LEZIONI DI ACCOGLIENZA DAI CAMPI PROFUGHI (PARTE II)

di Redazione The Freak

LEZIONI DI ACCOGLIENZA DAI CAMPI PROFUGHI (PARTE II)

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LEZIONI DI ACCOGLIENZA DAI CAMPI PROFUGHI (PARTE II)

di Redazione The Freak

MY FRIEND’S PLACE #2

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La giornata inizia presto. Sveglia alle 7, o alle 6 e mezza per chi deve fare una doccia. I volontari dei volontari preparano caffè per tutte e 14 le persone dell’appartamento, ci si divide nelle macchine e si parte per Dunkerque.
Salutiamo il blindato della gendarmeria e iniziamo il briefing mattutino: c’è una lista di cose da fare e ci si divide in gruppi. Ma non prima di aver raccolto la spazzatura ed essersi assicurati che il camion della nettezza abbia fatto il suo dovere. Sono ore caotiche, alle 10 e 30 parte la colazione degli ospiti e il campo si ravviva, bisogna sbrigarsi. Anna e Camilla sono instancabili pulitrici, pochi mozziconi e nessuna cartaccia sfuggono al loro passaggio. Pablo ha scoperto la sua vera indole: il bricolage; in 6 giorni, assieme ad un team di cui sporadicamente facevo parte anche io, ha tirato su un locale lavanderia a suon di trapano e seghetto. A me invece è toccato il compito di sistemare i rifugi con il silicone, per rendere gli alloggi più confortevoli possibile.
Tutti e quattro però, abbiamo avuto anche l’occasione di interagire con gli ospiti, ascoltare le loro storie, rispondere alle loro domande e fargli sentire, se ce ne fosse bisogno, che non sono soli. Che per tante persone in Europa l’accoglienza è un dovere di civiltà.
I volontari più esperti coordinano il tutto ed il campo è praticamente un cantiere a cielo aperto. Ci sono una ventina di rifugi da costruire per rimpiazzare le tende, si sta realizzando un teatro e ci sono i pasti da preparare, circa 3000 al giorno tra colazione pranzo e cena.
L’unica area in cui non si può accedere è l’ambulatorio di Medici senza frontiere. Lì la sicurezza, l’igiene e la competenza sono strettamente necessari, nessuno insegna e nessuno impara, o si sa fare o non si fa.
Dalle 14 e 30 inizia la distribuzione del pranzo, di solito abbondante. Viene chiesto ai volontari di consumarlo un’ora dopo per assicurare a tutti gli ospiti il pasto. Ma la quantità di donazioni e l’impegno dei cuochi non lascia a stomaco vuoto nessuno!
Dalle 16 alle 18 c’è la distribuzione dei vestiti. Le lezioni di lingua sono solitamente la mattina, ma è sempre aperto il container per le conversazioni in varie lingue, francese ed inglese su tutte ovviamente.
E poi, salvo sorprese, si riprendono le stesse mansioni o differenti, per concludere alle 19 circa, con il caffè al My Friend’s Place, una tenda/bar dove rilassarsi bevendo qualcosa di caldo, ascoltare musica etnica e fare amicizia.
Intorno alle 20 si svolge l’ultimo briefing tra volontari, magari con qualche meritata birra, in deroga al regolamento che vieta alcolici… ma si è tutti un po’ rivoluzionari a Dunkerque!
L’organizzazione è molto precisa: ognuno deve fare qualcosa. Utopia56 ha stimato che ogni giorno ci sarebbe bisogno di circa 120 volontari; durante la mia permanenza eravamo al massimo una trentina. In ogni momento si comunica tramite walkie talkie.
C’è un flusso di donatori continuo da monitorare, e non si parla solo di vestiario o cibarie, ma anche materiali da costruzione piuttosto che ricambi per il bagno.
La giornata è un lungo ed organizzato delirio, creato dal nulla e che continua a progredire, con l’appoggio dell’associazionismo e della società civile che non si è affatto dimostrata ostile.

Non si fanno programmi a lunga scadenza, ma i buoni risultati raggiunti fanno ben sperare anche nei rapporti con le istituzioni di livello superiore (non a caso, al contrario dei continui sgomberi, Dunkerque pare intoccabile).

I SEE HUMANS, BUT I DON’T SEE HUMANITY #1

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A poco più di 40 km dal Grande Synthe c’è il campo di Calais, la Jungle. Non è storia recente, piccoli assembramenti sporadici in quel luogo esistono sin dal 1999, è la porta principale per l’Inghilterra. Ma da un anno e poco più il numero degli abitanti è salito vertiginosamente.
Decido di andare lì quasi per caso, con altri tre volontari, esattamente il giorno dopo violenti scontri tra ospiti e polizia. Loro avevano uno sgangherato furgone ma non la patente, ed io esattamente il contrario. Prima di arrivare al campo di Calais si passa per l’ingresso dell’Eurotunnel.
– Questo lo chiamiamo il muro della vergogna – mi spiegò Cècile il primo giorno, alludendo ad una fitta rete di barriere che servono a rendere più difficoltoso e ancor più umiliante, se ce ne fosse bisogno, il tentativo di attraversamento del tunnel.
L’atmosfera è molto tranquilla, non è raro vedere gente con tutore o fasciature, ma qui l’accoglienza con proiettili di gomma e manganellate è prassi e non fa più notizia. Mi si apre una sorta di strada principale circondata dai tipici ristoranti asiatici e minimarket che tutti conosciamo grazie a foto e documentari. L’atmosfera all’interno del Sami restaurant, ad esempio, è molto rilassata. In un mix di ospiti e volontari è possibile scambiare due battute in tutta tranquillità, forse anche più che all’esterno.
– Qui diamo da mangiare a circa 700 persone, ma riteniamo che attualmente al campo siano presenti circa 5000 ospiti – mi spiega H.

H. è un ragazzo di poco più di 20 anni, inglese di origine malese, che assieme alla sua famiglia gestisce una delle due mense di Calais.

– Mio fratello e mia sorella (16 anni) cucinano circa 60 – 70 kg di riso al giorno – mi spiega, mentre la madre ed il padre, aiutati da un paio di ospiti del campo, puliscono la carne. È incredibile la quantità di donazioni che i cinque membri della famiglia riescano a ricevere, immagazzinare e preparare.
Non è lo stesso clima di Dunkerque, si percepisce più tensione. La criminalità organizzata è presente in maniera più capillare, la polizia non aiuta, sono presenti più etnie e la situazione di totale incertezza aggrava la situazione.
Nonostante tutto, neanche a Calais si arretra di un passo. Neanche dopo lo sgombero della parte sud. Il Regno Unito è lì, tocca aspettare il momento giusto. Non saranno ruspe e lacrimogeni ad infrangere l’unico obiettivo che è rimasto a chi è stato privato di tutto, ma non della capacità di sperare e sognare.

P.s.: H. e famiglia sono ben felici di ricevere donazioni alimentari di ogni tipo. Visitate la loro pagina Facebook Kitchen in Calais!

I see humans, but I don’t see humanity #2

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– Per andare in Inghilterra devo imparare l’inglese, mi sto esercitando con dei volontari – mi spiega A., 28 anni, siriano di Aleppo.

A. non ha più niente in Siria, qualche bomba gli ha portato via moglie e figli. Tutti ci siamo cimentati con passato presente e futuro dei verbi in inglese. Ricordo ancora quando ero più piccolo “to be, was, been; to have, had, had”.

Si parte con quelli immediatamente percepibili, no? Anche A. usa questo metodo.

Mi cade l’occhio sul suo quadernetto e leggo le frasi che scrive per esercitarsi. Il soggetto è sempre lo stesso “the police”, i verbi spaziano: “to hit, to kick, to hurt”. Ma A. ne parla con il sorriso, ne ha viste tante, qualcuna in più non fa differenza. 8000€, quelli sì che la fanno.

È la cifra che gli hanno chiesto per portarlo in UK ed A. temporeggia e aspetta che dalla Siria qualcosa arrivi.

Ho conosciuto A. mentre giravo per il campo, incuriosito da una zona recintata con containers all’interno, da cui si intravedevano docce e letti ben sistemati. È la zona di Calais a cui ha accesso chi vuol farsi identificare. E questo azzera le possibilità di arrivare in Inghilterra, dovendo restare in Francia.

 È assurdo che dalla tenda di A., nonostante tutto molto curata, ad una doccia calda ci siano neanche 400 m. È ancora più assurdo che A. non accederà mai a quella doccia, dovendo aspettare il suo turno in quelle poche presenti per tutti a Calais.
Ma si sta facendo buio e devo tornare a Dunkerque. Faccio in tempo a salutare H.

È appena tornato dalla spiaggia con alcuni ospiti. –  è una zona molto bella, ci sono ancora gli avamposti della guerra lì!
Nel 1940 nella fascia costiera tra Calais e Dunkerque circa 400.000 soldati alleati, ammassati sulla spiaggia e in gravissimo pericolo, furono evacuati via mare e trasportati in Inghilterra. Non furono chiesti documenti o impronte, l’unica preoccupazione fu di salvare quante più vite umane possibile. Altri tempi? Certe scene dei giorni nostri non mi sembrano così dissimili, in negativo ed in positivo.

di Francesco Portoghese, all rights reserved

Per contribuire alla realizzazione dei progetti dell’associazione Papango:

-Emergenza siccità in Africa: https://www.facebook.com/AssociazionePapango/photos/a.447098805375687.1073741835.191421290943441/967349060017323/?

Il secondo progetto è in fase sperimentale: si tratta di consentire a 10 bambini nella slum Deep Sea di Nairobi (Kenya) di circa 11.000 persone la possibilità di ricevere un’istruzione con libri, uniformi e pasti. Il progetto è rivolto ad una scuola gestita da un’insegnante singola di primary school che gestisce circa 75 bambini. Inoltre è previsto un gemellaggio con una scuola di pari grado italiana, per favorire l’informazione riguardo l’educazione in kenya

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