La pelle che abito, un thriller chirurgico

di Diego Mongardini

La pelle che abito, un thriller chirurgico

di Diego Mongardini

La pelle che abito, un thriller chirurgico

di Diego Mongardini

Un chirurgo plastico (Antonio Banderas), un’aiutante (Marisa Paredes), una vittima (Elena Anaya), lutti impalpabili, follia, ossessione, telecamere nascoste, colpi di scena, primi piani congelanti, scambi di sesso ma non di identità, madri con segreti mai confessati, figli/fratelli ignari l’uno dell’altro.

La pelle che abito, il nuovo film di Almodóvar, un thriller che riconferma il regista come grande maestro della macchina da presa. Riprendendo le fila da “Gli abbracci spezzati” (2009), dal puzzle che compone la trama di un amore impossibile e tragico, dalle scene di sapore hitchcockiano, Almodòvar in questo ultimo film tesse un ragnatela terribile, convulsa, ripetitiva, gotica, di eventi che devono essere scomposti e ricomposti per giungere ad un finale drammaticaticamente conciliante. Escluse un paio di scene, in cui si riconosce la vena surreale, ironica e birichina dell’Almodóvar più ispirato, il film offre un quadro angoscioso, soffocante, quasi delirante, dei personaggi e del loro ambiente d’azione. Un film che lo stesso Banderas in un’intervista ha definito il film di Almodóvar più attento ai dettagli, più orientale. Un film che parla della vendetta e dell’identità, dell’onnipotenza della medicina al servizio di un progresso sempre più inquietante e ambiguo. Identità  che restano le medesime, corpi e sessi che cambiano, che si modellano chirurgicamente a seconda della volonà  di un fabbricante di rancore. Il grottesco diventa reale e la scienza diventa a un tempo grottesca, sotto il peso di una volontà  malata.

Fin dall’inizio si sente il bisogno di un riscatto, di una rivalsa, che rimbalza da un personaggio all’altro fino a chiudersi in un cerchio macabro in cui nessuno si salva, perché chi sopravvive cova il dolore di una vita perduta, sacrificata, cambiata di senso.

Il regista dirige un team attoriale affiatato e assolutamente credibile, anche se la storia nasconde negli angoli irrealtà  mai così attuali, mai così dolorose. La trama è stata cucita da un chirurgo geniale, con punti di sutura che lasciano una cicatrice, seppure quasi invisibile. La catarsi c’è, ma dopo la sua turbolenta venuta niente può tornare alla normalità, anche se la vita trova sempre un modo per riallinearsi, anche se terribile, violento.

Un film che affonda nella pelle, che trafigge, che turba, che ingloba nel suo meccanismo elegante.

La società  è un abisso senza fine, con vittime e carnefici, con prigionieri e boia, in cui il sacrificio è l’unica arma per non cadere, o per cadere in piedi.

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