Le donne e la politica nel romanzo storico di Andrea Camilleri

di Valerio Tripoli

Le donne e la politica nel romanzo storico di Andrea Camilleri

di Valerio Tripoli

Le donne e la politica nel romanzo storico di Andrea Camilleri

di Valerio Tripoli

Vorrei parlarvi di un romanzo di Andrea Camilleri in cui mi sono imbattuta qualche anno fa, ciondolando in libreria sui titoli delle belle copertine blu di casa Sellerio.

Se infatti il commissario Montalbano è da vent’anni a questa parte l’eroe nazional-polare che ha consacrato Camilleri al grande pubblico di lettori e spettatori televisivi, onnipresente nelle classifiche dei libri più venduti e campione di share televisivo con numeri da nazionale di calcio, non è di certo l’unico personaggio indimenticabile creato dalla penna del bardo di Porto Empedocle, né il solo a parlarci di vizi e virtù del popolo italico dietro la maschera della letteratura.

L’ispirazione, però, arriva come al solito dalla sua Sicilia, dove certi topoi a cui siamo abituati dai libri di Montalbano – gli intrighi, i tradimenti, i delitti – raggiungono vette parossistiche nel secolo che Manzoni chiama, con una formula icastica, «sudicio e sfarzoso».  Nel 1677 infatti, i Viceré della monarchia spagnola governano Palermo con scandaloso marciume e insaziabile avidità, rinchiusi nei propri palazzi incensati, infiacchiti dalle cerimonie di corte, vittime essi stessi di una schiera salmodiante di funzionari, paggi, vescovi, maggiordomi, maestri di casa, tutti a fare riverenze, a cercare benefici e a chiedere favori, quando non impegnati a sussurrare maldicenze, a complottare e a intorbidire le acque per i propri tornaconti personali e descritti, ca va sans dire, con la più gustosa e irriverente ironia. Nessuno governa per davvero, ma ognuno ritaglia quel che può per il proprio orticello – che in verità, nella maggior parte dei casi, sono grandi feudi dell’entroterra, cariche, splendide ville – e la corte di don Angel de Gusman Marchese di Castel Roderigo che, per usare un termine caro all’autore, è un vero puttanaio. Così quando, in punto di morte, il Viceré nomina come suo successore la moglie Eleonora de Moura, i cortigiani pregustano già la facilità con cui si faranno gioco del nuovo governatore, giovane, donna, vedova e per giunta cresciuta in convento. Quello che non possono immaginare è che donna Eleonora si rivelerà, rispetto ai suoi predecessori, una brezza marina nella canicola estiva. Appena 27 giorni di regno – esattamente il tempo che impiega la luna per compiere il suo moto di rivoluzione – le basteranno per rimettere a posto con intelligenza e buon senso la disastrosa situazione sociale e politica ricevuta in eredità dal marito: abbassa il prezzo del pane placando i disordini popolari, riforma gli ordini di maestranze, si prende cura delle giovani a rischio. Una politica, in fondo, null’altro che normale, in un tempo in cui la normalità è rivoluzionaria. E, come molte rivoluzioni, dura poco, perché donna Eleonora non può nulla contro la gretta, banale ignoranza delle accuse di stregoneria che alla fine le toglieranno il trono.

Il romanzo storico, come tutti ricordiamo dallo studio dei Promessi Sposi, è un genere letterario che mescola la realtà dei fatti storici e la fantasia dell’autore sulle avventure che coinvolgono i personaggi. Fattore che dette slancio alla nascita di questo genere, oltre all’interesse romantico per la storia e il passato e alla nascita di un sentimento nazionale, fu il bisogno di una letteratura popolare che sapesse rispondere alle richieste di quella classe borghese in ascesa che richiedeva letteratura d’intrattenimento ed avesse a cuore, allo stesso tempo, una riflessione sulla natura dei rapporti umani e sul significato della Storia. Ecco perché La Rivoluzione della Luna suona un po’ come un invito a cogliere le analogie tra la corte palermitana del XVII secolo e i clientelismi della politica moderna; la fermezza di donna Eleonora svergogna in un lampo le fanfare degli infaticabili trasformismi parlamentari, il suo imperativo umanitario svela il cinismo del mercanteggiare sulla vita di esseri umani a cui oggi siamo abituati. L’insegnamento, se di insegnamento dobbiamo parlare, e non di amara costatazione, è che probabilmente i vizi di forma e di sostanza dei palermitani del milleseicento sono gli stessi degli italiani del 2019. D’altra parte, per fare del facile gattopardismo, «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», anzi sembrerebbe che quattro secoli siano passati senza scalfire questo carattere essenziale del nostro Paese, questa ostinata ingovernabilità, che si percepisce ancora di più nelle epoche di travaglio, segnate da un oblio generalizzato della nostra memoria storica. Camilleri traccia il ritratto di un governatore ideale, non in quanto donna, secondo una divisione di genere veterofemminista per cui le donne dovrebbero aspirare a posizioni di potere sostituendo i colleghi uomini, ma in quanto persona dotata di eccezionali qualità morali, intelligenza, cultura, spirito umanitario, senso partico e rifiuto categorico di qualsiasi forma di disonestà. Qui la regalità della donna emerge in maniera perfettamente paritaria, in quanto investista di responsabilità civili al pari di un uomo, ammirata non per qualche romantica rarefazione lunare, ma stimata per le sue qualità concrete, per il suo ruolo attivo ed utile nella società. La luna, nel suo pallore aereo, non è mai stata così terrena come in donna Eleonora de Moura.

di Silvia Ingusci, all rights reserved

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