, tu. ”

Ma davvero ci cascavano? O, essendo questo accertato con ogni evidenza, come facevano a cascarci ancora?

Le donne, tutte le donne, si disse, somigliavano incredibilmente a tutta quella gente che se ne stava trasognata in attesa del nuovo anno.

 1987, a voler esser precisi. Perfettamente consapevoli che nessuna delle promesse fatte sarebbe stata mantenuta dal 1 gennaio. O dal corteggiatore di turno. Eppure invaghite. Innamorate. Perdutamente innamorate. Non del giurante. Ma del giuramento in sé.

 

Estrasse dalla giacca  dello smoking un orologio da taschino con una brutta ammaccatura in direzione di due lettere. “B.L. “. Il suo cognome. Quello “vero per davvero.” Quello che nessuno a questo mondo, né in una realtà  parallela in cui un afro-americano diventa Presidente degli USA, avrebbe potuto pronunciare mai. Regalino coatto di qualcuno che, tanto tempo prima, aveva avuto una faccia simile alla sua.

Le lancette segnavano le 8,10 p.m. Una sopra l’altra. Amanti eternamente indecise. Aveva ancora un po’ di tempo. Gli restava mezz’ora, prima di mettersi nuovamente addosso il suo appellativo.

Le vetrine scintillavano. Il Paese dei Balocchi per ogni possessore di Mastercard o Visa che fosse.

Avvertì l’odore dell’asfalto bagnato di led salire come un richiamo. Attaccarsi addosso alle pellicce in astrakan di tutte quelle quarantenni annoiate, in attesa di essere salvate  da un matrimonio con la stessa verve di una puntata de “I Jefferson”.

Il profumo di uno Chanel “n. ….n. …. ?” , da un gruppetto di ventenni in libera uscita dal college, tentò di prendere all’amo i suoi buoni propositi. Tra loro, poteva nascondersi la sua mogliettina nuova? La numero venticinque. Magari quella con il nasino leggermente schiacciato ma con quello splendido neo alla base del collo. Avrebbe distrattamente finto di finirle addosso e poi… e poi le sarebbe finito addosso molto più concretamente. Le avrebbe sfilato la borsetta di paillettes bianche, mentre quella ancora dormiva in una camera d’albergo pagata dal suo paparino. E…”Happy New Year  from Vincent!” .

Ma poi la vide. Tra cento e cento.

Capelli biondi, lunghi fin oltre le spalle. Un baschetto con un fiocco di velluto nero sul lato. Una cascata di lentiggini sul viso. Si fermò a sei passi da lei. E fu come rincontrare qualcuno dopo troppi capodanni. Qualcuno di nostalgicamente familiare. La osservò osservare. Una vetrina sfarzosamente sistemata. E un solo, singolo, oggetto, che aveva catalizzato la più completa attenzione di quella creatura.

E, Vincent, iniziò a frugare tra le tasche. Gli venne spontaneo, come certe forme di sorriso. O come il singhiozzo. Avvertì la carta ruvida e stropicciata dei dollari, con quel freddo che rendeva ogni percezione attutita.

Se mai era stato deciso nella sua vita, beh…era quello il momento.

Entrò nel negozio e notò lo stupore deluso della biondina oltre il vetro, nell’istante in cui un commesso tirò via il centro del mondo per i suoi occhi grandi.

Pagò. Il denaro di una delle sue ex consorti lo fece. Ma questo ora non è importante. Vincent pagò.

E quando la campanella dorata del “Charming World” suonò via la sua uscita, quegli stessi occhi grandi, da molto più in basso, si riempirono nuovamente di stupore. Puro. Stavolta.

< Anche a me piaceva “Felix the Cat” quando ero ragazzino… a Natale… fu… il mio più bel regalo…anche se la festa in sé si rivelò un disastro…>

Le parole di Vincent si mescolavano a vapore acqueo. Divenivano vapore acqueo. In ginocchio. Lui s’era inginocchiato, davanti a quella ragazzina sui tredici anni.

<In cambio voglio solo una cosa… promettimi che non ti fiderai mai di un uomo che ti manda rose rosse dopo una cena… se lo farà, tu pensa a Felix… a lui non fregherebbe niente di scostarti la sedia per farti accomodare…lui cercherebbe solo di farti ridere…>.

<Io sono Pers…>

La bambina non fece in tempo a finire quella frase. Le rimase sospesa all’altezza dei pon-pon bianchi della sua sciarpa.  Una signora in un sontuoso cappotto viola la strattonò via, richiamandola a sé. Il peluches alto novanta centimetri  no, non riuscì a staccarglielo dalle dita.

Erano le 8, 30 p.m. . Per la prima volta nel corso d’ un 1986 a finire, Vincent era in ritardo. La sua “con ogni probabilità  futura-moglie”  numero 25, in attesa al “Suprème Café” di Las Vegas, avrebbe ancora dovuto attendere qualche minuto. Qualche minuto ancora. Prima che Vincent Delirio le scostasse la sedia.


Una risposta

  1. Analisi vera e dissacrante di un giorno che, per molti, è solo una momentanea scappatoia dalla vita reale, farcito di belle speranze. La mia per il nuovo anno?Leggere tanti articoli tuoi!!!!Buon Anno

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