“Never apologize” (“Non chiedete mai scusa”)

di Redazione The Freak

“Never apologize” (“Non chiedete mai scusa”)

di Redazione The Freak

“Never apologize” (“Non chiedete mai scusa”)

di Redazione The Freak

ESCLUISVO: “Behind the scenes” è una nuova rubrica di The Freak, grazie ad un corrispondente top secret che dall’America seguirà la campagna elettorale di Barack Obama. E ci racconterà i dietro le quinte, quello che i giornali non scrivono e la gente non sa.

Le immagini di un presidente imbolsito, timoroso, professorale, che non riesce a rispondere alle bugie e alle provocazioni di Mitt Romney hanno fatto il giro del mondo.

Nessuno ha avuto il minimo dubbio su chi abbia vinto il dibattito mercoledì sera: io per primo, che sono uscito dal nostro “Debate Watch Party” col morale a terra. Non avevo mai visto il presidente così svogliato e assente. Dire che la serata era cominciata bene, con le mille chiamate in tre ore ai votanti dell’Ohio… La mia squadra aveva fatto un lavoro meraviglioso ed era molto carica: a quel punto toccava al Presidente assestare il colpo finale ad un Romney che, nei giorni precedenti il dibattito, era sembrato piuttosto depresso.

Quando i contendenti sono entrati in scena,  poco dopo le nove, ho avuto un sussulto. Avevo guardato vecchi dibattiti – Reagan contro Carter, Bush senior contro Dukakis, Clinton insieme a Bush senior e Ross Perot – cercando di capire quali erano stati gli elementi chiave che avevano determinato le vittorie passate: e mi è sembrato di vedere un sorriso sul volto dello sfidante, simile a quello di Ronald Reagan nel famoso dibattito con Jimmy Carter del 1980 (in quell’occasione, Carter era sembrato vecchio e stanco e Reagan lo aveva infine spodestato con una campagna elettorale basata sui sorrisi e sull’ottimismo).

Per tutto il tempo della discussione, ho osservato con rabbia il presidente abbassare gli occhi, guardare gli appunti, non rispondere alle provocazioni e ho visto Romney sorridere e attaccare, più tronfio e bugiardo che mai.

Il giorno dopo, ero curioso di discutere dell’argomento con il mio capo. Ho scoperto che aveva avuto le stesse sensazioni: era deluso, proprio come me. Siamo rimasti a chiacchierare di politica per non più di cinque minuti. Abbiamo concordato che non è nostro compito tracciare la strategia del presidente: noi siamo solo esecutori e il nostro lavoro non cambia.

Il mio capo mi ha detto che la mia squadra funziona talmente bene da essere lasciata da sola. Nel gergo, questo vuol dire che c’è un’emergenza in un altro quartiere – un team che non sta facendo il proprio dovere – e che sono stato selezionato per andare a risolverla.

“Dove vuoi mandarmi, stavolta?” – gli ho chiesto, ben conoscendo – per averle subite sulla mia pelle più volte – le pratiche brutali di “de-localizzazione” della campagna elettorale. Ha sorriso e me lo ha detto: sarà questa la mia prossima sfida. Non c’è spazio per i pensieri e non c’è tempo per le riflessioni.

Le richieste “dall’alto” sono sempre secche e decise. Il “no” è quasi inaccettabile. Così, a forza di subire quest’atteggiamento, anche io sono diventato così. “Chiedete sempre due volte” – ci hanno insegnato – “e non chiedete mai scusa”. Credo che la campagna elettorale si sia impossessata di me: sia che ordini al ristorante, sia che debba parlare con una ragazza in un bar, ho sempre lo stesso sguardo deciso, gli occhi fissi sull’altra persona, la voce sicura. Chiedo sempre due volte; e non chiedo mai scusa.

P.S.

Ieri, a risollevarci il morale, è arrivato il “job report”, la cifra dell’occupazione che qui è aggiornata ogni mese e che è considerata importantissima per la rielezione di un presidente (nessun presidente è stato mai rieletto con la disoccupazione oltre l’8%; ieri, per la prima volta dall’inizio della crisi economica, la disoccupazione è scesa al di sotto di questa soglia psicologicamente importante.

P.P.S.

Negli Stati Uniti, la competizione per i posti di lavoro migliori è feroce. Questo vale anche per il posto di lavoro più importante, quello di CEO dell’intera nazione. Gli americani non ammettono fallimenti e non concedono seconde opportunità: chi fa male il proprio lavoro va a casa, anche se si chiama Barack Obama e quattro anni prima è stato il primo presidente di colore della storia del paese.

Questa caratteristica, secondo me, da valore alla parola “meritocrazia”. In Italia, molti la utilizzano come scusa: “Se in Italia ci fosse la meritocrazia, sarei amministratore delegato…”. Negli Stati Uniti, è un potente fattore motivazionale: “Devo lavorare duramente, altrimenti qualcuno più meritevole di me mi soffierà il posto”.

Questo è il video che fanno vedere ai volontari presso il Camp Obama:

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