Meno sei. Un racconto “(chemio) terapico”

di Giulio M. Giglio

Meno sei. Un racconto “(chemio) terapico”

di Giulio M. Giglio

Meno sei. Un racconto “(chemio) terapico”

di Giulio M. Giglio

Meno sei”. Alessia sorseggiava il caffè guardando fisso il calendario con l’annotazione relativa al giorno seguente. L’indomani sera ne sarebbero mancate sei.

Tornò in stanza, si tolse la camicia da notte e restò nuda davanti allo specchio. Guardò sé stessa, come ogni giorno, partendo dal basso e risalendo. Rimase così circa un minuto.

Era indubbiamente una bella ragazza, 35 anni, fisico asciutto ma sodo, consulente esterna per una grande azienda, una buona posizione, un bel conto in banca…e un tumore.

Le era stato diagnosticato un anno prima. Si era da poco trasferita a Milano dopo essere stata promossa dalla sua azienda. Un fastidio, un check up ordinario, la chiamata per la necessità di un appuntamento, il viso impassibile del medico mentre, senza guardarla negli occhi, la invitava a rivolgersi a un oncologo e, nel vedere il suo sguardo tra l’interrogativo e lo spaesato, le diceva – in modo sterile – quella frase che suona come una condanna che chissà quante volte aveva ripetuto e quante vita aveva devastato: “Signorina, lei ha un tumore”.

Non voleva dire nulla in Ufficio. Sapeva che in un’azienda di quelle dimensioni, nonostante la sua posizione, prima di essere una persona rappresentava soltanto un ingranaggio. E gli ingranaggi vanno oliati quando servono e se possono ancora essere funzionare. Ma, quando diventano difettosi, vengono facilmente sostituiti.

E il suo contratto di consulenza non le avrebbe concesso nessuna garanzia. Non esistevano malattie o aspettativa e non esisteva alcuna tutela contro il licenziamento. Non voleva fronteggiare i Colleghi: avrebbe tenuto tutto per sé, usufruendo degli dell’autonomia e dell’assenza di orari che le garantiva il suo lavoro per sostenere tutte le cure.

Tornò a Roma per fissare il primo intervento (le avevano premesso che, probabilmente, ne sarebbe serviti due) e per trovare il conforto dei suoi genitori, di sua sorella, degli amici più cari e del suo ragazzo, Marco.

Non lo disse a nessun’altro. A Milano viveva da pochi mesi e aveva poche frequentazioni.

Dopo l’intervento iniziò la chemioterapia. Le prime due sedute furono un incubo: perse peso, vomitava, della sua lunga chioma bionda non c’era più traccia.

Fu qualche giorno dopo la seconda seduta di chemio che Marco le disse che dovevano lasciarsi, che l’amava tanto e che questo suo amore non gli permetteva di vederla così deperita. In altre parole, “non ti amo, la tua malattia mi fa paura e non voglio condividerla con te.”. Lei l’aveva capito già qualche settimana prima quando aveva notato che era cambiato, aveva notato come la guardava – o meglio come non la guardava – e, nelle poche occasioni in cui facevano sesso, aveva notato i suoi occhi chiusi o il suo evitare a tutti i costi di guardarle il viso o sfiorarle la parrucca o – peggio ancora – la testa calva quando la parrucca si staccava. Marco aveva paura. “Credi che io non abbia paura?” disse tra sé e sé, digrignando i denti per la rabbia.

Tutti i suoi pensieri vennero interrotti dalla sveglia del telefono. Tra due ore aveva la riunione in azienda.

Si truccò, si infilò un tailleur, si sistemò la parrucca e uscì di casa. Con la sua Bmw Z4 arrivò in pochissimo tempo.

Al parcheggio, mentre scendeva dall’auto le venne incontro un dipendente:

  • Dottoressa, buongiorno! Anche oggi con questo caldo non apre la capote?

Sfigato di un ciccione ma i cazzi tuoi no? Ho un tumore, ho una parrucca e se apro la capote sfrecciando con l’auto con il vento vola via! E tu, che non fai altro che fare gli occhi da pesce lesso con me, mi guarderesti inorridito. Ho soddisfatto la tua curiosità ora?”. E invece non rispose cosi. Cosi come avrebbe voluto. E, con un sorriso, gli disse che preferiva l’aria condizionata.

Quel suo collega non aveva colpe ma l’incontro le confermò che sarebbe stato meglio se continuava a ridurre al minimo le frequentazioni e le uscite: voleva che ciò che stava vivendo restasse riservato. Ma le uniche conoscenze che aveva a Milano erano collegate in qualche modo al lavoro e, pertanto, questa sua scelta, la portava a uscire sempre meno. Del resto come giustificare la nausea, la disappetenza, la stanchezza, l’identica acconciatura con quel medesimo colore o il suo evitare gli alcoolici?

A lavoro nessuno si era accorto della sua perdita di peso, dei suoi cali di pressione e della sua parrucca. Le colleghe badavano a parlare dei rispettivi weekend fuori e i colleghi erano più troppo presi dal suo sedere per notare la parrucca.

Si decise che fuori dal lavoro era meglio frequentare – saltuariamente – gente anonima. Dopo essere stata lasciata da Marco aveva iniziato ad usare un’app per conoscere ragazzi della propria città. Ma tra la cura, il lavoro, la stanchezza e i weekend trascorsi giù – tra le persone che davvero la amavano (ciò che lei definiva “la mia vera chemioterapia”) – gli appuntamenti conclusosi erano stati pochi, dei quali la maggior parte con gente poco interessante o che dopo l’aperitivo le proponevano subito “andiamo da me?”. Un paio di volte ne era valsa la pena. Spesso capitava di non sentirli più.

In un’occasione uscì con un ragazzo diverse volte, era più piccolo di lei e l’aveva conosciuto alla nuova officina dove aveva portato la sua Bmw; lui lavorava lì. Non era certo il tipo con cui fare discorsi interessanti o culturali ma era piacevole e la faceva sorridere.

Una sera Alessia decise di dimenticarsi la prescrizione dell’oncologo circa gli alcolici ed era su di giri: volle aprirsi con lui e,così,gli disse che aveva un tumore, che tra qualche giorno aveva il 4° ciclo di chemioterapia e che, se voleva, avrebbe potuto accompagnarla. Lui si rivelò l’ignorante che era: la prima cosa che le chiese, con tono agitato, fu se il suo tumore era di tipo contagioso e se l’aver fatto sesso poteva averlo messo in pericolo.

Si rimproverò per essersi confidata con qualcuno e si disse che non sarebbe più successo. Avrebbe continuato a tenersi tutto dentro. Nessuno avrebbe saputo.

Rientrata dalla riunione preparò la cena e andò a dormire.

Durante la notte, come accadeva spesso soprattutto alla vigilia di un ciclo di chemio, si svegliò di colpo e, istintivamente, in dormiveglia cercò con la mano qualcuno accanto a sé..si accontentò del cuscino a fianco, se lo abbracciò e dormì qualche altra ora.

A colazione si fece forza guardando il calendario: meno sei! Appena uscita da casa l’afa degli ultimi giorni di luglio a Milano si fece sentire: reprimere la tentazione di schiacciare il pulsante per aprire la capote non fu facile.

Ora si trovava in sala d’attesa nel reparto di oncologia. Le diedero un biglietto con un numero: 38. Erano al n. 25, questa volta non avrebbe aspettato molto.

Di solito il numero lo si prende in posti in cui si attende il proprio turno per qualcosa di piacevole, come ad esempio per essere serviti in pasticceria. E Alessia non riusciva a pensare alla chemioterapia come ad un dolce. E non la aiutava seguire il consiglio che si ostinavano a darle in molti “pensa a chi sta peggio di te, a chi ha i mesi contati o a chi è in una situazione più critica”. Alessia aveva sempre odiato quel genere di ragionamento: tirarsi su pensando alle disgrazie altrui, a chi è più sfortunato.

Certo, in quel momento quel consiglio avrebbe potuto metterlo in pratica facilmente. Di fronte a lei c’era un paziente sulla sedia a rotelle, con lo sguardo fisso nel vuoto. Era accompagnato da una ragazza – probabilmente la figlia – che cercava disperatamente di sostenere una conversazione ma lui rispondeva con brevi frasi apparentemente senza senso. Probabilmente il male del secolo aveva aggredito il cervello. Accanto a sé, invece, c’era una persona che tossiva continuamente e parlava con difficoltà: “tumore ai polmoni” pensò.

Ma tutto questo non la aiutava affatto.

Dall’altra parte della sala d’attesa c’era invece un signore, vicino ai settanta, che doveva essere arrivato lì solo ma che conversava con tutti e dispensava battute. L’aveva notato anche in un’altra occasione un paio di mesi prima: sgranocchiava una merendina sorridente e sembrava voler tentare di sollevare l’umore dei presenti; se davvero aveva questo obiettivo in una sala d’attesa di oncologia, bisognava riconoscergli di essere davvero coraggioso. In quell’occasione aveva da subito escluso che fosse un paziente in cura – “del resto chi prima di una chemioterapia avrebbe voglia di mangiare?” aveva pensato – e aveva addirittura ipotizzato che fosse un volontario di qualche associazione che si trovava lì investito di quel coraggioso compito. Ma poi lo vide entrare in reparto, sedersi come gli altri in una poltrona e iniziare la terapia.

Ancora una volta i suoi pensieri furono interrotti. “38, 39, 40 e 41…vi potete accomodare”.

Si alzò e vide che era in piedi anche quel signore, con quel sorrisetto un po’ ebete stampato sul volto.

Erano in quella che chiamava “la stanza delle poltrone”, uno di fronte all’altro con l’aflebo accanto. Alessia e quello strano signore finirono per chiacchierare: lei tirò un sospiro di sollievo quando capì che la conversazione – contrariamente a come avveniva di solito tra i pazienti durante le sedute – non verteva sul tipo di tumore, sulla terapia, sugli effetti collaterali ecc.

Negli altri casi, per evitare di ascoltare tutti i racconti e le esperienze – in buona parte negative – oggetto delle discussioni tra i pazienti nella “stanza delle poltrone”, Alessia si era vista costretta a mettersi le cuffie e ascoltare un po di musica.

Parlarono delle proprie vite, lavoro, interessi, musica, nazioni che entrambi avevano visitato. Si rese conto che Paolo – cosi si chiamava quel signore – non aveva avuto una vita agiata. Le disse che quando tutto sarebbe finito avrebbe voluto usare gli ultimi risparmi per il viaggio che aveva desiderato tutta una vita: visitare tutta l’America Latina. Alessia disse che non aveva pensato a cosa avrebbe desiderato fare una volta che il male sarebbe stato sconfitto; lui le disse che invece avrebbe dovuto fare progetti e pensare con serenità e speranza al “dopo”. Le disse che era utile e aiutava ad affrontare quel periodo.

Alessia, allora, gli disse che, pur avendo viaggiato moltissimo, non era mai stata in Argentina, Brasile e Cile (le mete che Paolo avrebbe voluto visitare) e lui le disse scherzando:

– Puoi venire con me! Sono innocuo, il tumore mi ha colpito proprio in quella zona. Aggiungici la mia età e ne viene fuori una garanzia di castità!

Fu l’unico riferimento alla malattia, a cui, del resto, fece seguito una fragorosa risata che attirò l’attenzione degli altri pazienti. Anche Alessia rise di gusto.

Alessia prese più confidenza e parlò anche lei della sua vita rivelandogli che nascondeva a tutti la sua malattia. Lui le disse che sbagliava, che aveva diritto ad una vita e che invece in questo modo si chiudeva troppo in sé stessa.

– Devi liberarti di questi limiti, di questa paura di rendere nota agli altri la tua malattia, di questi blocchi…fai volare via tutte queste limitazioni !! – le disse.

Alessia era sorpresa: quella persona in pochi minuti le stava quasi facendo cambiare idea.

Finita la chemioterapia, si fermarono un po’ all’ombra, vicino il parcheggio dove lui si accese una sigaretta rullata.

  • Non dovresti fumare, non credi? – disse Alessia

  • Mi fa bene: ho appetito, dormo meglio e anche l’umore ne risente positivamente – rispose lui, sbuffando una nuvola di fumo.

Dalla risposta e dall’odore capì che non si trattava di tabacco. Le chiese se voleva favorire, lei rifiutò ma gli promise che avrebbe approfondito l’argomento. Lui le diede i riferimenti del centro a cui doveva rivolgersi per avere l’autorizzazione, avvertendola che però la burocrazia era lentissima e che, spesso, lui aveva dovuto trovare “soluzioni alternative”.

Al momento dei saluti gli offrì un passaggio in auto e quando si avvicinarono alla Bmw lui fece un fischio di approvazione seguito da un “Woh!”.

Lei sorrise e gli porse le chiavi:

– Guidala tu! – disse.

Paolo era contento come un bambino. Alessia si chiese se era la marijuana ma poi si rispose di no: era solo la capacità di apprezzare ogni momento, di godere delle cose belle che la vita ci offre.

Lui accese il motore e stava ingranando la marcia quando lei lo fermò…

Schiacciò il pulsante tra il cambio e il freno a mano e la capote si aprì in pochi secondi.

– Vai, parti a razzo! – gli disse Alessia.

Sulla tangenziale di Milano lui accelerò e con una mano dolcemente le posò una mano sulla parrucca.

– Tieniti – le disse Paolo.

Lei gli sorrise, fece un lungo respiro, scosse il capo e delicatamente spostò le sue mani.

Dopo pochi secondi, la parrucca di Alessia volò via con tutte le sue paure.

di Giulio Massimo Giglio All rights reserved

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