MOZART E STREHLER: DELL’ELEGANZA. LE NOZZE DI FIGARO ALL’OPERA DI ROMA

di Valerio Tripoli

MOZART E STREHLER: DELL’ELEGANZA. LE NOZZE DI FIGARO ALL’OPERA DI ROMA

di Valerio Tripoli

MOZART E STREHLER: DELL’ELEGANZA. LE NOZZE DI FIGARO ALL’OPERA DI ROMA

di Valerio Tripoli

 

La stagione dell’opera romana prosegue, questo maggio, con un titolo di punta della storia del melodramma, Le nozze di Figaro ossia La folle giornata (K 492), prima collaborazione tra Wolfgang Amadeus Mozart e il librettista veneto Lorenzo Da Ponte. Come era da aspettarsi, il teatro ha aggiunto due recite alle già programmate sette, portando a nove il numero delle serate in cui il pubblico della capitale potrà assistere alla rappresentazione. Essa è anche la prima in cui il nome del maestro Giorgio Strehler figura in cartellone: tardivamente, e pure finalmente, il teatro Costanzi si colora dei pannelli di Ezio Frigerio e dei costumi di Franca Squarciapino, prestati dal teatro alla Scala, parte integrante della regìa di Strehler, pensata negli anni Settanta per Versailles e poi approdata alla Scala, che ora, fino al 3 Giugno prossimo, porrà davanti agli occhi del pubblico romano uno tra i più belli allestimenti operistici del Novecento, di sempre.

Dopo dieci anni, Le nozze di Figaro tornano così in Roma nella loro veste migliore. Si potrebbe descrivere ogni singola scena, ogni singolo quadro, ma non lo si fa per un semplice motivo: il pubblico vedrà da sé la maraviglia settecentesca rivivere sul palcoscenico, e la maraviglia o si evoca con la poesia o non si può descrivere. Ma se si desiderasse avere pur una qualche idea, un consiglio: si apra il libretto delle Nozze, che come gli altri due scritti da Da Ponte per Mozart segnano l’apogeo dell’arte librettistica all’italiana (eguagliati al massimo solo da pochi libretti di Arrigo Boito, un secolo dopo), e si scorrano le note scenografiche, al principio di ogni quadro: ogni parola di Da Ponte sta sulla scena. Ogni cenno del librettista ivi si ritrova, ma non con pedissequa filologia, non come chi, arrendendosi al libretto, ne esegue inconsapevole ogni indicazione. Niente di tutto ciò: sulla scena sta la maestria di Strehler che coglie il senso intimo del teatro, di questo teatro, e lo fa artifizio. Il Settecento è reso scenicamente come non mai, e l’abbraccio di tutte le maestranze, dal costumista allo scenografo, dal parrucchiere allo stuccatore, dal pittore all’ebanista, tutti con la medesima dignità, sì come aveva originato il melodramma barocco, concretano adesso, sulle scene del Costanzi, l’essenza stessa del melodramma, e tutte le immagini che ognuno serba in sé dell’opera come genere musicale, veri e proprî luoghi comuni, qui si sublimano, si elevano. Il pubblico entrerà per assistere ad un melodramma. Uscirà con la nostalgia del secolo dei Lumi, come dopo una lezione di arte. 10432939_1166045070078037_2961564958970860548_n

Il libretto è tratto da Le mariage de Figaro di Beumarchais, e costituisce il secondo dramma della Trilogia di Figaro, che si apre con Il barbiere di Siviglia e si chiude con La madre colpevole: dei tre, quest’ultimo è un dramma morale, ed ha avuto meno fortuna. Il barbiere di Siviglia fu messo in musica da Giovanni Paisiello nel 1782, e brilla nella storia del melodramma di stile napoletano. Poco dopo, nel 1786, Mozart musicò Le nozze. La parabola sembrava così chiusa trionfalmente. Ma nel 1816 Gioacchino Rossini rovescia il vulcano che lo alimenta sul primo dramma della trilogia, gareggiando con il brillante Paisiello: la storia dà ragione a Rossini, e il suo Barbiere di Siviglia è quello che sta nelle orecchie di tutti. Non di Stanley Kubrick, che quanto a Settecento dimostra di saperne almeno quanto Strehler, ponendo in Barry Lyndon una serenata, che viene sì dal Barbiere di Siviglia, ma da quello di Paisiello.

Si venga per breve tratto all’argomento. I temi di Beumarchais erano marcatamente politici: contrapposizioni di ceti, figure di servi esemplari, ingenuamente ignoranti, o astutamente arguti, come già nella commedia greco-latina, accanto a depravati signori che vivono nel lusso, che leggono scabrosità, che sembrano venuti fuori da un medioevo senza tempo. Da Ponte e Mozart mantengono tutto questo, ma lo trasfondono l’uno in un testo letterario di una modernità sconcertante, l’altro entro una levigatezza musicale ove forma è sostanza, e sostanza la forma (e sul genio di Mozart poco si ha, ancora, da insistere), sì che tutte le situazioni che si mettono in scena non divengono mai didattici pretesti per tirate morali poco interessanti, piuttosto conservano una intrigante attualità, una ingenua freschezza, che proiettano lo spettatore sulla scena, lo trasformano in invitato privilegiato ad una festa, e quando nel finale ultimo tutti i personaggi prorompono nel gioioso «Andiamo a festeggiar», sembra davvero che allo riaccendersi delle luci lo aspetti la festa. 11015219_1166301846719026_5071056578337211453_n

Il conte d’Almaviva tresca con le serve, e desidera pure Susanna, promessa sposa di Figaro, al soldo pure lui del conte. A questi tre personaggi fanno da contorno tutta la schiera dei famigli del conte, da Barbarina, servetta, a Cherubino, esempio dell’amore efebico, mezzosoprano en travesti, cui sono affidate alcune tra le più belle arie dell’opera, ad Antonio, comicissimo personaggio che complica ingenuamente ogni situazione già compromessa. Bartolo e Marcellina, che poi si scoprono essere i genitori di Figaro, operano nei primi due atti contro l’astuto servo, complici del conte d’Almaviva, che fa di tutto per allontanare il matrimonio di Figaro con la desiderata Susanna. Don Basilio, prelato, si aggiunge alla già fitta schiera. Su tutti spicca la severità aristocratica della Contessa, l’irriconoscibile Rosina del Barbiere di Siviglia (tanto che, quando il conte la chiama Rosina, ella risponde: «Più quella non sono»), che irradia una reverenza che si trasferisce alla musica, che a lei si riferisce spesso come a un personaggio da opera seria, quali Mozart aveva sempre, fino alle Nozze, composto. Tutte le situazioni si godono con facilità in teatro, sì che non occorre qui esporle: si ricordi solo che il Finale, vero prodigio scenico, è capolavoro musicale, e stupore dell’ingegno, se è vero che Mozart lo compose in una notte, un giorno e una notte ancora.

Roland Böer è accurato direttore d’orchestra. Accompagna nei recitativi secchi i personaggi al clavicembalo, e rende all’opera la giusta veste musicale: libera da pastoie non mozartiane, il suono si libra libero e classicamente composto, incisivo quando occorre, oculato sempre. Le note dolenti intervengono però nei finali, che riuniscono sulla scena quasi tutti i personaggi, e ispessiscono l’orchestrazione, fino alle strette conclusive. Qui, ove Mozart dà potenza espressiva, pur nella tornita compostezza che fluisce dal suo genio, Böer si fa sfuggire il comando, e gravemente palcoscenico e golfo mistico dell’orchestra sono fuori tempo, sì che la zuffa, scenica, si fa anche musicale, vocale. È il grave limite di un direttore che però raggiunge spesso vette interpretative, sin dalla famosissima ouverture dell’opera, una vera delizia nelle dinamiche, un guizzo autentico dalle corde di tre secoli or sono.

Le migliori in scena sono Susanna, Rosa Feola, dalla vocalità ridente, con un ottimo fraseggio, che spicca nei recitativi, e la Contessa, la splendida Eleonora Burrato, con una voce enorme, che perde talora l’occasione di eseguire i giusti pianissimi richiesti alla parte, ma guadagna un protagonismo assoluto, complice anche una degnissima presenza scenica. L’aria del III atto, «Dove sono i bei momenti», con variazioni nella ripresa e un magnifico oboe di accompagnamento, è eseguita perfettamente, e porge allo spettatore una scena senza tempo, con la bella figura con parrucca bianca e abito rosa al centro del palcoscenico, in una posa che troppo spesso i moderni registi schifano come banale, e che invece è eterna, tanto è classica, tanto è bella. 11216592_1166559756693235_6908391909138207107_n

Michaela Selinger è Cherubino: belle corde, buon carattere, ma stentoreo fraseggio, e si assesta ad un livello intermedio. Di Barbarina, invece, Damiana Mizzi, si segnala il breve solo in scena all’atto IV, e dalla piccola parte emerge una notevole, adeguata interprete.

I migliori uomini sono Don Bartolo, basso buffo, Carlo Lepore, eccelso già nella patetica Manon Lescaut dello scorso anno, che nell’aria del I atto brilla come poi per tutta l’opera, e Don Basilio, Matteo Falcier, che esegue beatamente la spesso tagliata aria al IV Atto, con i corni protagonisti, a riprodurre la tempesta, vera aria di bravura. Il conte d’Almaviva, Alessandro Luongo, non eccelle in nulla, ma non ha particolari demeriti, e delinea una parte tutto sommato onorevole. Si segnali anche Antonio, Graziano Dallavalle, comicissimo e bravo, dall’ottima presenza scenica.

I Cori di contadine dànno solidità all’opera, e questo Coro, sotto la direzione di Roberto Gabbiani, meriterebbe ben altro che il tutto sommato modesto contorno dell’Opera di Roma. Si noti anche il corpo di ballo del teatro, che al III Atto svolge una bella e garbata controdanza, a tempo di ballo.

Il resto, sprofonda, chi più, chi meno. Don Curzio, Saverio Fiore, notaio, ha una breve e comica parte: comico, lo è, con il suo tartagliare riuscitissimo. Ma negli insiemi il suo nasale timbro tenorile spicca troppo, con fastidio, e si assomma alla confusione in cui piomba purtroppo ogni finale. Marcellina, Isabel De Paoli, fortunatamente non canta la sua non facile aria al IV atto: stonata, stentata, ringrazia per il salvifico taglio.

Figaro, Markus Werba, non è decente. Non è perdonabile. Nel corso dell’opera canta arie in maniera appena accettabile, che non gli permettono di guadagnare i consensi finali che il teatro dell’Opera concede sempre con troppa lascivia a ognuno. Ma è indegno nel primo quadro del I atto. La corde poco riscaldate mostrano a ognuno come la voce non abbia un minimo di sostegno, una ben che pallida ombra di impostazione: nei bassi, Werba ingrossa e grida, come fosse un pessimo compar Alfio nella Cavalleria; le note alte, pallidi, deformi. Il fraseggio, inconsistente. E poi, «Se vuol ballare, signor contino, il chitarrino le suonerò», che Figaro intona una prima volta proprio nel primo quadro dell’opera e, in eco, al II atto: la chiusa è gridata, e non in pianissimo, come è scritta e come anche una poco accurata sensibilità di interprete suggerirebbe di cantare. E infatti due colpi di mani, al I atto, a far partire un applauso, sono troncati da inflessibili, secchi, dissensi dall’alto delle balconate. Peccato, perché questo allestimento era ciò che serviva per consacrare un nuovo Figaro, o per illustrare al meglio i buoni cantanti che della parte hanno fatto una loro specialità.

Insomma, si invitano i signori e le signore in Roma in questo crepuscolo di maggio a recarsi nella sala teatrale del Costanzi, e prendere posto, a godere di un incanto scenografico, registico. Eccetto poche sgrammaticature, che vivono con l’opera, e dimostrano in ogni caso che l’opera è viva, si ha di fronte un secolo, la sua sensibilità, il suo estro, la sua tornita eleganza, la sua arte. I suoi sogni.

di Valerio Tripoli

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