LA DOLCE VITA, O DI UN SOGNO SENZA VOLONTÀ

di Aretina Bellizzi

LA DOLCE VITA, O DI UN SOGNO SENZA VOLONTÀ

di Aretina Bellizzi

LA DOLCE VITA, O DI UN SOGNO SENZA VOLONTÀ

di Aretina Bellizzi

Una umanità disabitata popola le vie e le piazze vuote di Roma, le ville dei nobili e i quartieri popolari. È un’atmosfera di vacuità quella che riempie la città eterna ne La dolce vita di Fellini. Una festa continuata che non finisce mai, che ha il sapore amaro della noia e non quello dolce della gioia. Roma appare come una Babele in cui più che dalla bellezza si rimane storditi dalla confusione, dal vociare ininterrotto e inutile della mondanità, dell’effimero ricordarsi di oggi, di stasera, di questa singola e unica notte in cui tutto può accadere anche se nulla accade davvero. Marcello Rubini, il protagonista del film (un indimenticabile Marcello Mastroianni), torna tutte le sere a via Veneto per poi andare via, seguire i volti, gli sguardi e le storie di famosi personaggi del cinema e della vita mondana. Per inseguire se stesso, per cercarsi e non ritrovarsi mai. Mai, nemmeno in compagnia del padre. È un estraneo, per la compagna, per le tante donne che frequenta, con le quali tenta di riempire il tempo e lo spazio, anche quello interiore. Non è solo un inetto. È un bambino salito su una giostra dalla quale non vuole e non può più scendere. Una giostra che continua a girare vorticosa, a illudere che quella della notte sia l’unica luce possibile, l’unica visibile. Eppure è una luce artificiale che fa male, che addolora e angoscia e fa sentire soli.

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È una lente deformante quella attraverso cui Marcello vede, una lente che dilata il tempo e lo spazio in un unica lunga notte romana.  Una notte nella quale “la luce si fa avara-amara l’anima”. Una notte dalla quale è impossibile uscire. E allora della dolcezza del vivere rimane ben poco, se il vivere è un reiterato ripetersi di una stessa identica routine. Cambiano solo i personaggi e i luoghi, ma gli uni e gli altri sono ugualmente disabitati e impossibili da abitare. Cambiano i locali, o meglio, le location, ma si ha la sensazione di rimanere dentro ad un labirinto, ad una grande casa disabitata, un hotel abbandonato di cui Via Veneto è il corridoio centrale, quello su cui si affacciano tutte le stanze. Tutti si conoscono e nessuno conosce nulla dell’altro se non i pettegolezzi, i rumores. Nessuno offre all’altro la propria umanità ma solo lo sfoggio di se stesso, il proprio abito migliore che è insieme anche il più logoro, il più insignificante. Nessuno si vuole bene per davvero per più di una sera. E anche Sylvia (Anita Ekberg), che è insieme una e tutte le donne del mondo, che è la prima e forse l’ultima donna della creazione, non è che una sfuggente apparizione. Sembra quasi sia arrivata a Roma per mostrare un miracolo, per dare linfa vitale con la sua straordinaria e florida bellezza alla bellezza mortale di Roma. Per salvare qualcuno, forse Marcello, lei che non può salvare neppure se stessa. La sua presenza imponente e contraddittoria lo illude, lo avvolge con grazia nel velo della purezza e del peccato. Lo invita, diafana e insieme spaventosamente reale, a immergersi nella fontana di Trevi. Per un solo, lungo, attimo Sylvia non è più l’ospite d’onore di un circo che si ripete uguale tutte le sere. Immerso nell’acqua della fontana di Trevi, alla quale si abbandona senza riserve, con assoluto e inaspettato piacere, Marcello sente finalmente il sapore del nuovo, del sacro e del proibito insieme. Ma subito l’illusione si rompe.

La Dolce VitaTorna a frequentare gli amici di sempre e di mai dei quali non sa molto, forse nulla. Come di Steiner, il suo collega giornalista, che credeva di conoscere. Lo immaginava felice, incapace di fare del male, capace di pensare solo cose grandi e belle, lui che si sentiva così piccolo e meschino. Con la sua morte il velo si squarcia. Marcello è sul punto di cadere, di riconoscere il vuoto e di sottrarsi ad esso. C’è la tragedia ma non la catarsi, non la disperazione. E questo rende tutto più claustrofobico. Non c’è via di fuga, neppure per il dolore. È una festa e non deve finire, la dolce vita. E allora anche Marcello torna alla solita routine. Torna ad essere il simulacro grottesco di sé. Ora, in modo ancor più umiliante di prima. La morte dell’amico, invece che allontanarlo dall’abisso ha aumentato in modo esponenziale la velocità di caduta. Marcello si abbandona ormai senza riserve a se stesso e alla vuota umanità che lo circonda. Fellini mette a nudo i suoi personaggi, li lascia senza difese, li presenta allo spettatore come umiliati e offesi, come vittime di sé e della propria indolenza. Eppure, a loro modo animati da uno slancio vitale o meglio vitalistico, tentano con tutte le forze e con nessuna volontà di strappare attimi preziosi al tempo e alla noia. Alla decadenza che come un’ombra oscura incombe su Roma e sulla sua eternità. La città appare impegnata in un faticoso tramonto, di sé e della sua bellezza. Faticoso perché lento e perché impossibile, anche se necessario. Roma non può esimersi dal trionfo dell’effimero che al suo interno si agita e come tutto ciò che contiene deve saper essere mortale, decadente. Così la sua bellezza rimane confinata ad un pallido contorno, allo stanco arredamento di una villa vuota come la giornata di chi la abita. Quando Marcello si accorge che la dolce vita è una illusione, che l’umanità di cui fa parte non può, anche se volesse, essere anodina, ignara del dolore, dell’amaro, del male di vivere, è troppo tardi. Nessuno può salvarlo, nessuno può svegliarlo da un sogno che ha già i connotati dell’incubo. La dolce vita diventa così una gabbia dorata dalla quale è impossibile fuggire. Anita Ekberg, una Calipso troppo bella per essere una donna reale, per essere vera e perfettibile, per non essere anche lei un sogno. Ma se svegliarsi significa scoprire che la vita vera talvolta sa essere più amara della dolce vita, allora è meglio continuare a dormire, a sognare, è meglio tornare nella gabbia dorata. Fuggire il mare, la sua incommensurabilità, fuggire l’ignoto che è la salvezza, fuggire l’unica possibile catarsi. Marcello non ne sente il richiamo, è troppo stordito dal tutto che è nulla e dal nulla che è tutto. Dal brusio assordante di ciò che lo circonda, della Roma che lo immerge e lo sommerge con il suo carico di eternità e di morte. Marcello non sente – o forse ha paura di sentire – la voce della ragazza che lo chiama, lo invita a seguirla e torna indietro, a inseguirsi dove non può trovarsi. L’impossibilità di sentire si traduce anche nell’impossibilità di comunicare e di farsi capire. Ed è su questa ineffabilità che si apre e si chiude il film. Prima l’elicottero, poi l’infrangersi delle onde sulla spiaggia coprono con il loro rumore le voci dei protagonisti riducendoli a dei labiali incomprensibili. L’impressione che se ne riceve è quella di una gran confusione che se all’inizio del film ha il tono gioioso della festa, alla fine del film ha il tono cupo della tragedia, dell’impossibilità, della frustrazione del desiderio di cambiamento non accompagnato dalla volontà. Non c’è alba e non c’è tramonto in questo lungo e inesorabile continuum di sogno.

È un viaggio al termine della notte che termina nella notte, la Dolce vita.

di Aretina Bellizzi, all rights reserved

 

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