La mafia sbarca ufficialmente nel cuore di Roma!

di Isabella Inguscio

La mafia sbarca ufficialmente nel cuore di Roma!

di Isabella Inguscio

La mafia sbarca ufficialmente nel cuore di Roma!

di Isabella Inguscio

Periodo propizio per la giustizia capitolina. Dopo i vari colpi, già inferti con una serie di operazioni eseguite nei confronti di quello che la magistratura della Dda definisce “un clan criminale potentissimo, il più potente e radicato nel Lazio”, arriva per i Casamonica quello più duro: la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione riconosce la natura mafiosa ex art. 416 bis c.p. alla loro organizzazione, dichiarando inammissibili i ricorsi presentati dai legali di 18 indagati contro l’ordinanza del Riesame di Roma che, lo scorso luglio, aveva confermato in gran parte le misure cautelari in carcere disposte dal gip per associazione mafiosa.

Dopo l’operazione “Gramigna”, condotta la scorsa estate con l’intervento di circa 150 carabinieri del comando provinciale di Roma, coadiuvati dalle unità cinofile e dal personale dell’Ottavo Reggimento Lazio, la DDA riconosceva che i 37 soggetti coinvolti, appartenenti ai Casamonica, erano da considerare responsabili – in concorso fra loro e con ruoli diversi – di aver costituito “un’organizzazione dedita al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti, all’estorsione, all’usura, e alla concessione illecita di finanziamenti, tutti con l’aggravante del metodo mafioso. Richiedeva così l’applicazione di misure cautelari poi effettivamente disposte dal Gip.

Solo la prima di una serie di attività volte a sgominare un clan compatto, numericamente imponente e che, nonostante il linguaggio difficilmente decifrabile, si fa capire perfettamente grazie ad un modus agendi caratterizzato da larvate forme di violenza e minaccia, veicolate attraverso un compulsivo approccio verso le vittime, sottoposte a continue richieste prive di ogni giustificazione e che finiscono per metterle in uno stato di totale assoggettamento.

Questo per lo meno il quadro che emerge nitido da “Gramigna Bis”, operazione che, in prosecuzione della prima succitata, ha determinato l’applicazione di 23 misure cautelari (20 in carcere, 1 agli arresti domiciliari e 2 obbligo di dimora) per i riconosciuti membri delle famiglie Casamonica, Spada e Di Silvio (tra questi anche 7 donne).

Le accuse nei confronti degli indagati sono esattamente analoghe alle precedenti. Difatti, le risultanze acquisite nella seconda fase dell’attività investigativa avevano consentito di ricostruire nuove condotte di usura, estorsione, intestazione fittizia di beni, cessione di sostanze stupefacenti, poste in essere sia da soggetti già arrestati nel luglio 2018 (Gramigna), fra cui i due promotori Casamonica Luciano e Casamonica Giuseppe detto Bìtalo, nonché Casamonica Salvatore detto Do’, sia da altri personaggi, quasi tutti appartenenti alle famiglie sinti Casamonica/Spada/Di Silvio.

C’è però una novitàche emerge da questa operazione e che ha indubbiamente agevolato le indagini: un atteggiamento più collaborativo da parte delle vittime. Questo nonostante il Gip Gaspare Sturzo ribadisse che “dei Casamonica e dei loro illeciti comportamenti in forma associata o singola, contando sulla forza di intimidazione del gruppo, le persone hanno paura”.

Proprio dalle dichiarazioni rese da una di queste, infatti, si apprende come “questo non è un gioco. È pura verità. I Casamonica oggi non fanno più usura con le minacce perché sanno di poter essere intercettati o di essere denunciati. Sono tutti collegati fra loro. Fanno bene i giornali a definirlo un clan. E, vi ripeto, non sono uno sprovveduto, faccio il commerciante da una vita e di furbetti ne ho trattati tanti ma loro sono degli abili soggiogatori. Vi dico anche cosa fanno per farti avere timore: ti fanno assistere a delle scene di scazzottate tra loro, anche con l’uso di armi, per farti capire che possono essere anche violenti. Una di queste scene l’ho vissuta personalmente ed ho già riferito nel corso delle indagini che vi ho accennato in premessa e mi hanno visto vittima di usura ed estorsione. Questa è la tecnica, credetemi. Non è possibile uscirne vivi. Ultimamente sono arrivato al punto di fare cattivi pensieri relativamente alla mia vita”.

Parole forti, che lasciano sgomenti perché troppo spesso ci si culla dietro la convinzione che “la mafia non è qui, la mafia è al sud!”. Ma viene spontaneo chiedersi: come possono definirsi – già solo nell’immaginario collettivo, ancora prima che in sentenze applicative delle norme del nostro ordinamento giuridico – quei metodi che vengono tanto precisamente descritti dalle vittime capitoline e dai collaboratori di giustizia, in particolare Fazzari e Cerreoni (la cui attendibilità è stata riconosciuta dal Tribunale), e che nulla sembrerebbero avere da invidiare a quelli applicati dalle “Mafie tradizionali”?

Stando infatti alle dichiarazioni rese dai collaboratori quella del Clan Casamonica è a tutti gli effetti un’organizzazione basata su un sodalizio criminoso ed all’interno della quale sono distinguibili una serie di ruoli precisi, taluni svolti in maniera “specifica ed immutata (si pensi a Casamonica Giuseppe, vertice del sodalizio)” – come si legge nella sentenza della Cassazione –, talaltri “interscambiabili (…) tra i singoli sodali (riscossione del denaro, utilizzo dei metodi intimidatori, contatti con le persone offese dai reati-fine, ingrasso nella base logistica del Clan)”. Tutti elementi corroborati poi dalle testimonianze delle vittime, le cui esperienze combaciano con la descrizione dell’organizzazione fatta dai collaboratori.

Sulla base di tutti questi elementi, “emerge chiaramente che tutti gli indagati (…) erano parte di un nucleo associativo familiare ben radicato nel territorio romano e ben noto alla popolazione, godevano di una base logistica comune all’interno della quale tenevano armi e sostanze stupefacenti e nei pressi della quale le varie vittime venivano convocate da diversi membri, svolgevano la propria attività con metodo fortemente intimidatorio (…)”.

Ebbene, basta anche solo una rapida lettura dell’articolo 416 bis, comma 3 del codice penale per accorgersi di quanto siano combacianti le condotte materialmente realizzate dai componendi del Clan (capillarmente ricostruite dalla magistratura grazie ai molteplici elementi di prova a loro disposizione) con quelle descritte dal legislatore:

“L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”.

Alla luce di tutto questo, difficilmente la natura mafiosa risulta negabile.

Molti potrebbero pensare che questa “scoperta”, cristallizzata in una pronuncia della Corte di Cassazione, a ben poco servirà per il futuro. Chi, però, immagina ciò, ignora una serie di rilevanti aspetti.

Non si può negare che il riconoscimento in questione indubbiamente rappresenti un notevole progresso. Non sono infatti mancate, nel corso della storia romana, esperienze criminali – ben note alle pagine di cronaca – che avrebbero potuto essere ricomprese nel novero delle associazioni di cui all’art.416 bis c.p.: basti pensare alla Banda della Magliana (organizzazione operante nella Capitale nella seconda metà degli anni 70). Evidentemente però i tempi non erano così maturi per arrivare “a tanto”. L’affermazione della natura mafiosa del Clan Casamonica in una sentenza quindi può, a parere di chi scrive, considerarsi il frutto di un’attenzione maggiore posta al fenomeno nonché, si spera, della voglia di porvi un argine forte e resistente.

Le conseguenze che derivano da tale riconoscimento, infatti, sono – da un punto di vista squisitamente giuridico – ben diverse rispetto a qualsiasi altro capo di imputazione ed indubbiamente più pregnanti ed aspre. Gli esempi possono, a tal proposito, essere molteplici.

Si pensi, in primis, alla possibilità di ricorrere in fase di indagine a mezzi di intercettazione più invasivi della sfera privata del soggetto in presenza di “sufficienti indizi” (non “gravi” come generalmente richiesto dal legislatore) di reato. Questo quello che accade, ad esempio, con l’utilizzo del c.d. trojan horse, il virus informatico autoinstallante attivato su computer, smartphone, tablet, che può “intercettare” ogni forma di comunicazione (whatsapp, skype, telegram, facebook, instagram, e-mail e sms) ma anche videoregistrare l’indagato ovunque vada, con valore di prova a prescindere dalla preventiva individuazione dei luoghi in cui effettuare l’intercettazione.

Ed ancora, guardando alla fase di esecuzione della pena, si ricordi che l’art.416 bis c.p. rientra nel catalogo dei c.d. reati ostativi che impediscono, ad esempio, la sospensione dell’esecuzione. In altre parole: colui che viene condannato a tale titolo sarà obbligato a scontare la pena detentiva all’interno di un istituto penitenziario, potendo accedere a misure alternative alla detenzione solo in caso di collaborazione con la giustizia.

Si pongono dunque le basi per interventi giudiziari sempre più duri nei confronti del Clan, i quali, se correttamente attuati, potrebbero risultare idonei a mettere in ginocchio l’organizzazione che opera malamente nel territorio romano. Non resta quindi che attendere, fiduciosi, l’evolversi dei futuri eventi.

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