La stagione delle proteste

di Salvatore D’Apote

La stagione delle proteste

di Salvatore D’Apote

La stagione delle proteste

di Salvatore D’Apote

Il mondo, ultimamente, sembra essersi svegliato nel bel mezzo di una nuova stagione: la stagione delle proteste.

In Cile tutto è scattato per un aumento delle tariffe della metropolitana. In Libano una tassa sulle chiamate WhatsApp ha acceso gli animi dei dissenzienti. In India, invece, si trattava di cipolle. Hanno fatto poi seguito anche manifestazioni di massa in Bolivia e in Iraq.

Migliaia di cittadini avviliti si sono riversati per le strade, protestando contro delle misure inaspettate e inasprendo ancor di più una latente insoddisfazione verso le élites politiche. A primo impatto sembrerebbe non esserci alcun filo conduttore che possa legare i dissensi in questione. Eppure, in molti dei paesi in subbuglio, è possibile identificare alcune somiglianze. Cos’è che accomuna – più o meno strettamente – i paesi in rivolta? Democrazia deludente, corruzione vertiginosa e un futuro incerto per la fascia giovanile della popolazione. Sono questi i tre fattori che – al netto delle misure scatenanti – hanno infiammato le proteste che hanno sconvolto intere comunità.

Non molto tempo fa il presidente cileno Sebastián Piñera si è vantato di come il suo paese fosse un’oasi di stabilità in America Latina. Tutto questo per vedere poi – a distanza di pochissimi giorni – migliaia di manifestanti attaccare fabbriche, incendiare stazioni e saccheggiare supermercati, sconvolgendo il Cile nel peggior modo possibile. Piñera, infatti, dapprima si è visto costretto a schierare truppe militari per le strade, per poi proporre un cambio di agenda che mettesse fine alle rivolte. Al cambio di agenda sono poi seguiti anche importanti sconvolgimenti all’interno del governo: via sia il ministro degli Interni, Andrés Chadwick Piñera (cugino del presidente), sia il ministro delle finanze Felipe Larraín. Questi cambiamenti, tuttavia, difficilmente salveranno la reputazione del presidente, giunta ormai al suo minimo storico.

In Libano, invece, il primo ministro Saad al-Hariri sembrava essere sopravvissuto alle recenti e imbarazzanti rivelazioni su un regalo di 16 milioni di dollari a una modella che incontrò nel 2013. Come una valanga, l’annuncio della tassa sulle chiamate WhatsApp ha poi travolto il primo ministro che, dopo intensi giorni di rivolta, ha annunciato le sue dimissioni, accogliendo le richieste delle piazze. Con uno dei più alti livelli di debito pubblico e un’occupazione bassissima, il Libano sembra incapace di fornire servizi pubblici di base come elettricità, acqua potabile o un servizio internet che sia quantomeno decente.

Queste proteste altro non sono che l’evidenza di un trend che si sarebbe sviluppato negli ultimi anni: le società di tutto il mondo sono diventate molto più propense a perseguire un cambiamento politico radicale scendendo in strada, combattendo così le proprie battaglie sociali.

Il numero di proteste è aumentato bruscamente negli ultimi tempi, in concomitanza con diversi fattori trasversali: un rallentamento dell’economia globale, divari immensi tra ricchi e poveri e una grande fetta della popolazione giovanile che ha come sola speranza un futuro in bilico. Un blocco a livello globale dell’espansione democratica – poi – lascia in eredità ai cittadini governi poco reattivi, rinvigorendo gli attivisti che vedono nell’ azione di strada l’unico modo per portare un cambiamento.

In paesi dove la popolazione non ha voce in capitolo, si scatenano proteste di massa, mentre in paesi dove le elezioni sono ancora decisive – come gran parte degli Stati occidentali – lo scetticismo sul vecchio ordine politico ha prodotto movimenti populisti, nazionalisti e antiimmigrati. Stesso dissenso che si manifesta in forme differenti, dunque.

I diversi focolai di disapprovazione hanno quindi dei punti in comune, soprattutto in Medio Oriente, dove appare doveroso un confronto con gli sconvolgimenti della primavera araba del 2011. Le recenti proteste, infatti, sono guidate da una nuova generazione che si preoccupa meno delle vecchie divisioni. Anziché chiedere la testa di un dittatore – come hanno fatto molti arabi nel 2011 – i libanesi hanno incriminato un’intera classe politica, vista come responsabile in toto del decadimento del paese.

In questo clima d’incertezza guai, però, a guardare soltanto una faccia della Luna. Se è infatti vero che il numero delle proteste è in aumento, lo stesso non si può dire per il loro tasso di successo, in netta diminuzione rispetto a prima. Più proteste, quindi, ma sempre meno efficaci del previsto. Se le proteste sono più veloci da innescare e più facili da diffondere rispetto ai decenni precedenti – soprattutto grazie alla diffusione dei social media – esse appaiono anche più fragili. La meticolosa mobilitazione lenta duratura, che una volta era una caratteristica dei movimenti popolari, non esiste più. Le proteste che si organizzano sui social media possono crescere in fretta e, altrettanto in fretta, crollare senza successo.

Non basta quindi un timido accenno di ribellione a trasformare le richieste dei dissidenti in manifestazioni in grado di sconvolgere un paese intero. L’India, in questo senso, rappresenta l’esempio perfetto. L’impennata dei prezzi delle cipolle ha fatto sì che i contadini bloccassero le autostrade, organizzando proteste di breve durata. Ma la frustrazione non è riuscita a trasformarsi in vere e proprie manifestazioni di massa, poiché i dissensi non hanno trovato nessun canale dove poter essere immesse. La stessa opposizione indiana è in disordine, mentre le divisioni di casta e religione dominano gran parte del dibattito politico. Il caos aggiunto al caos non ha quindi creato nessun effetto degno di nota.

Le proteste delle ultime settimane rappresenterebbero – quindi – solamente la punta dell’iceberg di un’incertezza che è cresciuta col tempo.

Ad incertezza, tuttavia, non si risponde con incertezza.

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