La strada

di Rabolas

La strada

di Rabolas

La strada

di Rabolas

Rue Bourbon-le-Chateau è la via di Parigi che il conte Baltusz Klossowski de Rola, detto Balthus, dipinse in un famoso quadro nel 1933. Una strada in cui sfilano automi che paiono usciti da un sogno, e in cui per accidente si svolge parte di questa storia.

Il suono della strada è quello che esce dalle auto che sfrecciano veloci tra palazzi, muri di cemento e cantieri a cielo aperto. Toni di basso, spinti da un ritmo irregolare.

“Ci sono due modi di vivere” aveva spiegato un giorno Élie a Kien, faticando sulle scale di casa con la borsa della spesa.

“Si può camminare sulla terraferma facendo ciò che è giusto e rispettabile oppure si può camminare sulle acque. Ma per farlo è necessario credere, credere incessantemente”.

Filosofia spicciola da strada aveva pensato Kien allora, ma da quando Baltus era sparito, senza accorgersene aveva proprio iniziato a camminare sulle acque, e a credere a modo suo. “Basta un attimo di incredulità per cominciare ad affondare” gli aveva infine detto il vecchio vicino di casa mentre rovistava nelle tasche della giacca in cerca delle chiavi.

“David ti licenzia se non ti vede arrivare puntuale”. Il suo coinquilino Fan, con quel misto di noia e indifferenza, non faceva che irritarlo quando lo prendeva in giro imitando la voce in falsetto del loro capo: “Ci sono tavoli da preparare. C’è il bancone da pulire”.

“E tu spiegami come ha fatto Baltus a scappare” tagliò corto, con rabbia, Kien mentre raccoglieva i fogli su cui aveva stampato il suo numero di cellulare sotto la foto di un cane. Avrebbe fatto a meno di David e del suo stramaledetto lavoro se fosse servito a ritrovare Baltus.

La sera prima quando Fan gli disse con un mezzo sorriso sulle labbra che il cane era sparito, Kien senza aprire bocca si precipitò al cimitero, dove erano stati al mattino, correndo lungo Avenue de Verdun fino all’ingresso. Lo chiamò a squarciagola.

Poi, tornando indietro verso la fermata dell’autobus, con l’affanno in cuore chiese a due tizi dall’aria dimessa se avevano visto un cane bianco di taglia media. I due scossero appena la testa senza fare mezza parola.

Allora riprese a correre. Attraversò Avenue de Verdun e si infilò in rue Hoche tra auto parcheggiate e sabbia di cantiere. “Baltus! Baltus!”

Arrivato sotto le torri delle Cité chiamò ancora “Baltus! Baltus!”. Qualche finestra si accese. La città era un mortorio, non meno del cimitero.

Kien non poteva credere che Baltus fosse scappato senza ragione.

“Ho aperto la porta ed è schizzato via come un razzo” si era giustificato Fan, che non aveva mai sopportato di avere un cane tra i piedi; e Kien si chiedeva perché mai sopportasse di dividere casa con uno così.

Dalla Cité proseguì per Rue Jules Ferry – casette basse – tagliò per Rue Poulmarch – “Baltus! Baltus!” – e chiamò, smorzando il tono della voce, appeso alla rete attorno a Square des Alliés. Infine, gironzolò intorno alla stazione metro per un po’.

Passando per Avenue Thorez arrivò fino alla Promenade des Petits Bois che attraversò facendosi luce con il flash del cellulare e con il cuore che batteva a mille. Sbucato in Rue Gabriel Péri si spinse fino al parco chiuso di Cormailles.

Infine ritornò verso Avenue de Verdun costeggiando il muro del Boulevard périphérique; una strada vuota e illuminata, un po’ surreale.

Forse perché era solo e la notte gli metteva tristezza, Kien si fermò un istante a guardare il cielo che sembrava un mare cupo. A volte non è questione di stelle, ma del punto esatto in cui cade il desiderio. La notte scivolava lontano e aveva il suono del ritmo precipitoso che arrivava di là dal muro, dal Boulevard périphérique. La notte, se non dormi, l’ascolti.

Il mattino, dopo aver risposto male a Fan, Kien uscì di casa facendo la strada della sera diretto alla metropolitana. Appese ai pali la foto di Baltus, di tanto in tanto fermava qualcuno e domandava. Distribuì fogli tra i viaggiatori della metro. Poi tornò al cimitero, all’ingresso di Avenue de Verdun 32: entrò, diede un’occhiata, chiese ai custodi.

Di ritorno a casa dal suo giro, Élie gli diede un buon consiglio: “Vai a chiedere ai canili di Ivry”.

Mentre parlavano, arrivò la telefonata tanto attesa.

“Dove?! Rue Bourbon… Può, può ripetere? le-Chateau? Rue Bourbon-le-Chateau?”

“Rue Bourbon-le-Chateau” ripetè lentamente per memorizzare il nome della strada.

“Dov’è?” chiese a Élie, cancellando la conversazione di prima.

“Sesto arrondissement” gli rispose Élie, che come tutti i vecchi conosceva bene la città.

“Ma è oltre il Périph!”

Élie non gli disse che gli sembrava inverosimile, che la città era piena di avvistamenti di animali e se proprio Baltus era scappato verso Parigi, era più probabile che si trovasse al Bois de Vincennes. Vedeva Kien camminare sulle acque mentre si immergeva nello smartphone cercando la strada per arrivare a Rue de Bourbon-le-Chateau: la metro fino a Jussieu, poi la linea gialla in direzione Boulogne, fermata Mabillon dove si aspettava un bagno di feste.

“Buona fortuna!”

Durante i cinquatotto minuti di tragitto, Kien pensò di tutto: che avrebbe sentito abbaiare Baltus e sarebbe stato contento; che avrebbe ricevuto feste e le avrebbe rese. Che l’avrebbe sgridato – poco – mentre lo abbracciava, e gli avrebbe sussurrato di non scappare mai più. Da Baltus aveva imparato che era bello ricevere amore.

Uscito da Mabillon si guardò attorno con speranza ma vide solo gente elegante e scarpe di classe. Attraversò il boulevard infilandosi in Rue de Buci. Prima che la strada cambiasse prospettiva, arrivò all’angolo di Rue de Bourbon-le-Chateau. Una strada corta dal marciapiede stretto che a un certo punto si allargava.

A un tavolino del cafè all’angolo notò un tizio dal cappello improbabile che gesticolava indicando i palazzi all’amico seduto di fianco. Quando Kien gli passò davanti lo sentì proprio dire “Balthus”. Allora si fece coraggio, si avvicinò con timidezza e gli chiese, gli chiese di Baltus.

“Cosa? cosa vuoi?” il tizio del cappello non lo lasciò neanche parlare.

“No, no, no” si mise a gridare facendogli cenno di andar via. Quando due camerieri uscirono dal cafè, Kien li guardò con agitazione, poi si allontanò per quel budello di strada.

Si girò indietro più volte, fermo davanti ad un negozio di cioccolata, poi ancora davanti alla vetrina di un’enoteca. Finché prese coraggio ed entrò in uno di quei negozi, da una porticina di legno, uscendo pochi istanti dopo con la stessa faccia lunga e preoccupata con cui era entrato.

All’incrocio con Rue de l’Echaudé gli sembrava più promettente girare a sinistra. Sbucò di nuovo sul boulevard da cui era arrivato, ampio, vitale, pieno di gente, trafficato. Tutti camminavano veloci e attraversavano gli incroci ancora più in fretta. Gli sembrava di essere l’unico a non avere una meta verso cui andare.

Si spinse oltre l’Odeon, fino a Cluny. Nei giardinetti di fronte alla metro si sedette su una panchina, con lo smartphone in mano, accanto a una comitiva di turisti chiassosi.

Guardava la ragnatela di strade della città che lo schermo non riusciva a contenere. Avrebbe voluto volare, muoversi rapidamente, essere ovunque. E invece, sentiva perdere la speranza e mentre il cielo si faceva grigio cominciava ad affondare nel dubbio che non avrebbe mai più rivisto Baltus. Dallo schermo dello smartphone era come leggere sui tabelloni di una stazione nomi di località sconosciute. E mentre fantasticava, “Tu sei qui” gli indicava il segnaposto della mappa tra le mani.

di Rabolas, all rigths reserved

 

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