Storie di una Repubblica – La vedova bianca

di Vittoria Favaron

Storie di una Repubblica – La vedova bianca

di Vittoria Favaron

Storie di una Repubblica – La vedova bianca

di Vittoria Favaron

<<La morte nu vaje a ci tocca ma vaje a ci ttoppa>>

La signora Antonietta sgusciò dalla porta di casa, portandosi con sé le 3 sedie pieghevoli di legno castagno.

Le posò poco distanti dall’uscio, ne aprì una e si sedette. Era in attesa di Filomena e Concetta per la consueta chiacchiera del pomeriggio, precisamente nell’ora in cui il sole supera i palazzi intorno e non picchia più sul lato della sua casa.

Seduta, con in mano il pacchetto di preghiere per la Madonna e per Sant’Agata, con il rosario avvolto intorno al braccio, Antonietta era solita voltarsi verso la facciata della chiesa di Santa Teresa, per smorzare l’attesa delle due donne.

 L’ombra della luce delle cinque batteva a contrasto sulla pietra leccese, esaltando i rivoli del marmo e le pieghe intarsiate del barocco ruggente di cui traboccava ogni angolo della chiesa.

Antonietta poteva ammirare via Libertini che viveva il suo momento di pace quotidiano.

La serranda de “La bottega del pane” era semi alzata, il figlio del fornaio, un bambino di cinque anni vispo e dalle gote porose come la patina della farina setacciata, era intento a scorrere con il suo triciclo rudimentale di fronte al negozio, avanti e indietro, sotto la stretta vigilanza della madre Carla.

Il signor Tonino, il meccanico del quartiere, era impegnato a fissare la pompa dell’aria alla ruota di una bicicletta scassata e dall’improbabile riparazione. Tuttavia Tonino non intendeva desistere dal sistemarla, e ogni pomeriggio di buona voglia provava ad aggiustarla, ma con vani risultati.

La Boutique del Cucito della signora Pia era ancora chiusa, causa l’abituale pisolino che si concedevano lei e la figlia Piera prima dell’apertura serale.

La drogheria di Gigi, all’angolo di via Santo Venera restava aperta fino a tardi, a beneficio dei frequentatori del grappino serale, anche se le ore pomeridiane registravano  poco movimento, come quello inferto dalla calda brezza di maggio  ai filamenti della tendina di plastica.

Sul sagrato della chiesa sostavano anime di gioventù. I bambini, con le loro macchine giocattolo.

 Le bambine, con le conchiglie e le pietre raccolte sulla spiaggia di Torre Chianca.

Poco distanti dalla scalinata si riunivano i più grandi tra i giovani, i primogeniti figli del rione, chi con le tute da lavoro e le mani sporche d’olio, chi con la camicia di lino fresca di bucato e i libri sotto l’avanbraccio.

E poi le ragazze, le “vagnone”, prese dallo struscio pomeridiano, oggetto delle vedute innocenti dei ragazzi più timidi, come degli scrutamenti approfonditi  da parte dei giovani più baldanzosi e infine dei commenti lusinghieri dei “rattusi” di professione.

Al passaggio delle ragazze, Antonietta prestava più attenzione. Ferma nella sua sedia, spettatrice privilegiata di quello spaccato popolare, non disdegnava la visione delle giovani che varcavano il corso, con le loro gonne sotto il ginocchio e i twin-set dai bottoni di madreperla, compite e vicine nelle chiacchiere civettuole consumate a bassa voce.

Antonietta contemplava le acconciature di quelle giovani, la fermezza del loro riserbo e il mantenimento di quel registro comportamentale che non pareva perdersi tra le consuetudini di quella generazione esordiente, figlia di quei tempi.

Riserbo che lei stessa applicava in quella premurosa radiografia cittadina.

Ogni tanto veniva distratta dal passaggio di qualche bici in corsa che distoglieva la sua attenzione e portava il suo sguardo a dirigersi altrove. Ogni tanto era Antonietta che rinunciava alle visioni del meriggio, per tutelare il disincanto del suo sguardo da accuse d’invadenza o di futile pettegolezzo paesano.

Intanto al bar di Uccio si consumavano le discussioni tra gli adulti, principalmente uomini e anziani. C’era chi s’inalberava per la politica, chi rimpiangeva la monarchia, chi si perdeva in nostalgie facilone, chi tentava di spostare la discussione sul calcio, e chi restava semplicemente  in silenzio, occhi fissi sulla pagina del giornale locale.

Ad un tratto Antonietta iniziò a maneggiare la sedia, spostandola un po’ più a sinistra, aiutandosi con le gambe, nel tentativo di ritrovare un po’ d’ombra dalla luce del sole, improvvisamente sgusciata da dietro un palazzo.

Quando rialzò la testa, i suoi occhi puntarono le sagome di Filomena e Concetta che avanzavano verso di lei lungo la strada.

Un fascio di luce scagliato contro il viso le distolse la vista. La donna si fece scudo con il palmo della mano come a ripararla da quell’incursione solare non gradita, quando il suo sguardo fu catturato da qualcosa.

Sul ciglio di via Sepolcri Messapici, Antonietta notò una ragazza, intenta a riversarsi su via Libertini per dirigersi presumibilmente nella direzione che portava alla piazza del Duomo. La donna fece caso al passo della sua camminata, alla postura delle spalle, ma il suo occhio si concentrò soprattutto sulle movenze dei capelli lunghi, di un castano tenue, che ondeggiavano seguendo il moto di un vestito bianco con la mezza manica che scendeva scampanato sulle gambe magre e affusolate della giovane.

Ebbe il classico sussulto di chi avverte la confusione della fisionomia altrui, nell’insicurezza di aver scambiato una persona per un’altra, senza possedere la certezza su quell’identità.

Accadde questo ad Antonietta, che si portò il rosario al petto e diede due colpetti impercettibili, nel preciso momento in cui Filomena e Concetta si presentarono davanti, fissandola con sguardo interrogativo.

<< C’è sta passi Ntoniè?, pare ca hai vistu nu fantasma!>>, esordì Concetta.

<<Lassa me siettu Concetta mia, ca l’hai minata pe cogghiere ma c’hai pigghiatu quasi…>>rispose Antonietta. << Ntantu sittatibu…>>

<< Ma c’è sta predechi Ntoniè? Lu sule t’ha stunata?>> aggiunse Filomena, con la sua risata fragorosa, mentre si accomodava sulla sedia, di concerto con Concetta.

<< None, none, lassa perdere… m’è parsu de bbidere la Nives. Bu la ricordati la Nives?>> Replicò Antonietta ad entrambe.

<< La Nives? Sta dici la Nives De Giorgi, la figghia te la Marisa e di mesciu Totò? Ma paccia sinti?>> riprese Filomena.

<< Ma daveru sta dici? Ma te sta sienti bona Ntoniè? Ma ci sape quiddha cce fine ha fattu.. Ca nu se ite da n’annu…Povera figghia…>> attaccò Concetta.

Antonietta restò in silenzio, scoraggiata dalle repliche sprezzanti delle due donne e ancora stordita da quello che le era accaduto poco prima.

La visione di quella giovane le fece affiorare il ricordo di Nives.

Era trascorso quasi un anno dal 2 di giugno del 1961.

Ci sono città che con le proprie forme, pendenze e spazi forgiano coloro che le abitano, come per restituire alle generazioni successive il lavoro che i fondatori fecero su di esse in primo luogo. Questa legge, quasi scientifica, è tanto più vera, quanto più il centro urbano è unico nel suo genere.

Sceso dal treno a Biella, mi sembrò subito di essere in una città fatta d’acqua. Bagnato fradicio mi buttai nella Seicento di Enzo, che partì guidando veloce su strade a cubetti nere e scivolose, poi lungo un torrente che schiumava più in basso, infine su per ripide curve, percorse ai lati da scoli fangosi. Fuori dal finestrino, un muro d’acqua cadeva dal cielo di gennaio più grigio che avessi mai visto; il rumore del tergicristalli sul vetro e la pioggia coprivano la sua voce, ancora più squillante ora che la sentivo dal vivo.

 <<Quista ete la Mànceister d’Italia, Rocco, qui se fatia beddhu miu, c’è posto pe tutti!>>, urlò felice Enzo, la prima volta che parlammo al telefono.

Suo padre era fornaio, teneva bottega proprio di fronte alla Calò&figli, ed era cresciuto giocando su via Libertini con mio papà. Un bel giorno gli comunicò di aver mandato Enzo al nord, in Piemonte, a tentare la fortuna nel mondo dell’industria <<comu la fanno in Europa, che gli vagnuni suntu troppu spierti pe nascere e murire quaggiù. Me spiegu Pici? Roccu nu duvrà fare lu squagghiafierru pe sempre>>.

Da quando ci eravamo scambiati i numeri, le telefonate con Enzo da Biella erano diventate un appuntamento fisso della sera. Mamma in quei momenti trovava sempre una faccenda da sbrigare in un’altra stanza: io lo so che lo faceva apposta, perché si rattristava a sentirmi parlare di partenze verso posti lontani.<<Eddai Nunzia, mica sta parte cu l’esercitu lu figghiu tou!>> le diceva papà, ma lei alzava le spalle e scuoteva la testa; allora lui la tirava a sé e la abbracciava forte, le baciava la fronte, la consolava come una bambina. Ecco perchè volevo partire io. Partivo per amore, per fare felice la mia Nives.

Ci arrampicammo fino al borgo medievale detto“il Piazzo”, in cima ad una collina attraversata da un’unica strada per le macchine. Enzo lasciò me e la valigia sotto i portici intorno a una piazza lastricata di pietra liscia e scura, fatte apposta per far scorrere via tutta quella pioggia. Mi disse un’altra volta che mi sarei trovato bene dalla signora Maria, e che l’indomani mattina mi aspettava giù dal colle, aggiungendo:<<pigghia  la prima funicolare cu scindi, vedi che qui se ncigna prestu presto e tocca nu sgarri>>.  Fortunatamente mi aveva raccontato tutto per filo e per segno, persino del bar dove comprare i biglietti e bere un bicerin << ca lu cafè a quai nu bbè fiaccu ma cu lu latte e lu cioccolatu è megghiu cu te scarfi nu pocu>>. Così, entrai nel palazzo senza troppe domande per la testa, almeno non su quello che dovevo fare al mio risveglio.

La padrona di casa, una donna anziana ma in salute, con lo sguardo schietto e il corpo affaticato di chi ha lavorato una vita intera, mi aveva salutato con un“Buonasera, fieul”e una bella stretta di mano. Ribadì il prezzo dell’affitto concordato e si ritirò svelta nelle sue stanze; nessuna domanda, non una parola in più del necessario. Eppure in cucina trovai una pentola di brodo fumante, del pane fresco e un pezzo di formaggio lasciati per la mia cena. Pensai che, forse, con tutta quella pioggia e quel freddo, la signora Maria aveva solo bisogno di essere asciutta nei modi e attenta a non dissipare calore ed energie. Per proteggersi. Ed io dovevo imparare a fare altrettanto.

Stasera, tornando a casa dopo il decimo giorno di lavoro, ho ripensato a questa faccenda della città fatta d’acqua. Il lanificio è come una cosa sola con il Cervo: non si capisce più se l’hanno costruito per sfruttare l’energia dell’acqua che scende veloce dalle montagne, o se è il torrente che prende dal lavoro di noi operai la forza di scorrere sui sassi. L’acqua lava la lana che noi cardiamo, porta via la sporcizia che viene dall’Australia, dal Perù, o da altre terre lontane dove vivono le pecore da cui la lana è stata tosata. E chissà dove andrà a finire ancora quel sudiciume, portato dal vortice del torrente…

Nives, amore mio, sento che qui grandi cose sono possibili: un futuro felice ci attende.

“La ruta ogni male stuta, la marva te ogni male te sarva.

La ruta ogni male stuta, la marva te ogni male te sarva.”

Parole ripetute a manovella, come se fossero pezzi di una filastrocca infantile, e in fondo un po’ lo erano.

Le parole di mia nonna, servitemi addosso con un fare apprensivo mescolato a veglia affettiva.

Quell’unica nipote, io, che me ne stavo seduta sui gradini della Chiesa di Sant’Anna, con il capo chinato, quasi perso nello spazio tra le ginocchia e le pieghe della gonna. I capelli a farmi da velo. A segnare il distacco tra me e chiunque volesse interagire con il mio riserbo.

Mia madre un giorno mi raccontò che il bouquet di fiori delle sue nozze, lo andò a comporre la nonna.

<<Niente fiuri mutu sgargianti sai?>> Tuonò contro il fioraio, con i suoi modi spesso troppo autoritari per una donna minuta ed esile come lei.

La nonna commissionò un bel mazzo di rose bianche e calle, ma ci tenne a chiedergli di inserire un mazzetto di ruta selvatica e  tre fiori di malva.

<<La ruta tocca serve cu scacci lu demoniu e la malva cu te purifichi l’anima>>.

La mamma mi disse che non gradì la presenza di quell’erbaccia tra i suoi fiori e non provò alcuna suggestione positiva quando apprese il perché della loro presenza.

<<Figghia mia tocca mangi la ruta, cussì Satana se ndiesse via>>.

La nonna ci teneva molto a riproporre la sua scorta di credenze popolari, leggende legate al demonio, rimedi improbabili contro Satana, persino più potenti delle preghiere e della messa della domenica.

Quando m’incontrava vicino alla chiesa o a casa nostra, non mancava mai di recitarmi la sua filastrocca

<<La ruta ogni male stuta, la marva te ogni male te sarva>>.

Non smetteva di ripetermelo, fino a che i miei occhi non le comunicavano un sentimento di approvazione e a quel punto, soddisfatta del suo operato e di avermi certamente salvata dal diavolo, ritornava nella sua corazza, composta e distaccata.

Mia madre mi dice spesso: hai <<il corpo della nonna>>, e per lei è un gran complimento, ma si fermava li.

Vorrebbe tacere sul piglio severo della vecchia, ma sembra che a parlare siano i nostri gesti, spesso compromessi da tanto livore, spesi nel quotidiano ma in modo del tutto inconscio.

Sono seduta sul sagrato della chiesa e di fronte a me riesco a vedere l’officina di tuo padre, Rocco.

Ricordo di averti raccontato questa storia e ricordo il fragore della tua risata, che non riuscisti a trattenere, e le tue scuse successive, la tua paura di aver offeso mia nonna e di aver compromesso la tua immagine ai miei occhi.

Tutt’altro. La delicatezza di ogni tuo gesto e la dolcezza del tuo sorriso, la distensione sul tuo volto non erano tradite dalla callosità delle tue mani e dalla durezza della tua pelle.

Non ricordo neppure perché parlammo solo dei fiori e non del resto della cerimonia, degli invitati, della cena. Stavo giocando, e queste scale lo sanno, perché tu esordisti dicendomi che volevi vedermi vestita solo di gigli bianchi, perché <<tie sinti comu nu fiuru, ma lu cchui beddhu de tutti.>>

E io ridevo, per smorzare il mio imbarazzo, e anche il tuo, che mi parlavi in dialetto per celare vergogna, quando dovevi dirmi qualcosa di importante.

Il sagrato della Chiesa di Sant’Anna era il luogo prescelto dei nostri incontri. Io giungevo e aspettavo che chiudesse l’officina, cercando di intravedere da lontano i movimenti di tuo padre, quando era prossima la chiusura. Pici prendeva il catino dell’acqua e se lo portava vicino, abbassava la fiamma e spostava i pezzi di ferraglia sul tavolo per farli raffreddare. Ti chiedeva di portagli uno straccio pulito mentre ti passava quelli sporchi che andavano messi in una cesta da consegnare a tua madre Nunzia.

Tu eri ligio, seguivi attentamente le sue indicazioni.

E sapevi che ti stavo guardando.

Lo sapevi, e senza farti accorgere dal babbo, voltavi lo sguardo verso la strada e mi vedevi seduta sulla scalinata. Mi accennavi un sorriso di complicità, che stava a dire  “Aspettami, ho quasi finito”.

E io ti aspettavo, e ogni tanto ti portavo una panella di puccia comprata da Gigi, o le focaccine che preparava mia madre.

Restavamo per un’ora. Un’ora ogni giorno, che per noi rappresentava un tempo prezioso e dilatato.

Quando gli occhi curiosi del quartiere non rimanevano su di noi, tu mi prendevi la mano e mi portavi dietro vico delle Giravolte, per concedermi un bacio dolce, timido, quasi avessi paura di spezzarmi, o che potessi scivolarti via.

Ricordo le nostre ultime sere. Quando con voce tremante mi sussurrasti: “Sposiamoci” e i tuoi occhi sudavano amore e paura, nell’attesa del mio si.

Ricordo quando parlammo per la prima volta di scappare dalla miseria della nostra città. Fuggire da Lecce, dalla sua bellezza opulenta ma che non ci riguardava, dal progetto inevitabile di una vita amara e piatta, fuori dalle logiche ricche e da un futuro che non avrebbe parlato di noi.

“Non posso sopportare l’idea di squagliare il ferro per tutta la vita, di imputridirmi le mani di fuliggine e olio, di bruciarmi le dita per guadagnare il poco che serve per il pane.

Come potrei toccarti con quelle mani, Nives? Come potrei renderti felice? Non è questo il nostro posto, non deve esserlo”, era quello che continuavi a ripetermi.

E io mi limitai ad annuire, a guardarti come si guarda un mago o un ciarlatano in procinto di sfoderare il suo trucco migliore, trattenendo il fiato, nella speranza che riesca.

Camminammo verso casa e io mi voltai verso la Chiesa di Santa Teresa e ti dissi: <<è qui che voglio sposarti Rocco, in questa chiesa bella e triste, che  nessuno cura, perché la guardano distratti, tutti concentrati su Sant’Anna.

A mie nu me piace Sant’Anna, quidda ete na chiesa pe le signure ricche. >>

Così ti dissi, perché sentivo che a stento ci potevamo bastare.

Ricordo il modo in cui ricambiasti le mie parole. Avvolto nel tuo silenzio, immerso nel sogno che stavamo dipingendo, posasti quel sogno sul mio viso.

E io tacqui, commossa e piena di quel nostro amore.

Il ferro è un materiale antico e guerriero, a lavorarlo capisci che lui c’è sempre stato, ha ucciso animali e ferito uomini di ogni epoca, ed ora perlopiù riposa nei cancelli e nelle ringhiere. Però gli basta ancora poco per forgiarsi: del fuoco e i muscoli di un uomo forte. La lana invece é diventata una viaggiatrice dell’era moderna, di qualità diverse in ogni angolo di mondo, le servono dieci persone con varie abilità per prendere la forma finale. Se guardi i velli arruffati nel magazzino, e poi accarezzi le rocche di filato pronte ad esser vendute, fatichi a credere che siano fatte della stessa materia.

Mi perdo in questi pensieri, quando sono al telaio a pettine. La macchina liscia e mette in parallelo le fibre lunghe, arrivate dalla cardatura, per formare il nastro pettinato. (Il mio lavoro di controllo è fondamentale, se esce un nodo la fibra fa resistenza e si spezza; è da questo fatto che viene il detto “tutti i nodi vengono al pettine” . Me lo disse Enzo, orgoglioso della scoperta, il primo giorno che mi misero alla postazione accanto alla sua. Dopo due mesi passati a districare e pulire la lana, Franco mi spostò al lavoro di precisione, perché, sono un ragazzo spiertu : <<ricordi me da giovane, Calò>>, mi disse un giorno. A quanto pare il mio cognome si presta meglio del mio nome alla cadenza di qui, piena di o, u chiusissime o accentate, parole lasciate a metà. Il principale si fida ciecamente di Franco, ma tutti i santi giorni viene anche lui in fabbrica, in mezzo a noi. Spesso esce dal suo ufficio, tasta le ciocche, controlla le balle, ha un’aria fiera e sicura ma non da superiore. Veste elegante ma non porta la cravatta, e lavora tante ore quanto noi, se non di più: “Ha maneggiato plucc tutta la vita, iniziando proprio come te e me. Ci vuole sacrificio è umiltà”.

Oggi in pausa pranzo eravamo seduti sulla panca di pietra, Enzo ed io, a scaldarci le ossa al sole di giugno; aldilà della rete metallica, scende ripido l’argine del Cervo che, gonfio delle nevi sciolte, borbottava contento del nuovo calore. Vedrai quant’è bello più a monte, mia Nives, coglieremo campanule e viole, respirerai l’aria pura della valle. Tra due giorni vengo a prenderti, a giurare il mio amore eterno davanti a Dio, e non riesco a smettere di cercare le cose più belle di qui, da imparare, vedere, e godere, per poi metterle tutte quante nella nostra nuova vita insieme. Ora che sono un vero uomo, potrò prendermi cura di te e dei nostri bambini.

Ci pensò Giuanin a interrompere le mie fantasie. E’ un ragazzetto in gamba, iscritto al partito comunista; prima lavorava nella fabbrica più grande di Biella, dove si era battuto contro “i sistemi di polizia, Calò, robe da matti, i capireparto ci spiavano per mantenere la sudditanza!”. Le continue agitazioni avevano esasperato il titolare, che era giunto ad accordi con il sindacato: sorveglianza più morbida, e il Giuanin fora dai pe’. Gli trovarono così un posto in questo opificio, più piccolo e tranquillo, ma lui non si dà per vinto. “Ragazzi, entro la fine del mese ci sarà un grande sciopero in tutto il biellese, una vera e propria marcia dei tessili. Dobbiamo passare all’azione!”, ci disse oggi col solito fare” ncazzusu”. Lo guardai semidivertito, Enzo lo canzonò persino, e insomma gli risposi, come al solito, che proprio non capisco cosa c’é che non va nel nostro lavoro. Io mi sento davvero a posto quando vengo ogni giorno a guadagnarmi la pagnotta, sotto l’occhio paterno di Franco e del principale. “Calò, vivi nel paese dei balocchi. Abbiamo dei diritti intoccabili, bisogna lottare per farceli riconoscere e ga-ran-ti-re! Gli industriali vogliono solo aumentare il proprio capitale, costi quel che costi, e noi ci spezziamo la schiena, e i turni alle 7, e i salari invariati da anni…E la sicurezza? Chi ci protegge dai pericoli del mestiere?”. A questa proprio smettei di ascoltare, e chiusi gli occhi godendomi l’ultimo tepore prima di attaccare il turno pomeridiano.

Ho già preparato la valigia, madamin Maria conserverà i vestiti invernali fino al mio ritorno con te; ci tiene assai a conoscerti, mia Nives, e ci aiuterà a trovare un appartamento conveniente. Seduto qui, sul parapetto dei giardinetti del Piazzo, a strapiombo sulla città, cerco di tenere a bada l’emozione…il sole tramonta alle mie spalle, dietro le nere prealpi, signore che vegliano su queste terre indaffarate. Davanti a me, case, palazzi, strade, auto, la mia fabbrica, le altre fabbriche, le colline, e il Cervo che scorre, mai stanco. Mi sento pieno di vita come il torrente, in corsa verso il futuro, in corsa verso di te, amore.

Antonietta entrò in Chiesa, tenendo tra le dita l’invito delle nozze, per sfoggiare la prova inconfutabile della sua presenza all’evento, cercando di trovare un posto libero tra le panche poste a metà del lungo corridoio.

Prima di accomodarsi, cercò di avvicinarsi alla signora Marisa per felicitarsi con lei prima della cerimonia. La trovò seduta in prima fila, chiusa in un tailleur di lino color carta da zucchero, con i capelli racconti in una velina di pizzo nera, gli occhiali da vista spessi e dai contorni di un rosso bordeaux cangiante.

Si abbracciarono affettuosamente, stringendosi le dita in segno di forza. La signora Marisa a stento tratteneva il pianto, sforzandosi di mantenere la compostezza dettata dal suo ruolo.

<<Speramu ca cangianu vita Ntoniè, ca quai se more du fiate. Una pe manu de Diu e una pe manu del Sud.>>

Antonietta sapeva benissimo a cosa si stava riferendo la signora Marisa, e si limitò ad annuire, cingendo le dita dell’altra in una stretta solidale.

<<è riatu Rocco?>> si limitò a chiedere.

<<None, lu figghiu ha pigghiatu lu trenu ierde sira, e sicuru stae ancora de preparativi.>> Replicò Marisa. Poi aggiunse: <<Ca dici ca porta male se trase in chiesa prima figghiuma de lu sposu?>>

<<None Marisa, statte tranquilla, sta cangianu li tiempi, mo nu se usano tutte le cerimonie de li tiempi nesci>>, rassicurò così la madre della sposa.

Congedatasi dalla signora Marisa, Antonietta portò il capo in direzione dell’altare e vi trovò Nives.

Era avvolta in un abito di seta morbido, che emanava una luce vistosa, che andava a mescolarsi con il riflesso dei raggi provenienti dal rosone esterno, che tagliavano la chiesa e battevano sulle pieghe del vestito.

I capelli erano chiusi in una treccia dalle morse lente ma ordinate, che s’intravedeva da un velo semplice, di un tulle quasi trasparente.

Era piegata sull’inginocchiatoio di velluto, tesa nella preghiera e completamente avulsa da tutto ciò che contaminava lo spazio intorno.

Antonietta rimase a guardarla Nives, rapita dal suo candore, che portava il peso di quel nome datogli dal medico che la fece nascere, quando se la ritrovò tra le braccia piccola e bianchissima.

La luce vibrante del pomeriggio regala l’immagine più potente di un sud così carico e presente, di quella Lecce dal barocco ruggente, attenuato a maniera dall’eleganza della sua pietra.

In quel 2 giugno del 1961, il manto solare costernava il quartiere e il suo tessuto umano era tutto presente nella Chiesa di Santa Teresa, in quell’affresco cittadino che andava a manifestare la sua dichiarazione d’esistenza.

Tolte le macchie di salsa e di olio da motore, la polvere della terra e dei sacchi da trasporto, indossato l’abito buono, tutti erano accorsi a celebrare le nozze del figlio di Pici Calò, sorridenti e impomatati per il ricevimento e  per le foto da repertorio.

Quel pomeriggio si andava per levigare la fiacchezza della noia, si andava per regolare il tiro della precarietà di un quotidiano che odorava di miseria e alienazione. Si andava ad applicare più sacrificio di quello impiegato nelle botteghe di strada, per sforzarsi di sentirsi “un qualcuno”, in una terra in cui sembra che il tuo turno non arrivi mai.

Ma di quell’assolato pomeriggio dei primi di giugno, gli abitanti della città vecchia ricorderanno la beffa e la disgrazia per un matrimonio mai avvenuto a causa di un destino che, come spiegato dalle parole di Filomena nei giorni a seguire, <<nu face le fusa an cielu, ma pianta le croci an terra>>.

Il candore dell’abito di Nives fu straziato dal rosso di un sangue che sgorgò ingrato sul suo sogno di felicità. Il sangue del suo Rocco, che non vide mai il vagone del treno per raggiungerla, perché strappato al mondo da un rogo infame mentre lasciava la sua fabbrica, fucina di quel sogno fattosi a brandelli.

Il sangue di Rocco non toccò mai il suolo natio, così come il suo corpo non giunse mai a casa. Restò la sua drammatica mancanza e restarono le grida colme di pianto di sua madre Nunzia, la cui eco rimbombò per giorni nei vicoli di via Libertini.

Restarono le scene di triste congedo di chi lasciò, poco alla volta, i gradini di Santa Teresa, svuotando la chiesa in un silenzio grottesco, con il capo chino e le lacrime a scendere sui volti attoniti.

Restarono le sagome gelide e immobili dei parenti di Nives, stretti nelle prime file delle panche della chiesa, paralizzati dall’impotenza di una tragedia così imprevedibile.

Restò Nives.

Rimase inginocchiata verso l’altare, senza alcuna esitazione nel voltarsi verso l’atrio della chiesa, senza concedersi alcuna sbavatura nei movimenti, quasi assorta e rinchiusa in una dimensione altra, lontano da quei luoghi, assente.

Nessuno seppe dire quanto tempo rimase lì dentro.

Nessuno la rivide più, dopo quel giorno.

Nessuno ebbe il coraggio di comunicare con la famiglia De Giorgi, né con i coniugi Calò. L’officina di Pici rimase chiusa per mesi. Una mattina sulla saracinesca il meccanico Tonino trovò affisso un cartello con su scritto: Vendesi locale.

Ma dei Calò nessuno seppe più niente.

Dopo qualche mese, nessuno mostrò più interesse per quella storia. Ogni cosa nel quartiere ritornò a procedere con la caducità quotidiana di una vita popolare.

Solo Antonietta ogni tanto ripercorreva quella vicenda, stretta tra sé e sé, nella solitudine del suo affaccio sulla strada.

Una volta sentì dalla vicina di casa che dei bambini avevano visto Nives entrare dentro Santa Teresa con l’abito da sposa e un mazzetto di erbacce in mano. Dissero che la videro ogni giorno, alle cinque del pomeriggio, varcare la soglia della chiesa e restarvi fino a sera tarda.

Alcuni sostennero che si era rifugiata nella piccola casa al mare di proprietà della nonna.

Le storie sul suo conto si fecero numerose e confuse, per poi svuotarsi e spegnersi nel dimenticatoio del tempo, restando vive solo in qualche sporadica chiacchiera tra donne e negli aneddoti raccontati al bar dagli amici di Totò Calò, detto Pici.

Molti dimenticarono il nome di Nives, per ricordarla come la vedova bianca.

Antonietta invece serbava il suo ricordo autentico e prezioso.

Il ricordo di quella giovane e del suo nido di dolci illusioni, l’immagine di quell’amore costruito sul marmo degli scaloni di Sant’Anna.

Il ricordo di Rocco e del suo fagotto di speranze.

<<È proprio vero che ci campa de speranza, disperatu more,>> disse Antonietta, lanciando un lungo sospiro.

Filomena e Concetta la guardarono interdette, ma lei non sembrava badare ai loro sguardi, era ormai assorta nell’osservare la strada.

 In cuor suo sperava di rivedere in quella ragazza scorta poco prima, la sua Nives, la vedova bianca ritornata per strada, spoglia del suo dolore e piena di una ritrovata gioventù.

Ma durò poco quella distrazione, e Antonietta fu subito risucchiata dalle chiacchiere delle due donne, dai fruscii delle bici sulla via e dai rumori della città vecchia.

Racconto di Vittoria Favaron e Elena Rosazza GianinAll rights reserved

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