Lettera a Tito

di Let It D.

Lettera a Tito

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Lettera a Tito

di Let It D.

Adesso basta. Non sei mio, te l’avrò ripetuto mille volte. Guarda che non mi incanti con quegli occhioni neri e luccicanti. Non ti voglio, te l’ho detto da subito. Mi sono stancata di vederti prendere le attenzioni di tutti, persino quelle dedicate a me. E levati dai piedi, non vedi che sto facendo la borsa e stai rallentando il mio lavoro? Prima di conoscerti ero sempre puntuale ad ogni appuntamento, non sgarravo di un minuto. Adoravo prendere posto per tempo al cinema, acclimatarmi e togliermi con calma la giacca cercando di posizionarla in modo che non desse fastidio né a me né al vicino. Avevo il tempo di respirare a fondo per lasciare tutto il mondo fuori e magari per comprare una confezione di pop corn, e di sceglierne con calma la dimensione, che fare i conti con il mio senso di colpa non è mai impresa rapida per me. Forse noi due abbiamo un conto karmico in sospeso. Proprio non riesco a capire perché sei capitato nella mia vita, non ti ho cercato, non ti ho desiderato, sei arrivato e basta, senza domande, quindi è una punizione, mi pare ovvio.
Proprio adesso che avevamo ritinteggiato le pareti e comprato due tappeti antichi. Sì va bene, non proprio antichi, diciamo anticati. Comunque a te questo non deve interessare, considerali antichi. Il fatto che non parli mai poi mi crea disagio. Pensi di poter usare occhi e telepatia a tuo piacimento.
Devo ammettere che sei piuttosto bravo. Io invece sono una frana in quanto a comunicazione. Sarà che il mio emisfero sinistro è ipersviluppato e non posso fare a meno di mettere tutto in parole, che sia amore, rabbia o la lista della spesa, non ho altri mezzi. Quando rientro a casa dal lavoro detesto i silenzi e la cena ancora da preparare; ancora di più mal sopporto i rientri festosi, i saluti scodinzolanti e le pance piene, quelle degli altri. Ma funziona così da quando ci sei tu: prima si esce, poi si mangia e poi si fa festa. Ma che bella organizzazione! Veramente complimenti, ho dovuto rinunciare alla cena cinese del martedì, quella per cui se ordinavo entro le ore 19.45 avevo la consegna gratuita in 15 minuti e lo sconto del 20% sul prezzo totale. Sai ora cosa mangio il martedì sera? Pollo e insalata. E’ sano dici? E’ triste, è solo triste, dico io. E’ secco, si fredda subito, il pollo, neanche arrivo a portarlo in tavola che già è diventato come una suola di scarpa. Allora sai che faccio? Lo mangio in piedi, a morsi, come una selvaggia. Ma la cosa che più detesto caro mio sai qual è? La divisione degli spazi: avere solo metà divano per me mi irrita, è come avere la coperta corta che ti tiene scoperti i polpacci, è come l’ultimo fiammifero che ti si spegne in mano, è come avere le calze rotte in metropolitana l’unica volta in cui riesci a sederti. Tutti mi dicono che sbaglio.
Che dovrei amarti, poverino! Sì, “poverino”, ti chiamano così, è bene che tu lo sappia. Così vediamo se elargirai ancora a tutti gioiosità e accoglienze degne dei più graditi ospiti. Poverino solo perché hai le convulsioni, le otiti ricorrenti e perché detesti le separazioni. Non che io le ami le separazioni, sia chiaro. Ma per quel che riguarda il resto, io lo chiamo isteria, o nevrosi se ho l’obbligo di utilizzare una terminologia più attuale. Nell’ottocento le donnine isteriche facevano gli archi e tossivano per il nervoso e oggi tu hai mal d’orecchie e ti agiti per un nonnulla. Pare però che tu sia malato per davvero e allora giù a dispositivi medici e tolleranza a iosa per le tue ripugnanti espressioni corporali. E tu ti prendi tutto questo senza elargire nulla a chi ne avrebbe bisogno, come  me per esempio. Ma d’altronde ce l’hai scritto nel DNA, non ti chiameresti Tito altrimenti. Tito il dittatore. Ti manca l’uniforme. Io non ti avrei mai dato quel nome. Tutti dicono che tu sei in grado di amare incondizionatamente. Ma cosa vuol dire? E poi cos’è quest’amore incondizionato? Io non l’ho mai sperimentato. A me sembra una cosa così religiosa, così posticcia, falsa se devo essere sincera. Non si può vivere fuori dalle logiche dell’avere qualcosa in cambio, degli aut aut, e del non può più andare avanti così. A me è successo mille volte di caderci dentro a queste logiche, anzi, la maggior parte delle volte mi ci hanno buttato in mezzo, mio malgrado. Anche adesso. Trascorro ore a pensare. Annoto sul diario tutto ciò che mi viene in mente nella speranza di capire cosa sia giusto fare, dire, progettare. Quando mi sembra di aver trovato qualcosa di utile mi accorgo di te, come potrei non farlo? Mi stai sempre di fronte. Ti ho detto mille volte che non devi guardarmi così che mi spavento, soprattutto quando sono concentrata. Non mi fai ridere, ormai dovresti aver perso le speranze. Sono giorni che ho un peso sullo stomaco e proprio non vuole sciogliersi, dovrò vedere un dottore prima o poi. Hai capito che anche io sono malata, poverino? Adesso vediamo chi tra noi due ha più bisogno di cure. Non condivido chi tiene gli altri legati a sé con veri o presunti malanni e lamentazioni di vario genere, “non mi sento affatto bene”, “ho un gran male alla testa”, “il braccio, il braccio non risponde ai comandi”, ma ammetto che è una strategia niente male. Devo imparare da te, poverino di un nevrotico. E togliti di lì, una volta per tutte, le mie gambe non sono il tuo cuscino.
Dai che sei pesante e io non ho più forze.
Sì sto piangendo e allora? Che fai piangi anche tu? Ma cosa sei, tonto? Non capisci che se n’è andato? Ci ha piantati in asso, tutti e due, io e te. Sì pure a te, è inutile che mi guardi così. Proprio il giorno prima della partenza per le vacanze, è passato un mese ormai, ti vuoi svegliare. Ci ha lasciati qui in questa casa incasinata e puzzolente, piena di scartoffie e di coperte corte, con i tappeti anticati che più che antichi sembrano vecchi. E’ inutile che rimaniamo qui con le orecchie tese, sia mai lui abbia perso la strada o la memoria. Meglio che abbia perso la memoria, un’amnesia temporanea in modo che, una volta, terminata, sarebbe come se nulla fosse successo? Poveri illusi che siamo. E’ stupido balzare in piedi ogni volta che sentiamo l’ascensore, lo sappiamo entrambi che abitiamo al pian terreno. Poi tutto quel cibo lasciato intonso sulla tavola apparecchiata, cosa siamo cretini a pensare che non si sia guastato? E’ queste enormi valigie? Cos’è siamo pronti per un last minute nel caso tornasse? Il telefono non squilla? Non ce l’abbiamo il telefono in questa casa, è stato tolto perché lui diceva che lo disturbava mentre suonava il corno africano. Cosa potevamo pretendere da uno che suona il corno africano? Siamo stati ingenui, dobbiamo ammetterlo.
L’aria almeno è sempre pulita non trovi? Sono giorni che non chiudiamo la finestra. Siamo rimasti così, immobili e sospesi su una fune aerea, terrorizzati dall’idea di precipitare giù. E’ colpa tua sappilo. Non mi passi neanche i Clinex, devo fare tutto da sola come al solito. Meno male che non ci vede nessuno, siamo pietosi su questo divano diviso a metà. Ti ho detto di andartene e di smettere di starmi tra i piedi. Chi ti ha detto di rimanere? Sei venuto con lui e ora non ti voglio qui. Non vuoi proprio capire? Allora adesso basta. Me ne vado, chiudo questa maledetta valigia e me ne vado, da ora in poi ognuno per la sua strada. Mi abbandonerò in autostrada, io purtroppo non so abbandonare nessuno. Addio Tito.
***
Lui continuò a scodinzolare mentre, incurante dei pensieri di lei e delle sue turbe, la seguiva in silenzio, a un passo che non era né lento né veloce, come certi adagi che ti accompagnano tuo malgrado ma per fortuna tua. D’altronde, lui era capace di un amore incondizionato.

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