L’Arminuta e La Simmetria dei desideri

di Federica Piacentini

L’Arminuta e La Simmetria dei desideri

di Federica Piacentini

L’Arminuta e La Simmetria dei desideri

di Federica Piacentini

De L’arminuta ho amato due cose: la terra e la scrittura, l’una specchio dell’altra. Quell’Abruzzo non distante né diverso dalle mie valli, dai miei mari. Una terra di disincanto e fervore magico, ancora ferita dalla furia e dalla devastazione, in attesa di resurrezione. Una terra scavata e profanata, lontana dalla profondissima quiete leopardiana che la protagonista incontra nello studio e nei libri.

L’“arminuta” è un’anima fragile, una figlia ceduta alle cure di un’altra famiglia – benestante, istruita, affettuosa – e d’improvviso, senza una ragione apparente, restituita. Le luci si spengono e quella vita amata, disseminata di panni ben stirati, attenzioni e tulle rosa per l’ora di danza, svanisce. E lei, dignitosa persino nello smarrimento – una ragazzina viziata, di città, snob, agli occhi dell’imposta congrega rumorosa e numerosa, dove il cibo sulla tavola è scarso quanto l’igiene e i letti non sono sufficienti, in cui si comunica attraverso un dialetto arso dalla quotidianità senza troppe smancerie –  s’interroga notte e giorno sul motivo per il quale l’amore dei suoi genitori, presunti e non reali, si è spento. Questo senso di colpa che vibra tra le righe è la conseguenza dell’abbandono, dell’aver commesso un errore per il quale non è stato possibile rimediare o chiedere scusa. Su una babele di nuovi volti, tra i quali spicca quello di Adriana, la sorella ritrovata e mentore nel nuovo mondo, la “ritornata” dovrà arrampicarsi per tornare a vedere spiragli di verità, poiché quella che le è stata raccontata per anni ne è una copia stropicciata. Se da un verso L’arminuta è una storia di abbandono, dall’altra è un’estenuante ricerca del vero; se da un lato avanzano famiglie spezzate in cui c’è sempre posto per un figlio che torna a casa, dall’altro si interrogano le madri, che accolgono finché il grembo è vuoto. È un salto, questo romanzo, nel mondo arcaico dei sentimenti, degli affetti, un’immersione a fiato stretto in una autenticità spesso dura da accettare. Colei che è resa, il fantasma shakesperiano dal volto adunco e lo sguardo fermo, incarna ed evoca Ulisse, e lo stesso accade a noi ogniqualvolta s’intraprende la via del ritorno, delle radici, della casa genitoriale. L’esperienza narrata dalla scrittrice abruzzese si sofferma dunque sulla parte più difficile del viaggio, la sua conclusione. Specchiarsi e trovarsi cambiati, voltarsi e osservare la realtà cruda di ciò che siamo o siamo stati.

Di questo scrive con notevole maestria Donatella Di Pietrantonio, adoperando uno stile che non vuol farsi pregare, che non ammalia né seduce, ma che si cala con coraggio nelle brune profondità delle relazioni. Scegliendo con cura ogni parola e scolpendola affinché appaia in ciascuna lo sguardo fiero dell’”arminuta”, la scrittrice ha tracciato un sentiero aspro, severo e commovente, invitando i lettori a ripercorrere il proprio ritorno, affrontare l’abbandono e il senso di colpa, ad accettare i solchi cavernosi della propria corteccia. Uno strappo d’amore descritto con una lingua calviniana, misurata, potente, stratificata, in cui le parole siedono al loro posto come in una mensa. Una lingua che è talvolta un boccone amaro da masticare, che si fa fatica a digerire: ma d’altronde, è davvero digeribile un abbandono? È davvero digeribile, per chi ha già dato un morso a una vita colma d’amore e agiatezze, dovervi rinunciare per una realtà fatta di viuzze impervie, di pochi sorrisi e nessuna leggerezza, di nessun libro e ancor meno speranze per un futuro, di sguardi maschili sgraditi e già smaliziati? Per questa ragione la lingua è come la terra e la terra è come l’anima: L’arminuta, la cui vittoria al Premio Campiello non ha certo stupito, usa lo strumento principale della narrazione, la lingua, per interrogare la protagonista e tirarne fuori il rammarico, il rimpianto, la malinconia, la rabbia, il decoro, la forza. Uno stile asciutto che può essere adornato soltanto dalle emozioni del lettore. È un inganno e un incantesimo, questo romanzo, qual è la vita stessa. È una famiglia spezzata e ricucita punto dopo punto con silenzioso dolore, come succede nell’opera di Eshkol Nevo, La simmetria dei desideri.

Pervaso nella seconda metà dallo stesso senso di colpa che bagna le pagine di Donatella Di Pietrantonio, l’opera può essere considerata una sorta di inno all’amicizia. Tutto qui si salva dal disfacimento grazie a quell’unico sentimento che può sopravvivere alla necessità del dare per avere e dunque al tempo. Nevo, scrittore israeliano tra i più apprezzati, costruisce un’affascinante storia tra quattro amici – Yuval, Churchill, Ofir e Amichai – che durante la finale dei Mondiali di calcio del 1998 decidono di affidare a dei bigliettini sogni, desideri e ambizioni da leggere e realizzare sino alla prossima competizione. La narrazione riguarda questi favolosi e terribili quattro anni in cui le vite si ribaltano e accade tutto ciò che è imprevedibile nell’esistenza di un individuo, come se Nevo volesse ricordarci che più della nostra volontà fa un ingestibile destino. Anche quando però le onde dell’imprevedibile si fanno alte e pericolose, di colpo veleggia un giubbotto gonfiabile, un salvagente, una corda, qualcosa o qualcuno che risana. Sullo sfondo, Israele, la Palestina, la questione irrisolta per la quale continua a essere versato sangue. Ma Nevo, da scrittore consapevole ed esperto, non entra nel merito e lascia che le ombre si alzino e si mostrino di tanto in tanto alle spalle dei suoi ragazzi. Nel mezzo di una trama avvincente, che rapisce il lettore rendendo fluida la lettura del volume di 351 pagine, l’autore inserisce pagine straordinarie dedicate al sentimento d’amore tra adulti, quello già sondato nei suoi frammenti da Saffo. Un legaccio, una fune, e nello stesso tempo un biglietto aperto per un magnifico viaggio in compagnia e in libertà.

La passione che si agita ne La simmetria dei desideri, il cui titolo è parte della stessa narrazione ma non ve ne svelo il motivo, attraversa ed esalta le grandi trasformazioni e insieme i dolori, le rinunce, le incomprensioni, allontanarsi e ritrovarsi come se gli anni non fossero passati. Alessandro Piperno lo definisce “uno dei libri più significativi e toccanti in cui mi sia imbattuto”. Quoto. Se in Donatella Di Pietrantonio s’impone la lingua, offrendo la squisita opportunità di assaporarne gli spigoli e le dolcezze, in Nevo si erge il grandioso tronco della narratologia, percorso da una deliziosa ironia e da pillole di senso e comprensione che s’imprimono nella mente. Non risparmia le delusioni, il disinganno e il fallimento, in alcuni casi, dell’amicizia, movimenti che sono parte della girandola cosmica, capace di afferrare e trascinare prima in alto poi in basso e ancora in alto. Ciononostante, in un passo si legge: “Non ti rendi conto di quanto siamo fortunati a esserci l’uno per l’altro, non te ne rendi conto.” Ho trovato assai vera questa affermazione e credo sia una dichiarazione d’amore tra le più oneste e durevoli, quelle che si portano nel petto con gratitudine. L’arminuta e La Simmetria dei desideri possono apparire romanzi lontani. Eppure occupano la stessa scialuppa, ovvero l’ambita capacità di ritrarre l’uomo nelle sue manchevolezze e nelle sue virtù, anche quando il fondale appare scuro, profondo e spaventoso.

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