IL LAVORO EXTRA DI UNA COMMESSA. SU UN’ISOLA

di Libera Calise

IL LAVORO EXTRA DI UNA COMMESSA. SU UN’ISOLA

di Libera Calise

IL LAVORO EXTRA DI UNA COMMESSA. SU UN’ISOLA

di Libera Calise

Il lavoro extra di una commessa

Di tutte le stranezze a cui ho assistito durante un mio esilio isolano, una riesce a toccare il mio cuore e a lasciarmi sospesa su un velo di malinconia.

Le patologie sono tante. “I fenomeni di speciazione sono particolarmente evidenti nelle isole in generale”, si ripeteva Darwin negli anni della gestazione della sua teoria. E questa frase mi torna in mente quasi ogni giorno, quando mi capita di confrontarmi con un autoctono.

Depressione, perdita del contatto con la realtà, esaurimenti vari, rabbia incontrollata, insensatezza nei comportamenti e nelle parole, migliaia di manie diffuse. I confessori di questi individui? I negozianti, più di chiunque altro, disponibili ad ascoltare, sono gli interlocutori ideali, a cui si confidano i propri lutti, a cui si lascia un proprio dolore che si alleggerisce momentaneamente. Un dolore qualsiasi, uno sfogo passeggero, che si consegna ad un personaggio esposto al pubblico pronto ad accollarsene il carico. I medici, i preti, i maestri fuggono, troppo professionisti per sprecare tempo.

La commessa, invece, di tempo ne ha. Mi sono trovata, perciò, involontariamente, a vestire la maschera di confidente spettatrice. Ho ascoltato storie d’amore finite male, ho ascoltato storie amare di malattie o di litigi, ho visitato stanze private in cui avvenivano unioni intime e fedifraghe, ho sopportato l’imbarazzo nel sostenere uno sguardo inebriato da un sonno terreno, ho provato a dare consigli di vita, proprio io che non credo esista un manuale d’istruzioni.

Di tutte le storie una mi colpisce ogni volta. È un quadro che non mi viene spiegato, che non mi viene posto davanti. Mi ci ritrovo dentro, tutte le volte che il protagonista entra.

Così ci incontriamo io e lui su questo palco. In scena è la sua attesa. L’attesa di un matrimonio che mai avverrà. Mi ripete di non aver paura, Patrizia verrà e lo sposerà. Lui l’aspetta. Lei gli dice di amarlo e di aspettarla, gli dice che presto arriverà. Lui mi dice di non temere, il prete è pronto, l’abito intonso nell’armadio, fiori e confetti già prenotati. La chiesa è allestita.

La sua è un’attesa vana. È l’attesa di tutti noi. Lui ha scelto però: ha scelto di aspettare Patrizia, che forse verrà. Ma sono anni, ormai, che la aspetta.

Dalla soglia mi dice che Patrizia ha chiamato un’altra volta. Gli ha detto che è l’amore suo e che presto arriverà. Dobbiamo solo aspettare. Tutti i giorni sono uguali. Ma noi aspettiamo. Mi porta il caffè. E intanto aspettiamo. Lui, come Didi e Gogo, aspetta qualcuno.

Quando va via mi sento come se il sipario si fosse chiuso mentre ancora mi diceva di aspettare.

Quando va via penso a quanto di lui ci sia in me, e a quanto di diverso da lui ci sia in me.

Lui ha dato un senso alla sua attesa. Non come me, che aspetto, come tutti, che aspettiamo, non so cosa, non sapendo di aspettare. A volte mi sembrano insane le coscienze del momento. Perché nutrire la sete di ragione con fatui progetti, con effimere aspettative? A volte perdo la sicurezza di tutti i porti che ho varcato.

Quando esce di scena mi fermo senza giudizio, senza domande, senza conoscenze. E mi aspetto, aspettando un’attesa o una storia di un’attesa.

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