"Lavoro su me stesso": è un medicinale, può avere effetti collaterali.

di Adriana Bonomo

"Lavoro su me stesso": è un medicinale, può avere effetti collaterali.

di Adriana Bonomo

"Lavoro su me stesso": è un medicinale, può avere effetti collaterali.

di Adriana Bonomo

 

E’ di moda, all’inizio o alla fine di una zona grigia della vita, esclamare tanto con esibito orgoglio, quanto con umile sofferenza: “voglio lavorare su me stesso”.

Formula laica per far riferimento a un nuovo farmaco della società moderna: la PCR applicata alla psicologia.

Si tratta della manipolazione psicologica che ognuno di noi pratica su se stesso, quando le nostre sinapsi reagiscono alla vita in un modo che non ci piace affatto.

Come la reazione a catena della polimerasi (noto acronimo PCR) permette di intervenire nel genoma umano, così ognuno di noi, preleva un gene dal proprio cuore, lo isola, lo moltiplica in vitro e lo impianta dove necessario. Si tratta di modificare l’errore ab origine. Il nostro cuore (inteso nella accezione non afferente al meno noto muscolo cavo) soffre? la sofferenza è una malattia da estirpare prontamente, prima che possa alterare le nostre funzioni cognitive e locomotorie. Niente convalescenza. Niente patimento. Botta di antibiotici e antidolorifici. Subito.

Come? Razionalizzazione delle cause, delle cure, della prevenzione.

Sintomi

Dolore, insonnia, troppo sonno, incapicità di concentrazione, compianto, pianto, dipendenze, spasmodico “capitano tutte a me”.

Diagnosi

Perchè provo questo? “Quella str#*/@ non riconosce il mio valore”. Quel *$@#** mi ha tradita. Quei **###%* non capiscono niente. Non è giusto!”.

Non ci basta. Andiamo sempre alla ricerca di una ragione più intima. Non a caso  ci diciamo  “devo farmene una ragione”. La febbrile ricerca della radice della sofferenza, dell’umiliazione del nostro orgoglio, dell’infrangimento del nostro equilibrio.

Due le possibili cause di sofferenza: esterne o interne. Ammettere che la sofferenza possa esserci arrecata dall’esterno, ci renderebbe impotenti dinanzi alla incontrollabilità delle azioni altrui (salvo l’extrema ratio del Guttalax nel caffè del capo o l’acqua ossigenata nello shampoo dell’ex fidanzato). Ci fa più comodo pensare che ogni turbamento dipenda da noi, dal nostro esserci lasciati andare, abbindolare, ingannare.

“Come ho potuto permettere che succedesse?”

Allora, in forza della legge dello sbagliando si impara (statisticamente la massima meno corroborata al mondo), ci ripromettiamo che ciò non accadrà più e iniziamo a rimettere insieme i cocci.

Terapia

Isoliamo le cellule sane della ragione, le coltiviamo in vitro, rimuoviamo il gene del male e impiantiamo il piacere catastematico tra atrio e venticolo sinistro.

Tentiamo di confessare a noi stessi solo la verità matematica dei fatti, ridimensioniamo il valore dei sentimenti, li iscriviamo nella “corretta” classifica dei valori dell’esistenza. Anche se incapaci di minimizzare il valore di quella lacerante sofferenza, anteponiamo a ogni umano sentimento l’importanza del Me, del Me Stesso e del Me Medesimo.

PostOp

Naturalmente, una volta passata l’emergenza, abbassatasi la temperatura, non bisogna abbassare la guardia. Prevenire e meglio che curare. Bisogna estirpare ogni causa di sofferenza: reale, imminente, o anche solo remota o potenziale. Allora tagliamo i capelli, ci iscriviamo a un corso di yoga, compriamo formaggi francesi e impariamo a cucinare Thai. Costruiamo muri di immagine e di accuratezza.

Ci prescriviamo il tetrafarmaco epicureiano (dal quale mutua il nome il noto materiale tetrapak): infila le emozioni in un sacchetto e sigilla sottovuoto e in ambiente sterile.

E questo aiuterà? Senz’altro. Il tetrapak mantiene gli organi a lunga conservazione.

A volte, riusciamo addirittura a trasformarci in impermeabili utility maximizers.

Altre volte ancora – ainoi – un amore, una emozione, una sorpresa inaspettata (maledetta imprevedibilità del destino) potrebbe aprire nuovo il vaso di pandora.

La manipolazione psicologica è, secondo molti, il frutto maturo dell’emancipazione dell’individuo dalla società. Nell’opinione di pochi altri, è proprio il logico risultato della nuova società individualista.

Cos’è l’individualismo se non la volontà di controllo su se stessi, sul proprio destino e sulla propria psiche?

L’autodeterminazione esasperata, la manipolazione delle abitudini, del proprio corpo, del proprio carattere, della propria fragilità. L’individualismo ci insegna che “yes we can”, ma dobbiamo riconoscere a noi stessi che non sempre possiamo.

Lasciamo il “yes we can” alla propaganda e riconosciamo che siamo umani, che sappiamo piangere, ridere, arrabbiarci.

E non è detto che la fragilità o le scottature siano un male. Perchè la passione e la sofferenza, l’entusiasmo e la tristezza, non sono che poli necessari di una vita che senza l’uno non avrebbe l’altro. Soffocare ogni dolore non è che spegnere ogni entusiasmo.

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