Le pedine del Sultano

di Simone Pasquini

Le pedine del Sultano

di Simone Pasquini

Le pedine del Sultano

di Simone Pasquini

In queste ultime settimane il Mondo è stato davvero molto occupato. Quando eravamo ormai sicuri che le pesti e le piaghe appartenessero al passato, eccoci investiti da una pandemia come non si era vista dai tempi dell’influenza spagnola nel primo dopoguerra. Ma anche se in Italia siamo tutti costretti all’immobilità e osserviamo dalle nostre finestre la sinistra quiete delle nostre strade, il Mondo non si è fermato (torna in mente una vecchia canzone). Purtroppo, le violenze in Siria, nonostante l’ormai raggiunta supremazia delle forze governative di Assad, non accennano a diminuire, e sembra sempre più probabile una escalation militare fra l’esercito siriano e le truppe turche di Erdogan. Ma fra i proclami dei governi e i titoli dei comunicati, non possiamo permetterci di dimenticare quelle vittime silenziose che ancora oggi, dopo nove lunghi anni di guerra, ancora sono costretti a lasciare le loro case distrutte in cerca di una vita migliore.

Secondo i dati dell’UNHCR, l’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati, sono ormai più di 11 milioni i profughi che sono stati costretti a lasciare il Paese, praticamente 1/3 della popolazione siriana. Fra coloro che sono voluti rimanere o non hanno potuto abbandonare i propri miseri averi, più dell’80% vive ormai in povertà assoluta, con praticamente metà dei centri urbani ridotti ad un cumulo di macerie. Gli Stati limitrofi hanno cercato fin dal primo momento di offrire supporto ed assistenza a chi cercava di fuggire ai combattimenti e all’arruolamento forzato, ma ben presto è emersa la loro incapacità nel gestire quella che si è rivelata essere la peggiore crisi umanitaria dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Coloro che non hanno potuto trovare rifugio nei Paesi arabi limitrofi, si sono incamminati verso la Turchia, praticamente il passaggio obbligato per l’Europa via terra. Il miraggio della pace europea li ha spinti ad attraversare deserti e montagne solo per trovare la porta sbarrata. L’Europa dei diritti umani ha preferito pagare un dittatore come Recep Erdogan per risolvere un problema che tutto il continente preferiva far finta di ignorare, cioè stanziare una “mega parcella” da 6 miliardi di euro diretta alla Turchia per allocare i rifugiati siriani in attesa delle condizioni adatte al loro ritorno in Patria. Ma dal 2016 ad oggi la situazione è andata peggiorando sempre più, e quando la crisi ha raggiunto le attuali dimensioni è divenuto evidente come il denaro promesso dall’ Europa fosse assolutamente insufficiente per la gestione di 3,6 milioni di siriani in territorio turco.

Il 27 febbraio scorso, a poche ore dalla morte dei 36 militari turchi caduti per un attacco delle forze siriane vicino la roccaforte ribelle di Idlib, Erdogan ha annunciato che non avrebbe più fermato i tentativi dei profughi di raggiungere il confine greco. Questo improvviso voltafaccia del presidente turco ha immediatamente allarmato il governo greco, che ha disposto un rafforzamento dei presidi militari al confine con e dei pattugliamenti nelle acque intorno alle isole prospicenti la costa turca: negli ultimi giorni numerose testate giornalistiche, anche italiane, hanno denunciato abusi da parte delle forze dell’ordine greche nei confronti dei profughi, fra i quali anche molte donne, anziani e bambini. Si va dai tentativi di speronamento dei gommoni con a bordo i migranti nelle acque si Lesbo ai tiri con lacrimogeni sulle persone al confine greco orientale. Questa escalation, che sta portando tra l’altro al collasso i già affollatissimi campi approntati sulle isole di Lesbo, Chio e Samo, sono in massima parte da imputare all’uso strumentale che Erdogan sta facendo di quella che possiamo chiamare l’”arma” dei migranti. I Governi europei sono ora troppo occupati a fronteggiare l’emergenza del coronavirus per occuparsi seriamente della questione, improvvisamente divenuta secondaria, ma se guardiamo per un attimo alle reazioni che si sono avute nei primi giorni di marzo, esse sono rivelatrici del terrore da parte dell’Europa che la cosiddetta “rotta balcanica” possa aprirsi nuovamente.

In verità, se per gli Stati europei i migranti (africani o siriani che fossero) hanno sempre rappresentato un problema, per uno stratega come Erdogan la loro utilità è stata evidente fin da subito. Quando il dittatore turco siglò il primo accordo con l’UE per la gestione dei migranti, ad un buon osservatore come lui si è rivelata la reale opportunità offerta della vicenda: se l’Europa era disposta a pagare miliardi non per risolvere, ma solo per evitare, questo problema, egli capì che nelle sue mani si stava concentrando un mezzo di pressione politica impressionante. Da quel momento, a partire dal marzo del 2016, possiamo vedere come questa nuova arma di ricatto sia stata fatta valere in continuazione dalla Turchia come strumento di politica estera. L’apice è stato raggiunto nei mesi successivi all’ intervento turco nella regione settentrionale della Siria, con l’occupazione di ampie fasce del territorio siriano lungo il confine e le durissime azioni militari contro le milizie curde ( https://www.thefreak.it/il-nemico-alle-porte/ ).

Come dicevamo, dal 27 febbraio scorso, la Turchia ha deciso fare il salto di qualità: considerate le continue resistenza da parte dell’Europa nel voler rivedere gli accordi (la Turchia aveva stimato in 50 i miliardi necessari all’accoglienza dei profughi), Erdogan li ha lasciati liberi di incamminarsi verso il confine greco, a ridosso del quale le forze di polizia stanno utilizzando tutti i mezzi a loro disposizione per tenerli indietro. Numerosi inviati hanno denunciato l’estremo livello di violenze, ed addirittura sembra che le autorità turche stiano concretamente incoraggiando i profughi a muoversi (pare che siano stati organizzati perfino dei pullman utilizzati per riportare verso il confine i profughi respinti dalla polizia greca). Nel corso di un discorso tenuto l’8 marzo ad Istanbul in occasione della Festa della Donna, Erdogan si è rivolto direttamente alle autorità greche, incoraggiandole a lasciar passare i profughi in quanto “vogliono proseguire il viaggio verso altri Paesi”. All’indomani di queste provocazioni, si è tenuto a Bruxelles un incontro fra il presidente turco e le istituzioni europee proprio sul tema migranti. Il risultato appare molto poco soddisfacente, per quanto la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen abbia dichiarato che l’accordo de 2016 resta valido e che nei prossimi giorni l’Alto Rappresentante Josep Borrell e il Ministro degli esteri turco Cavusoglu avrebbero lavorato di concerto per trovare una interpretazione accettabile degli accordi. In verità, appare difficile condividere la positività dimostrata dalla von der Leyen, soprattutto se consideriamo che l’Europa non è neppure riuscita a strappare ad Erdogan l’assicurazione della cessazione della condotta tenuta da Ankara in queste settimane. Per giunta, la settimana scorsa il presidente turco, nel commentare l’attuale situazione, ha esplicitamente paragonato la condotta della polizia greca sul confine alle violenze commesse dai nazisti.

Mentre rimaniamo in attesa di sviluppi tangibili, non possiamo non rimanere estremamente preoccupati da alcune segnalazioni provenienti da Lesbo secondo cui il coronavirus sarebbe già giunto sull’isola (sarebbe risultata positiva la cassiera di un supermercato). Gli scenari di una diffusione del virus nei campi sovraffollati, popolati da soggetti deboli e malnutriti, fanno rabbrividire. In un momento come questo, la combinazione della crisi migratoria con la diffusione globale del virus sembra poter scatenare una tempesta perfetta.

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