LE PAROLE SONO TROPPO STRETTE

di Cara Futura Rigby

LE PAROLE SONO TROPPO STRETTE

di Cara Futura Rigby

LE PAROLE SONO TROPPO STRETTE

di Cara Futura Rigby

Forse è una sorta di perversione quella che affligge gli esseri umani da quando nella notte dei tempi iniziarono a stabilire relazioni. È una perversione, forse, quella che essi hanno verso le quantità, verso quella tendenza alla descrizione delle cose attraverso l’uso di una misura.
E allora questo tavolo è lungo tot, e l’acqua di questo mare è alta tot, e io di scarpe porto il tot.

Ma ben presto, e anche con una certa dose di disagio e afflizione, accade però che ci si renda conto che quelle quantità, anche le più precise e le più definibili, possano subire flessioni di fronte alle opinioni personali. Per cui si è udito genitori discutere in merito alla larghezza di un armadio, ascoltato eventi sportivi fallire per la prescrizione di un tempo elastico, assistito a guerre natalizie tra nonne e zie per la grammatura dell’olio di frittura.

Ma la stessa disputa si può riservare ai limiti, alle definizioni, alle questioni linguistiche. Un fatto che Stephen King descriveva straordinariamente nella sua dolorosa accuratezza: “Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, perchè le parole le immiseriscono, le parole rimpiccioliscono cose che finchè erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori.”

Un aggregato di lettere permette di dire che sono stanca, che sono felice, che sono triste, che voglio trovare parcheggio in fretta perchè devo fare pipì, che oggi vorrei mangiare il tortino con le melanzane, che vorrei andare al mare. E le lettere messe lì insieme, una dietro l’altra, formano pensieri e comunicazioni. E le si usa. Le si usa a formare un “mi manchi” per tutti, un “ti voglio bene” per tutti, un “ti aspettavo” per tutti, un “ma dove eri” per tutti.

“One-size-fits-all”, dicono gli anglofoni, cioè “una misura per tutto”. Tutto uguale, taglia unica per qualsiasi cosa, uno standard universale.
E allora purtroppo quando si dice a Giulia che ci è mancata, lo si dice con l’aiuto della stessa parola che si usa per Francesco.
E quando scrivo “come stai”, lo scrivo prendendo in prestito lo stesso suono di quando lo dico a mia cugina o a mia madre o a Laura.
Una generalizzazione così riduttiva che solo a pensarla rende infinitamente addolorati.
L’inganno e il dilemma delle parole e delle definizioni è che aiutano per certo ad orientare, a circostanziare quale è il campo entro cui ci si muove, ma non potranno mai contenere e descrivere e dire e dirti e raccontare e precisare e narrare, tutto quello che intendo per te e solo per te e per nessun altro all’infuori di te.
E dunque quando ti dico che oggi ti ho pensato, lo intendo davvero allo stesso modo in cui oggi ho pensato a Valentina?

E anche le date e il tempo chissà se seguono lo stesso schema e la stessa prassi arbitraria.

Oggi è un 13 settembre, ma potrebbe essere un 4 marzo, come un 19 dicembre.
E sono a Roma. Lì, lì non lo so che data sia e lì non so dove tu sia.
Al tempo e allo spazio è riservato lo stesso destino che riguarda la finta alternativa delle parole: un recinto di composizioni fisse, patrimonio comune degli umani.
Da qui a qui ci sono tot lettere e tot cifre ed esse indicano tempi, spazi e distanze, lemmi e significati.
Il tempo si chiama ore, si chiama giorni della settimana, si chiama mesi e anni.
Il tempo si chiama anniversari e si chiama età.
Il tempo è da quanto ti conosco, dall’anno, dal giorno, dall’ora in cui ti ho incontrato.

Ma invece il tempo dentro?
Quando è che ti ho incontrato davvero? Lo puoi dire? Lo puoi determinare?
Dico: se ti ho incontrato da tre mesi, non potresti forse dire anche che ci conosciamo da due anni e mezzo?
Quando ci diciamo che è come se ci conoscessimo da sempre, da tempo, come ce le giochiamo le regole e le convenzioni sociali?
Potrei dirlo in molti modi e potrei dire che ti parlai la prima volta 14 mesi fa, 6 stagioni, 420 giorni, 10.080 ore, 604.800 secondi. Che equivalgono a 2 influenze intestinali fa, a 19 gelati, al cambio di 28 scarpe, all’ascolto di 13 “Rise” di Eddie Vedder, alla visione di 2 “Grande Lebowsky” e a 21 pianti fa.

Una volta con Silvia provammo ad inventare parole nostre che nessuno capiva, torte di grammatica di cui eravamo le uniche padrone e le uniche traduttrici. E fu intimo e bellissimo e nascosto e inconfessato e privato. Ma poi diventammo grandi e lentamente e tristemente rimpiazzammo un raggiante e vitale gioco infantile per sostituirlo alla compostezza delle parole di tutti. L’età adulta rapinò il nostro tesoro alfabetico, che ogni tanto, in nome dei caldi abbracci tuttora vivi, rispolveriamo per sentire ancora il valore del nostro riconoscerci a vicenda: se parli questa lingua sei proprio tu, tu e nessun altro, ti ho riconosciuta.
E come sarebbe bello che il verbo “voler bene” che riservo a Chiara fosse sostituito dal verbo “toggionare” da coniare solo e soltanto per lei, un verbo che contenga il momento in cui ci presentarono per la prima volta, quel giorno in cui andammo insieme sotto casa di M. a spiarlo, quella volta che tornavamo in motorino alle 4,22 e mi insegnò il salentino dalla canzone di Boom Da Bash.
Oppure che il “mi manchi” che riservo ad Antonio fosse chiamato con un verbo a caso tipo “mi sei adderbato tantissimo”, un verbo che contenga i ricordi della festa dei 18 anni, che sia riempito delle foto di quel giorno tutti insieme all’aperto a casa a Bravetta, che abbia dentro il desiderio delle altre volte in cui ci rivedremo e rivedremo ancora.
Oppure che il giorno che rividi Giulia era un “quintordici ottembre”, il giorno in cui io avevo quel vestitino estivo e tu la maglietta che mi piace tanto e tornavi felice e felice ero io, tornavi per restare e tornavi con quel regalo.
Oppure il “mi sono preoccupata” che riservo a Nicola fosse rappresentato dalla parola “mi sono frestinata”, che rappresenti tutte le volte in cui arriva in ritardo e non avverte, che includa i miei sospiri quando non lo vedo arrivare e comincio a pensarlo, che porti in sé il pensiero annebbiato di quando ci diede la notizia della sua partenza.

Un verbo che sia il tuo e solo il tuo.

Senza il timore di dover pesare il fatto che un “ti voglio bene” metta meno disagio di un “ti amo” e senza dover ricorrere alle specifiche linguistiche per ponderare i pensieri e quello che si sente giù giù in quello spazio protetto e incognito compreso tra i polmoni e lo stomaco o che variamente è allocato a seconda del proprio sentire tra la caviglia e il femore, tra la scapola e l’avambraccio, tra l’occipite e il naso.

Per te e solo per te.
Per il nostro specifico modo di essere amici, di essere amici in un modo differente da come lo siamo con altri.
Per il nostro modo preciso di essere parenti, di esserlo in un modo diverso da come lo siamo con gli altri di parenti; non meno e non più, ma solo diverso.
Per il nostro privilegiato modo di essere colleghi in un modo alternativo da come lo siamo con gli altri.
Per il nostro esclusivo modo di stare insieme, che sia solo mio e tuo e nostro e che nessuno possa derubarci con le parole, con le stesse lettere e vocaboli che ha usato e usa per qualcun altro.

E allora accadrebbe che quella singola parola sarebbe solo la nostra.

E gli altri non la capirebbero.

E la capiremmo solo io e te, solo noi due e nessun altro.

di Cara Futura Rigby, all rights reserved

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati