NAPOLI SIRENA SVENTRATA

di Libera Calise

NAPOLI SIRENA SVENTRATA

di Libera Calise

NAPOLI SIRENA SVENTRATA

di Libera Calise

Dalle mie parti sulle scale mobili ci si ferma a destra, ma anche a sinistra. Si sale prima che gli altri scendano, si buttano le carte a terra, si fanno inversioni di marcia su statali in curva, si tagliano incroci e non si aspetta il semaforo verde, si evita il traffico e si fa a chi fa prima.

Dalle mie parti ci conosciamo tutti fra di noi. Individuiamo il volto di un forestiero da lontano, sia prussiano o spagnolo, sia africano o americano, sia padano oppure arabo. Li riconosciamo, ma non facciamo distinzioni. Il nostro imperativo è essere simpatici, e pure scaltri.

Dalle mie parti siamo molto furbi, ma di una furbizia che si muove entro le nostre mura, pur esportando gesti e lingue.

Abbiamo una lingua che fa invidia: ogni parte dell’ecumene l’adotterebbe e studierebbe. Raccontano che persino Wittgenstein ne rimase affascinato a tal punto che la prese ad esempio per alcune sue dissertazioni.

Dalle mie parti, infatti, siamo colti, oltre che furbi. Di una cultura con cui dirigiamo il mondo, ma che poco ci viene riconosciuta, solo perché da noi la dicotomia è immensa, le contraddizioni sono indicibili, viviamo manifestamente tutti i volti della fortuna, ci sfidiamo in danze dionisiache mentre discorriamo di concetti razionali. Dalle mie parti la civiltà è una storia particolare in un punto dismesso della galassia, in cui mille elementi hanno dovuto per forza di cose abbracciarsi ed intentare una coesistenza. Ne è risultato un mix esplosivo che dà alla testa.
Quando si viene dalle mie parti, si dice, dopo puoi pure morire. E chissà perché si dice!

Anche il nostro sistema di mobilità racconta tutto di noi: abbiamo una metropolitana che consta di due linee, più una in costruzione dagli anni Novanta. Io so solo che una è gialla ed una è blu. So che quando prendo la prima mi catapulto nella Subway di New York, quando prendo l’altra mi sovvengono il passato, il sud del mondo, bistrattato ma valente, Timbuctù e qualche altra zona che nel mio immaginario è rupestre e disastrata.

I circuiti paralleli non li considero nemmeno, mi fanno pensare ad un carro che trasporta mucche da latte tutte attaccate ai propri smartphone. Però è piacevole osservare la gente che s’ammassa o che s’aiuta, che si confronta sugli orari o sulla spesa, che si confida su dolori o nuovi amori. Meno piacevoli sono gli eventi crudi, che ad ogni modo bisogna mandar giù. Dalle mie parti siamo abituati a prenderci tutto, il buono e il cattivo tempo, ché non si sa mai cosa può accadere.
Siamo nati col mare davanti, il golfo più bello del mondo, e con una montagna alle spalle. Non una montagna qualunque: la nostra è un dio del fuoco, sinonimo di morte istantanea. Perciò ci crogioliamo in un’eterea e costante distruzione. Siamo addestrati a vivere in società barbariche che rendono la nostra vita sempre aperta ad ogni avvento.

Per questi motivi, per simboli d’infinito e di comunicazione come il mare, di morte e d’accettazione di essa come il vulcano, incarniamo la supremazia di una filosofia di vita che ci rende disperati ma imperturbabili.

Per questi motivi si adorano santi e statuette, ci si ingraziano entità del sottosuolo, si aspetta il sole, si accolgono i nemici, si accarezzano i diversi, si va a mangiare con sconosciuti e si lasciano caffè pagati per chi dopo di noi s’appoggerà al bancone.

Quelli delle mie parti si sanno in tutto il mondo, ma si sa poco di quest’angolo di terra. Perché la mia città è come un abito unico, famoso, carico di sfide e ricco di colori, dalle taglie troppo grandi con una calzabilità troppo elasticizzata, un abito che non si lava da millenni ma sempre profumato, che necessita di un lungo allenamento per portarlo con agio. È un pezzo unico, con cui chiunque potrebbe e dovrebbe farsi un giro. Però è anche costoso. Costa lacrime e sudore, soddisfazioni e carezze. È pena e salvezza.

Dalle mie parti non si smette di imparare nemmeno dalla tomba ed il cuore mai si ferma dal restringersi e dilatarsi, sempre di nuovo, scena dopo scena. Dalle mie parti, se non ci fossi nata, vorrei di sicuro rinascerci, perché ciò che sono è frutto di questa lunga relazione, che solo ora inizio ad accettare e ad apprezzare.

Quando vado in giro per la città e torno a casa vorrei raccontare a tutti cosa ho visto, quello che ho fatto, vorrei inviare gli odori che ho sentito e fotografare la realtà che mi ha colpita. Ma non trovo parole, non ho abbastanza carta: non c’è modo di descriverla rendendole la giusta figura. Imprimo il ricordo del sentimento e vado avanti, conscia che qui ognuno ha il proprio modo di vivere e ringraziare un altro giorno saporito.

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