Mia madre non sa cucinare

di Let It D.

Mia madre non sa cucinare

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Mia madre non sa cucinare

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Hanno suonato alla porta stamattina. Mi hanno consegnato un pacco di medie dimensioni con lo scotch attorno, quello grande e marrone. C’è il mio indirizzo scritto in blu, una grafia che conosco ma che mi sembra lontana e flebile, come fosse l’eco di una storia udita una volta soltanto. Apro il pacco, c’è scritto di stare attenti perché è fragile e perché contiene cibo. Dentro, un’altra scatola, stavolta è bianca, con uno spago intorno. Mi chiedo chi possa avermi mandato del cibo, non ho parenti che hanno questa abitudine o piacere. E non ho ordinato nulla. Certo, un paio di giorni fa è stato il mio compleanno. Sollevo la scatola per aprirla e cade un foglietto, bianco a quadretti, rettangolare: “Ho sgusciato le noci una ad una. Auguri, mamma”. Mia mamma mi ha fatto una torta per il mio compleanno! Come è possibile? Mia madre non sa cucinare. Poi chissà perché non sa cucinare… dice che la annoia a morte, lo stesso effetto che la domenica sportiva fa alle signore che giocano a bridge. Quando era meno diplomatica affermava che si trattasse di un vero e proprio odio quello che la animava nei confronti dell’arte culinaria. Mentre la sua di madre, una donna grassoccia e rossiccia tutta tette e sedere, le insegnava a tirare la pasta lei contava i fagioli secchi nel barattolo di vetro sopra la credenza. Deliberatamente ignorava le indicazioni, tanto a sua madre non interessava, lei la pasta la doveva tirare comunque. Ha imparato l’arte della dissociazione in quei lunghi pomeriggi: metà di sé era lì, l’altra chissà dove, al rifugio da occhi indiscreti.

Vanna, questo è il nome di mia madre, era una donna a metà tra il bello e il brutto – dico era perché non la vedo da una primavera di quindici anni fa – dai lineamenti anonimi e di raro memento ma con un bellissimo sorriso. Era ingenuo, nasceva lentamente ed era silenzioso nell’espressione. Sono sicura che ce l’abbia ancora. Nonostante le labbra fossero piccole, esse si aprivano grandemente su denti perfettamente bianchi e diritti. Le ho chiesto se avesse mai portato l’apparecchio e lei mi ha detto di no, che i denti le sono diventati così spontaneamente. Credo che dovesse a suo padre quel sorriso perfetto. Non perché lui fosse portatore del medesimo dono ma perché era un uomo duro e severo; sono certa che mia mamma non abbia mai riso nella sua infanzia e che i denti non si siano potuti consumare alle intemperie della vita e delle passioni. I suoi occhi, invece, erano minuscoli, trascurabili fessurine sul mondo: attraverso di essi si vedevano solo attimi e nulla più. Niente orizzonti, niente angoli, solo punti diritti e concisi, senza fronzoli.

Si sa poco della sua vita prima che diventasse mia madre; nessuno la conosceva perché viveva in un appartamento tra tanti, nella palazzina G del grande comprensorio di via del Meriggio numero 6, un edificio tutto attraversato da corridoi interni che correvano tra i plessi enormi, con tanti cortili che sembravano sempre nuovi o sempre diversi. Non è mai uscita da lì, c’era persino una scuola all’interno. Questo serpentone di abitazioni, alle prime luci dell’alba, d’inverno, sembrava piuttosto un cumulo di loculi, anch’esso in cemento armato, calmo e tranquillo, affinché da dentro non potesse fuggire nulla ma tutto vi rimanesse nel tempo, per essere ogni volta cercato e ritrovato.

Quando mia madre andò via da lì lo fece senza mai voltarsi, senza valigie, di lei si diceva che non avesse storia o che la sua fosse troppo brutta per essere ricordata. Prese il primo treno che passò alla stazione ferroviaria che avevano costruito nel corso di lunghi anni e di innumerevoli intoppi proprio di fronte all’enorme comprensorio. È sempre stata convinta che se perdi un treno non ripassa più. È la sua unica certezza e la sola che ha seguito nella sua vita. E così ha fatto, ha preso il primo treno che si è fermato nella stazione antistante le infinite palazzine, senza sapere dove portasse, senza pretese né pensieri, come chi non ha avuto lo spazio per costruire aspettative, sogni e, men che meno, desideri.

Il treno la portò in uno squallido paese di periferia, abitato da rozzi cittadini, per lo più magazzinieri, vi risiedeva un solo autotrasportatore. Mia madre scese lì dietro gentile invito del controllore che la trovò senza biglietto e senza scuse plausibili. È una strana storia perché quel paese, già piccolo e anonimo, era stato raso al suolo da un incendio appiccato dal sindaco per risolvere i danni di un’invasione di cavallette verificatasi nel corso di una lunga e torrida estate. Il sindaco aveva la fobia delle cavallette e, incapace di prendere decisioni ponderate, aveva optato per dare fuoco ai campi che circondavano il paese e, non abbastanza sicuro che fosse sufficiente, anche agli orti tra una casa e l’altra e persino alla piccola villa comunale, unico spazio verde di condivisione per quegli sfortunati abitanti. Un vento caldo di scirocco aveva iniziato a spirare forte quei giorni e le fiamme si erano alzate senza controllo e senza maestro. Gli abitanti fuggirono dalle case, con la certezza che quel posto fosse maledetto e che le cavallette fossero la loro piaga, la loro colpa da espiare. Senza terra e senza casa, però, non si mossero e non ricostruirono. Non fecero come gli ebrei d’Egitto che ancora vagano in cerca della terra promessa, in questo senso furono avveduti. Ma nemmeno permisero al movimento di soverchiare vecchie leggi e antichi dettami. Loro misero le toppe; non cambiarono di una virgola, semplicemente aggiustarono come poterono. E installarono intorno alla cittadina grandi magazzini prefabbricati, al posto dei campi bruciati – nell’erronea convinzione che fossero oramai infecondi – ne montarono più di cento, alti e lunghi come navi da crociera con l’idea di farli divenire i depositi delle merci di tutta la regione circostante. L’idea l’ebbe il sindaco di cui sopra, quel brillante individuo che non si permetteva di perdere nulla e, per questo, di possedere alcunché, figuriamoci un po’ di sale in zucca. Così quel paese che da anonimo passò a diventare brutto, divenne il magazzino di tutta la ragione e lo divenne fino ai confini con il mare salato. Ogni giorno veniva gente a lasciar roba e altra a riprenderne, della più svariata tipologia. E nessuno, in quel brutto posto, si ingegnò in altra attività che non fosse quella di accatastare, registrare e conservare la merce. Mia madre arrivò in quel paese e fu subito impiegata a fare i conti del magazzino 42, quello adibito alla conserva del cibo in scatola. Non so se le piacesse stare lì, mia madre non era una persona che si lamentava, credo che non sapesse neanche farlo. Piuttosto non si faceva domande. Fu così che conobbe mio padre, fuggì con lui perché era l’unico autotrasportatore tra tutti magazzinieri. Il treno passa una volta sola o, come quella volta, fu il camion a passare e lei vi balzò sopra, non esitò neanche il tempo di chiedersi perché quell’uomo non aveva i calli sulle mani, i calli di chi tutto il dì e tante notti al mese tiene le mani incollate al volante. Mio padre non faceva né il magazziniere né il trasportatore, amministrava il magazzino 100, quello con i vestiti di scena. Lo amministrava nel senso che trascorreva tutto il giorno a misurarli quei vestiti pomposi con la scusa di catalogarli. Quel giorno voleva provare il nuovo camion di un suo amico, un tale Arnaldo, il più ricco del paese e unico trasportatore tra i cittadini. E Vanna aveva preso il treno, o il camion che dir si voglia.

Sono andati a vivere vicino ad un aeroporto, una zona anonima direi io, franca a parer loro, al riparo da occhi noti e da vecchie storie. Era strano il loro rapporto perché mia madre stava sempre zitta mentre mio padre riempiva gli spazi e i silenzi con l’urgenza di chi non è mai stato ascoltato. Mia madre, come dicevo, era una donna silenziosa e il suo tono di voce era flebile e monotono, come intriso di una stanchezza antica, mai evasa, mai recuperata.

Esistetti subito nella vita di questi due esseri; in realtà loro non lo sapevano. Solo da grande ho capito il mio odio per gli alimenti proteici di natura animale, quando lessi dal diario di mia madre che, quando era incinta, in realtà stava facendo una dieta iperproteica e mangiava solo carne e uova, sia a pranzo sia a cena. Per questo sono vegetariana. Ad ogni modo, quando scoprì di aspettarmi limitò il suo regime di alimentazione iperproteica, suo malgrado, in quanto la dieta stava funzionando ma, immediatamente, cominciò a fare degli strani sogni: sognava di me che nascessi con tre teste o verde di bile, o con le parole al contrario, come certe persone che si parlano dentro e non si lasciano mai capire da anima viva. Mi sognava così e se è vero che tutto nasce da un sogno, così è iniziato il nostro rapporto. Mi sono sempre chiesta cosa pensasse di me. Non ha mai espresso un parere, un apprezzamento, neanche una critica, almeno mai direttamente. Ma mi guardava con un misto tra sdegno e sospetto, in un clima sospeso. Si occupava di me solo il sabato quando mi accompagnava in piscina nella sua fiat centoventisette color bianco sporco; non saliva sugli spalti a guardarmi nuotare ma la trovavo puntuale all’uscita con il panino burro e miele, con lo sguardo distratto e la fretta di chi doveva portare a termine il suo compito. Durante il tragitto non mi chiedeva mai nulla; una volta la maestra di nuoto mi lasciò un foglietto da farle recapitare perché non sapeva come convincermi a fare i tuffi di testa e, soprattutto, a farmi smettere di parlare quando, agitata, mi sporgevo dal bordo della vasca. Non so se mia madre rispose mai ma so bene che dal sabato successivo fu mio padre che divenne il mio autista per la lezione di nuoto del sabato pomeriggio.

L’ho sentita liberarsi in una fragorosa risata solo una volta quando – ero già grande – osservando una addetta alla biglietteria andarsene nel bel mezzo del turno in preda ad una vera e propria crisi esistenziale, ho provato a dare un’interpretazione del caso, accomunandomi ad altri esperti del settore e sicura di quanto stavo affermando. Ci tengo a specificare che mi sono definita un’esperta del campo umano in generale e non delle crisi esistenziali. Faccio la psicoanalista e vanto oltre alla laurea e alla specializzazione, due dottorati, due master, due corsi di perfezionamento e trentasei pubblicazioni su prestigiose riviste. Mi piacciono i numeri pari. Vista la risposta di mia madre forse dovrei annoverarmi anche come esperta nel campo delle crisi esistenziali. Forse è per questo che faccio la psicoanalista.cucinare

Adesso che ci penso, so ben poche cose anche dopo che Vanna è diventata mia madre. È stata lì con me per qualche tempo ma non ricordo nulla, la mia memoria non mi aiuta molto a ricostruire le forme di quella donna silenziosa e guardinga. Una sola cosa ricordo bene perché mi faceva sentire diversa da tutti i miei amichetti e perché non collimava con quelle belle pubblicità patinate che vedevo alla TV, anche se per una sola minuscola mezz’ora al giorno: mia madre faceva cucinare mio padre e tornava sempre due minuti dopo l’inizio della cena. Non che facesse un lavoro importante parliamoci chiaro, solo non le andava di stare in casa. D’altronde, competere con mio padre era davvero dura, era un uomo esibizionista. Lui amava essere guardato mentre faceva le cose e adorava che si parlasse di lui e delle sue doti: ha relegato tutta la sua cura nella somministrazione del cibo, chissà, forse era convinto che saziasse anche i sentimenti. Solo che non aveva mai potuto imparare che a me non piaceva la carne, per via dei miei trascorsi intra-uterini.

Per questo mia madre si teneva alla larga dalle esibizioni di questo ingombrante marito. Ha capito subito che non ce l’avrebbe mai fatta e che il prezzo da pagare sarebbe stato troppo alto. Così, come un giocatore a fine carriera, si è ritirata prima della grande gara ed è rimasta a guardare. Solo che mia madre non ha mai avuto una carriera, ha solo pensato di iniziare, ha solo letto le regole e ha desistito. Ha guardato mio padre crescere sua figlia e riempire giorno dopo giorno la casa di desideri egoistici e di passioni posticce e finte come le parrucche lucide di vecchie e consumate soubrette. Non ha protestato, credo sia stata la sua educazione cattolica e contadina, un mix pericoloso che ti costringe ad accettare qualsivoglia cosa capiti non perché ti porterà un dono futuro ma perché direttamente derivante dalla tua miserrima condizione di partenza. I poveri non possono permettersi di guardare al futuro; portano il peso di passati granitici e il procedere nel presente non è agile: è severo e greve, difficile da comprendere.

Un giorno è andata via. Avrò avuto quindici anni, forse sedici. Da quella volta l’ho incontrata solo un’altra volta per caso alla stazione, sempre alle prese con questi benedetti treni, è lì che ho assistito alla fragorosa risata e decretato la mia expertise nel campo delle crisi esistenziali.

Andò via come se non fosse mai esistita … è strano come l’odore di una non presenza si cancelli in fretta dagli armadi, dai cassetti e come la fossa sulla poltrona preferita riprenda subito vigore e capacità di accoglienza.

Mio padre, dal canto suo, non seppe mai spiegarmi perché lei andò via così, d’improvviso, a primavera, in un mercoledì qualunque, in un giorno come tanti. Forse non lo capì neanche lui. A modo suo tentò di consolarmi e mi preparò un bel pranzo d’autore, tonnarelli al ragù e agnello in crosta. Peccato che ero sempre vegetariana.

Mia madre mi ha spedito una torta per il mio compleanno. Ha combattuto il suo odio per la cucina. Ho veramente tanto apprezzato quel gesto. Mi ha preparato una torta al cioccolato con le noci che ha sgusciato una per una. È un po’ ricurva nel centro e bruciacchiata ai lati ma nel complesso sembra proprio una torta. Non mi sarei mai aspettata quel gesto. Ne taglio una bella fetta grande, voglio recuperare tutte quelle che non mi ha mai preparato. Do un bel morso sicuro, con la bocca aperta e gli incisivi pronti a definire l’ingombro del sapore che di lì a breve mi riempirà. Sento un crunch e un bel pezzetto di incisivo superiore vola fuori dalla mia bocca.

Non importa mamma, i miei denti non erano comunque né dritti né perfetti, ne ho fatte di risate in questi ultimi anni di vita … e quanto amore ho rubato, quanto ho cucinato e quanto ho mangiato fuori dalle mura di casa, lontana da te, lontana dai tuoi occhi piccoli e dal tuo sorriso nato dalla tristezza. E poi mamma non è come pensi tu, le cose importanti sono come i treni ad alta velocità: anche se perdi il primo c’è n’è uno ogni ora che passa, si può sempre recuperare.

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