Neologismi

di Chiara Trombetta

Neologismi

di Chiara Trombetta

Neologismi

di Chiara Trombetta

Finestra, specchio, comò, lenzuola, letto.
Libro, occhiali, lenti.
Attraverso.
Due che s’amano fanno una lingua nuova che per poco non assomiglia a quella comune. Miele audace di una menzogna.
Quattro metri per quattro di camera. Ecco perché il posto delle virgole in certi casi è di vitale importanza. Sennò si finisce per inciampare in qualche scarpa disposta qua e là senza criterio, di sbieco tra una mattonella e l’inizio di un’altra. Una foto al chiodo sbagliato e la sintassi s’inceppa. E poi bisogna rimediare.
La gente crede che le pareti si nutrano di luce. Sbagliato. Si nutrono di odore, come l’esperienza. E ci s’abitua all’odore delle giornate, non lo si avverte più se non nella frazione di secondo di un ingresso sovrappensiero. Una camera, una voce, una versione dei fatti. La lingua, si sa, batte dove vuole e finisce per sembrare un accessorio naturale. Pure le consonanti maltrattate, trascinate e soffiate via diventano un vizio che travalica ogni accettazione bonaria e va a insinuarsi nel pane quotidiano. Mi sopravvalutavo, adesso lo vedo. Il giorno prima controvoglia per la strada, orecchie foderate di velluto contro le mosche da riverbero. Il tempo di un’apnea e mi ritrovo questa donna per casa. Persona. Essere umano. Da qualche parte un muscolo sanguinolento che pompa fluidi dolorosi e fragili per mandar avanti la baracca. Dio santo. Sento la mia voce dire frasi che non ho formulato neanche per la mia solitudine privata. Dico l’angoscia. Il suono tronco della mia voce mi irrita. Mi concentro allora sull’iride chiara di fronte, stretta dal disegno luminoso della lampada accesa. Mi sopravvalutavo credendomi capace degli eroismi degli altri là fuori. È bastato poco: un’occhiata nervosa da dietro il bancone di un bar per turisti, le scalette del Duomo, l’afa estiva. Tu che ridi pensando all’inverno, alla possibilità del freddo appuntito che somiglia a un mito lontano. Ti appoggi a me. Non vuoi niente, questo mi è piaciuto subito di te. Per me l’unico niente era quello che sapevo, gli occhi mai ben chiusi, l’incancrenirsi dentro al bozzolo secco. Mi ci vuole una come te, una che esiste, mi dicevo, mentre fissavo il bianco osceno della tua coscia di carta.

Tre attimi di tempo e quella stanza. Gli avanzi dell’euforia della sera, un calendario coi quadri di Hopper. Usi un sacco i due punti quando parli.

Li vedo disegnarsi per aria ogni volta che ti nascono in bocca. Frughi sempre il soffitto con le pupille e poi dici “due punti”, ma lo dici col suono, con un tono che mi strazia, troppo nuovo, eppure già ci ho fatto l’abitudine. Sei di tutti. Sei degli altri. Da qui il guaio. Una specie di gioco a meccanismo segreto di cui posso imparare regole e teoria, ma che mi lascerà sempre con un palmo di naso perplesso. “Sciocco”. Anche questo lo dici spesso, con un senso nuovo, come può essere “gatto” o “scroscio” privo di cattiveria o violenza. Fosse per te, anche il sole o un atomo sarebbero sciocchi, senza rancore né rammarico. Da te ho imparato pure a dire “ginocchio” come “spigolo”. Il ginocchio della porta. Una faccia tutta ginocchia. Sbucciarsi gli spigoli, che ha in sé un che di oscuramente polisemico. Ormai sto attento pure a non fare “i petali” alle pagine dei libri. I libri tuoi, che ti rubavo dalla mensola.

Noi non si mangiava mai, questo l’ho imparato bene. C’è il cibo, e al massimo noi ci si cibava, che già ti pareva troppo. Moriresti di fronte a “una cosa da mangiare”. Sono le cose a toglierti le forze, a farti sparire. Mi hai raccolto per strada perché allora io non sapevo nulla delle cose e non me ne curavo nemmeno. Adesso so che il loro covo, il nido segreto delle cose che piangevi viene da te e non puoi tenertene lontana. È un vortice a ritroso che ha finito per risucchiare le mura, i quadri tarati male, i vestiti opportunamente scacciati nell’armadio.

Anche tu ti sopravvalutavi però, nella convinzione infantile di poter vivere da seme senza bucare mai la superficie della terra per non far male a nessuno, sfruttando le convenzioni momentanee di cemento armato e delle tapparelle abbassate. Col tempo ci abbiamo fatto a palla più del dovuto, abbiamo giocato coi suoi elastici molli. Ma arrivò settembre.

Stanza sul mare lasciò spazio a Ufficio in una piccola città ed io misi in anticipo i vestiti a lutto della tua lingua che batte sui denti. Hopper maledetto.

Annuii a nord-est, un po’ di lato, lasciai il resto al dizionario.

Mi impegnai. Resi le cose meno penose.

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