Aiace Pardon è stato assassinato molte volte, in Stazione Centrale. «Era un uomo mite e timido con l’abitudine di scusarsi in continuazione», racconta Bianca. La volta in cui è stato ucciso per davvero, quel 10 febbraio nel parco Forlanini, strozzato, è stata a mio avviso la meno dolorosa.
La terza (e ultima) vita di Aiace Pardon, edito da Baldini&Castoldi, è un delizioso noir, specchio dei tempi, equilibrato, elegante. Ironico e drammatico insieme, come spesso sono la vita e la morte. Si muove attraverso il dialogo spassoso tra il detective Alex Lotoro – uno tutto d’un pezzo, pare, che mastica morti come fossero pasti da fast-food – e la signora Bianca, una senzatetto, che nonostante l’aspetto logoro possiede intelligenza integra e inusuali doti linguistiche. Ma c’è di più. Alessandra Selmi, l’autrice, non si lascia catturare da apparenti stereotipi ed è il motivo per il quale questo romanzo, che scorre negli occhi e nella testa come fosse una pellicola, è rimasto qui, negli scaffali, tra i miei preferiti.
Apparenti stereotipi, poiché in Bianca, se non gli abiti che indossa, nulla è stereotipato. I suoi atteggiamenti, il linguaggio che usa, il passato in cui non entriamo, non raccontano una clocharde qualunque. Raccontano le sventure che capitano, a cui a volte non si può sfuggire, come il destino, e che ti gettano in strada, a causa di scelte sbagliate, azzardate, o per volontà. Gli atteggiamenti di Bianca sono rapidi, compulsivi, come accade davanti al cibo, ma allo stesso tempo distanti, riflessivi, oserei dire: umani. Poiché spesso chi si aggira per stazioni ferroviarie o metropolitane infila il cuore nella tasca del cappotto, pensando che chi si accuccia in un angolo per ripararsi dal freddo sia un perdente, neppure più un uomo, uno che della propria vita non ha saputo farne nulla di buono, uno pericoloso, di poco conto, meno che mai utile per la società dei consumi. Bianca dimostra, attraverso l’autrice, l’inverso. Basta non fermarsi alle “unghie annerite e ricurve”, alle “gengive irritate”. Basta ascoltarla per toglierle di dosso quelle vesti lise e immaginare salotti profumati e chiacchiere eleganti. Ma nello stereotipo ci si ferma al giaccone sdrucito, al fetore insopportabile, al giudizio e spesso al pre-giudizio, un vizietto diffuso che impedisce di comprendere. E quelli che stanno dall’altra parte sono proprio come Alex Lotoro, il quale si imbatte in questa barbona grassoccia che lo tiene sulle spine, lo corregge, lo stupisce e contemporaneamente spalanca porte di conoscenza con la stessa facilità con cui si ingozza di dolci. Gli abiti del commissario sono ordinari, puliti, ma il suo linguaggio è sporco, interrotto, bucato, come il ragionamento a proposito della morte del povero Aiace. L’uno e l’altro si vestono di quelle ambiguità e incomprensioni che omettiamo per compiacere, rassicurarci, sopravvivere. Si punzecchiano, Lotoro e Bianca, ma ciascuno riconosce quel filo sottile che a volte lega viscere e cuore. Il loro rapporto, inizialmente obbligatorio date le circostanze, diviene infine un regalo inatteso, eppure rincorso, a mio avviso, pagina dopo pagina. Più che sapere cos’è accaduto, a Bianca importa conoscere gli ultimi istanti del suo amico, cos’ha provato, se si è sentito solo, ed è per questa ragione che va fino in fondo. Quanto siamo capaci, mi sono chiesta, di superare quel che vediamo e di ascoltare, ad occhi chiusi, tutto ciò che ci circonda, persone comprese? Forse avremmo un’immagine della realtà assai diversa, come sarebbe per Bianca. Ci battiamo per un mondo più onesto, più pulito, più giusto, ma cerchiamo tutto ciò soltanto nell’apparenza delle cose, quando spesso la bellezza si nasconde tra le ceneri, nella terra. La terza (e ultima vita) di Aiace Pardon è dunque un romanzo d’amicizia. Un noir che non rimuove il mondo aspro, le brutture, l’indifferenza, la cattiveria, ma che utilizza proprio questi strumenti per far brillare uno dei sentimenti umani più ambiti e fragili.
Gli invisibili. «Sto con i poveri e i reietti del pianeta, con gli scartati delle notti genovesi.» Diceva, Don Andrea Gallo. La Selmi rende udibile ciò che spesso viene taciuto: dà voce a chi resta ai margini, in silenzio, a coloro ai quali un parere non è richiesto perché il mondo può farne a meno. Ha reso visibili, seppure attraverso gli strumenti della finzione letteraria, coloro che sono spesso dimenticati dagli “uomini dalle scarpe lustre”, dai tipi in doppiopetto o dalle persone comuni. Ha reso visibili coloro che sono spesso dimenticati da tutti noi, e li dimentichiamo perché ne abbiamo paura e tendiamo a rimuovere ciò di cui abbiamo paura, a nascondere sotto il tappeto, a voltarci. Non facciamo pace con i nostri mostri né tendiamo loro una mano, e sgattaioliamo via velocemente quando ne vediamo uno o ci alziamo in metro per sedere un po’ più in là e non doverne sopportare la vista. Non amiamo vedere uomini e donne riversati su un fianco senza dignità, perché gli invisibili, gli ultimi, sono ciò che mai vorremmo essere. Ed è il nostro terrore: perdere dignità, diventare mostri ed essere vittime di un certo ostracismo moderno. In questa società pallida e malaticcia, che vuole la messa in piega sempre ben fatta e un sorriso smagliante, siamo diventati codardi. Non sappiamo far pace con noi stessi, con lo specchio, con ciò che siamo, con la mela marcia o il parere atroce ma vero di un amico. Non abbiamo fatto un patto con la bruttezza e ci teniamo una terribile bellezza di silicone che svelerà prima o poi il volto decomposto. Meglio allora Bianca, che non nasconde i pochi capelli e neppure il suo amore per i libri, l’arte. In chiesa si può andare anche per ammirare Giotto, non soltanto per inginocchiarsi. Ma questo Lotoro non lo sa e lo impara attraverso le parole – «diceva cose bizzarre sì, ma non prive di senso» – dell’amica vagabonda.
Bianca, Aiace, Lotoro sono liberi dagli stereotipi e strozzati dalla vita. Personaggi reali, autentici, nati dall’intuizione e dal talento di Alessandra Selmi, il cui stile pulito, ricercato e raffinato rende godibile questa avventura. Alle spalle dei protagonisti, si agita Milano nel susseguirsi dei mesi e delle stagioni, che la scrittrice descrive in maniera deliziosa e con la consueta ironia nel capitolo quarantasette. Non anticipo neppure una riga, sarebbe un vero peccato.
La notte qui a New York non è tenera. Il freddo si acutisce e l’umidità penetra nelle spalle e nei piedi. L’asfalto, che in agosto è rovente, in inverno, anche quando vien giù nevischio, si fa lastra di ghiaccio. Qualche giorno fa ho preso la metro per raggiungere un posto giù a downtown, non lontano dalle esplosioni di pochi mesi fa. La vita ricomincia, la routine anche. Qui nessuno dorme mai. Aiace Pardon si è seduto accanto a me. Si dondolava, teneva il capo basso, batteva il palmo sulla panca in metallo come se gli fosse successo qualcosa. Sono rimasta al mio posto, un altro di fronte mi guardava, ma io ho distolto lo sguardo. D’un tratto Aiace si è tolto la sciarpa, bianca e blu, in lana spessa, sporca qua e là come le sue mani, e si è alzato, lasciandola lì accanto a me. Ha tentato di raggiungere la carrozza successiva, ma è rimasto tra i due vagoni, dov’è vietato sostare. La 23esima, la mia fermata. Sono andata via preoccupata, perché a New York la notte in inverno non è tenera.
di Federica Piacentini, all rights reserved